di Pierfranco Pellizzetti, da il manifesto, 25 settembre 2013
Al dà delle turbolenze stagionali, indizi consistenti inducono a pensare che la normalizzazione procede rapidamente, sotto la guida sagace di Enrico Letta; abile anche nel risiko tattico: se Silvio Berlusconi minaccia di far cadere il governo (attribuendone colpa al PD) l’altro replica con la controminaccia del ritorno in auge dell’IMU (con relativa responsabilità del PDL); quando Matteo Renzi accusa di immobilismo la compagine governativa si sente rispondere con l’avvolgente minimalismo di chi ripara quotidianamente guasti concreti (la gag del “cacciavite”) a fronte di un critico che sciorina generiche promesse trionfalistiche. Nel gioco degli illusionismi contrapposti vince chi riesce a dare loro una parvenza di realtà.
Sicché i competitori che esternano a getto continuo vengono macinati dalla mola silenziosa del giovane neodemocristiano, che tende secondo DNA ad espellere dai criteri stessi della politica le ripartizioni tra un lato destro e uno sinistro; per riscoprire ataviche vocazioni alla centralità, da cui governare le negoziazioni e su cui far convergere consensi divergenti: logica con cui la DC esercitò per quasi mezzo secolo la sua rendita posizionale di “all catch party”. E con questi sono serviti gli apprendisti stregoni alla Beppe Grillo; le loro pericolose improvvisazioni politiche novistiche (“la Destra e la Sinistra non esistono più”, dicono i guru M5S. E la trebbiatura della loro improvvida seminagione se la fa Enrico Letta!).
Simmetricamente, l’operazione anestetica in corso anacronizza i protagonismi narcisistici delle star da talk show, vecchie e nuove: la crisi sociale ed economica o la si affronta (ipotesi improbabile con questo ceto politico) o la si annega in una miscela comunicativa da lotofagi; il “dico-disdico” dei Berlusconi e dei Renzi presto si tradurrà in rigetto: dare tempo al tempo.
Intanto il tempo lavora per “l’operazione Oblio” del premier, per cui la spossatezza generale scivolerà gradatamente nel deliquio: lo stato psicologico ideale per una corporazione del potere intenzionata a restare ben in sella sul groppone del Paese.
Disegno irresistibile, se non si assisterà all’entrata di nuove soggettività che lo contrastino in breccia. Il 12 ottobre, ossia la grande mobilitazione per la difesa dei principi della nostra Costituzione dalle sovversioni con cui si pretenderebbe di avviare la Terza Repubblica postdemocratica, può essere il momento fondativo di tale soggetto, di cui da tempo voci nel deserto ne vorrebbero gridare il nome ineffabile? Insomma, la manifestazione per una nuova Repubblica democratica può essere l’inizio di un vero progetto rifondativo della politica?
Il quintetto che ci chiama a raccolta (Carlassare, Ciotti, Landini, Rodotà, Zagrebelsky) ha tutte le credenziali per testimoniare in chiave propulsiva valori alti, dal pluralismo deliberativo a una ritrovata socialità solidale, dall’idea di un modello di sviluppo come costruzione collettiva (politica industriale partecipata) a una rappresentanza emendata dalle perversioni della corporazione trasversale del potere (vulgo “Casta”). Impensabile che questi benemeriti personaggi diventino gli assemblatori di una qualsivoglia struttura tradizionale.
Da ciò deriva l’urgenza di una discussione a sinistra sui criteri plausibili per dare forma organizzata all’azione pubblica; assicurarne la continuità e la fattività.
Quello che non si ha da fare sembra sufficientemente chiaro: il ritorno al modernariato del paradigma di partito stanziale novecentesco (associazione gerarchica e verticista che dà la linea e costruisce organigrammi), tanto meno prestare attenzione alle sirene maldestre che starnazzano (con successo pop e pratiche di segno opposto) di “potenza della Rete” in quanto delega salvifica all’internetcentrismo”; il feticismo dell’l’ITC (information&comunication tecnology) come magia che orienta nella complessità.
Resta fermo che le nuove tecnologie si rivelano preziose per la mobilitazione e il raccordo (effetto rendezvousing); ma la potenza della Rete sta altrove, nella qualità relazionale, ad oggi inutilizzata. Si pensi alle miriadi di energie che si segnalano sul territorio nazionale e che finiscono per isterilirsi nell’episodicità. Forse si può azzardare una risposta strutturale proprio partendo da queste straordinarie potenzialità, che richiedono l’approccio soft che oggi si afferma nei paradigmi della nuova centralità economica: la logistica. A conferma che la modellistica organizzativa degli ultimi due secoli ha il proprio laboratorio nel lavoro (le ferrovie e poi la fabbrica integrata fordista format dell’amministrazione pubblica e del partito di massa), come prima lo era l’esercito. E il nuovo modello si chiama “hub and spoke”, mozzo da cui si diparte una raggiera.
Secondo metafora, possono fungere da mozzo (garanti di coerenza) proprio i firmatari del documento per il 12 ottobre (Via Maestra), offrendo connessioni interpersonali a filiere che partano dal volontarismo su base territoriale.
Dunque, un’ipotesi di lavoro o – magari – una provocazione per il lavoro trascurato dal pensiero che insegue la balena bianca della trasformazione. Nell’accelerazione imposta dalla crisi che sta implodendo in degrado civile irreversibile, mentre i tranquilli e benevoli reazionari che ci governano operano abilmente per ritornare a un passato avvolto nel cellofan lucido/ingannevole del “non ci sono alternative”.
(24 settembre 2013)
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mercoledì 25 settembre 2013
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