domenica 4 novembre 2012

A Barbiana

Abbiamo incontrato Adele Corradi, autrice della bellissima memoria Chissà se don Lorenzo (Feltrinelli) a luglio al festival di Santarcangelo, di cui ringraziamo gli organizzatori. Adele è a metà dei suoi ottant’anni ed è lucida e vivace, di memoria chiara e di risposta schietta. Dialogare con lei di fronte a un pubblico di giovani attentissimi è stato un vero piacere.

www.lostraniero.netdi Adele Corradi incontro con Goffredo Fofi

Quando sono arrivata a Barbiana per me è stato come scoprire una pentola, venivo da un’esperienza molto borghese, con un’idea dell’insegnamento molto borghese.
Nel nostro ambiente, per esempio, i bambini avevano tempo di recuperare… se li si bocciava, se li si rimandava a settembre, in estate potevano avere delle ripetizioni, rimediare. Noi insegnanti avevamo un’ignoranza della realtà che era un’innocenza, diciamo, acquisita dall’ambiente dove eravamo cresciuti. A Barbiana ho visto tutta un’altra faccia della situazione, e mi sono resa conto che anch’io avevo bocciato, avevo rimandato a settembre senza rendermi conto che durante l’estate i miei allievi finivano in una casa di contadini del tutto isolata e che rimandarli a settembre non aveva senso. Se non avevano raggiunto la sufficienza con me a scuola, soli a casa non potevano combinare nulla… e quando tornavano per gli esami di riparazione ci son state delle bocciature che ancora ricordo con rimorso. è in queste condizioni che sono arrivata  Barbiana. E dopo Barbiana sono rimasta una persona qualunque, che però aveva vissuto a Barbiana, e questo significa che il cervello era cambiato. Cambiando il cervello si cambia anche il modo di fare scuola: avevo acquisito un punto di vista, un’angolazione diversa. Ho continuato a fare l’insegnante e sono andata in pensione a fare la baby sitter per i miei nipoti. Qualche volta mi chiedo se sono stata una buona insegnante, ma non rimpiango la scuola, mi va bene anche così...

Sei stata un’educatrice a tempo pieno, gioventù, maturità, terza età, ancora oggi continui a educarci, a spiegarci, a farci capire meglio il senso della trasmissione di un sistema di valori da una generazione a un’altra e il ruolo che l’educatore ha in tutto questo, non solo l’insegnante, anche il genitore, il prete, gli adulti in genere che hanno una responsabilità enorme nei confronti delle nuove generazioni, che poi vuol dire nei confronti del futuro. Si ha dunque oggi la necessità di una visione coerente e radicale su questi temi perché la visione ufficiale, quella istituzionale, è sempre una visione di parte, è la visione dello stato, di un sistema di potere, della borghesia, del clero, si parte dai loro bisogni e non dai bisogni dei bambini, si parte dai bisogni degli adulti come vengono proiettati sui bambini. Una cosa che del tuo libro mi è molto piaciuta è quando cerchi di definire cosa significa un’educazione radicale, prendendo esempio da don Milani ma mettendo don Milani a confronto con Freire. Mi  piacerebbe che tu ci aiutassi a capire meglio queste differenze...
Il confronto con le idee di Freire si può fare solo a posteriori, anche se Freire e don Milani sono contemporanei non credo che all’epoca don Milani sapesse di Freire, la cui conoscenza è venuta in Italia più tardi.  Non ho mai sentito parlare di Freire da don Milani. Quando ho letto l’intervista a Freire ho pensato che fosse un parente di don Milani, e ho riconosciuto come familiari le sue idee, però la radicalità di cui io parlo  è una radicalità di principi, di convinzioni, di fede religiosa. I radicali, dice Freire, sono quelli che hanno radici profonde, ed è da questo che mi sono resa conto che veniva la libertà di pensiero e di azione di don Milani, che non aveva bisogno di parlare di fede perché credeva, non aveva bisogno di fare discorsi pii, e quello era il suo modo di essere radicale. Con lui ci si trovava in un ambiente libero, lui non aveva nessunissimo scrupolo a criticare un vescovo, anzi trovava assurdo non farlo.
Quanto al mio accettare o non accettare la radicalità di don Milani, si può parlare di radicalità in un altro senso: il suo era un metodo educativo molto severo, pretendeva molto dai ragazzi mentre io tendevo a essere più morbida, e le discussioni nascevano soprattutto nella pratica quando c’era un ragazzo punito e don Milani esprimeva delle esigenze nei confronti dei ragazzi che mi parevano un pretender troppo. Quello di don Milani era un modo di pensare molto coerente e molto sicuro, ma nello stesso tempo era molto aperto al dialogo. Penso si veda nel mio libro che c’era un ascolto da parte sua: quando io facevo delle obiezioni le prendeva in considerazione, dato che venivano da una persona che viveva e apparteneva all’ambiente, mentre la cosa che lo faceva imbestialire è quando arrivava uno da fuori e sentiva un rimprovero, era una cosa che non sopportava, perché veniva da uno che arrivava da fuori, da uno che non conosceva i ragazzi e non conosceva la scuola, che non sapeva niente. La critica superficiale non la accettava. C’era molto dialogo tra me e lui anche perché io avevo piacere di chiarirmi le idee, ero lì per imparare.
Non accetto mai il titolo di “collaboratrice di don Milani” e il perché lo spiego nel libro: eravamo nella scuola di don Milani, mi sono sempre sentita una tappabuchi, non per modestia ma perché avevo le idee chiare: quella era la scuola di don Milani e anche se lui mi lasciava carta bianca nel far scuola a qualche ragazzo non era per farsi dire in che direzione dovesse andare la scuola, che non poteva essere quella di insegnare latino, di insegnare, come diceva lui, “le stupidaggini che pretendete voi a scuola, agli esami”. Me lo disse chiaramente fin dai primi giorni, “vuole insegnare ai ragazzi le stupidaggini che chiedete agli esami di terza media?” La cosa non mi dava fastidio, perché capivo che lì c’era da imparare,  e io sarò anche stata un’insegnante sbagliata perché certamente avevo delle idee sbagliate, ma ero diligente e di buona volontà, ed è grazie a questo che ho potuto imparare tante cose.

