Tra i privilegi di essere visiting fellow all’Italian Academy for Advanced Studies della Columbia University per un semestre, c’è anche quello di avere una sedia riservata in prima fila per ascoltare il primo ministro Enrico Letta in visita a New York.
L’Italia sarà presidente dell’Unione nel secondo semestre dell’anno prossimo. E ci saranno nuove elezioni europee. Finisce la legislatura dell’austerity e comincia la legislatura della crescita. Ci vogliono nuove istituzioni europee, istituzioni non solo a 28, ma anche per il diciotto membri dell’euro, la moneta unica che è stata il simbolo della crisi europea di questi anni. Nuove forme di governance che permettano decisioni veloci, e una de-responsabilizzazione della BCE, la banca centrale europea, che è stata costretta a giocare un ruolo troppo importante durante questa crisi. Non è la banca centrale che può decidere la politica e l’etica europee.
Letta continua con il suo europeismo: bisogna convincere l’Inghilterra a restare in Europa. Se i conservatori fossero rieletti in Inghilterra nel 2015, promettono un referendum entro il 2017 in cui si chiederà ai cittadini se stare dentro o fuori l’unione europea. Letta insiste che l’Europa, nonostante la crisi di questi anni, è una storia di successi: che tanti paesi premono alle porte per entrare a farne parte. Che bisogna cambiare le ragioni per le quali siamo insieme: non più il passato, l’Europa unita che non si farà più la guerra, simboleggiata per la generazione di Letta – che è la mia – da quella foto che ancora mi emoziona di Mitterand et Kohl che si tengono per mano, il presidente francese piccolissimo vicino a quel gigante tedesco, a sancire l’Europa come spazio di pace per sempre. Bisogna inventare ragioni nuove per stare insieme, che non dipendano più dai morti della Seconda Guerra Mondiale, dall’Olocausto, ma da uno stile di vita comune, un amore per la qualità, la cultura e la tolleranza. L’Europa è un’unione di minoranze, ci sono paesi che hanno meno di quattro milioni di abitanti, è dunque un esempio per il mondo intero di un vivere comune civile, di quel concetto urbano di civiltà che in Europa fu inventato e che europeo rimarrà per sempre.
Gli studenti, preparatissimi, lo incalzano, le domande sono numerose e precise: come fare i conti con il fatto che dal 2001 al 2011 l’Italia è stata il paese del G8 con meno crescita economica? Come si pone l’Europa davanti all’Asia, in particolare alla Cina che si sta aprendo agli investimenti internazionali? Come conciliare un’Europa competitiva a livello mondiale con l’enorme spesa pubblica europea?
Letta risponde bene, preparato, in modo conciso. Presenta la sua visione come se questa squadra politica e questo parlamento siano impiantati nel paese per restare a lungo. Tutta quella serietà, classe e convinzione mentre in Italia il parlamento è minacciato dalle dimissioni di massa dei deputati e senatori del PdL in difesa del loro Grande Capo.
Come si fa a credergli? Siamo in tanti italiani accademici in prima fila, tutti emigrati di qua e di là perché l’Italia non ci ha dato lavoro, anzi, più eravamo bravi, più ci mandavano in esilio lontani. L’università italiana è l’unica al mondo in cui praticamente non c’è nessuna chance per uno studioso straniero di vincere un posto e che non invita professori dall’estero per paura di fare scoprire le proprie magagne sotto i finti standard di qualità.
In seconda fila scorgo uno scienziato italiano che lavora alla medical school nel laboratorio del premio Nobel per la biologia Richard Axel. Come me, come tanti, adora l’Italian style, e sarebbe stato molto più contento di vivere nel suo paese. Ma non gli è stata data nessuna possibilità. Gli studenti italiani giovani e brillanti che studiano a Columbia e fanno la fila per fare domande al primo ministro, non potranno mai più rientrare in Italia, colpevoli della loro bravura.
Come si può parlare convinti dell’Europa del 2014 in un paese in cui non si riesce ad avere una visibilità a una settimana, in cui la politica è ricatto permanente, l’istruzione superiore e i media gestiti da gruppuscoli di mandarini locali che hanno letteralmente fatto fuori l’intellegentsia di una generazione intera, ormai tutta emigrata all’estero, per lasciar posto ai narcisetti televisivi, alla ciurmaglia di pseudo pensatori che si parla tra di loro e non si accorge che il mondo che pensa ormai è fuori dal paese?
Come si può credere, caro Presidente Letta, che da un’Italia così ripiegata su se stessa, incapace di guardare più lontano del proprio ombelico, venga fuori l’Europa di cui lei sognava alla Columbia University? Dopo la sua lezione a Columbia, caro Presidente, che lezione ha imparato lei nel vedere sfilare tutti quei brillanti studenti italiani, ormai fuori, energie ormai perse per sempre per il futuro del nostro paese?
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