Qualcuno di noi può anche pensare che ci siano delle cose da discutere nel metodo di lavoro  don Milani, ma è la radicalità ad avergli permesso di rompere la crosta del conformismo, di rompere con quel sistema di idee che la scuola italiana, la cultura ufficiale italiana imponeva a tutti i nuovi nati, a tutti coloro che crescevano in questo paese. Il radicalismo di don Milani è quello che gli ha permesso di colpire nel segno, di aprire a discorsi nuovi, di provocarci e costringerci a ragionare su cosa deve essere la trasmissione della cultura, cosa deve essere l’educazione. E questo non riguardava  solo la scuola, quando dico trasmissione della cultura dico il lavoro intellettuale, il giornalismo, la ricerca scientifica… un mucchio di cose. Su questo nel tuo libro dici a un certo punto una cosa che mi ha dato una grande soddisfazione,  perché anch’io ho sempre pensato che il capolavoro di don Milani sia
Esperienze pastorali, considerando la Lettera un’impresa di gruppo, come lui voleva. Le Esperienze venne apprezzato da alcuni lettori di prim’ordine, come Giovanni Giudici, Geno Pampaloni, Pier Paolo Pasolini, Adriano Olivetti… che si accorsero subito del suo interesse e della sua diversità. E nel tuo libro dici che il capitolo preferito da don Lorenzo era La ricreazione, dove don Milani si scagliava contro le case del popolo comuniste e le loro attività, il liscio, le bocce, il pallone, e contro le parrocchie, che ai giovani davano poco più che il pallone e i bigliardini. Sappiamo bene come più tardi tutta la nostra società sia stata dominata dal tempo libero, che oggi è dominata dal tempo libero. La ricreazione è forse eccessivo, perché i ragazzi hanno anche bisogno di giocare a palla e gli adulti qualche volta di ballare… Su questo ci sono state delle discussioni?
Torno un momento indietro. Io penso che don Milani fosse molto intelligente ma che è diventato geniale grazie all’attenzione all’ambiente in cui lavorava, in cui viveva. C’è una recensione al mio libro che parte dall’attenzione e sono stata molto grata all’autore perché ha visto l’attenzione di don Milani in tutte le mie pagine. L’attenzione all’ambiente gli ha permesso di rendersi conto di qual era la situazione, quali erano i bisogni dell’ambiente in cui operava e di schierarsi dalla parte degli ultimi, la sua era una radicalità che va considerata in rapporto all’ambiente in cui lavorava, l’ha detto in Esperienze pastorali, l’ha ripetuto in tutti i modi, “io parlo qui di quello che vedo qui, ora”. “Quando sarò morto”, disse una volta ai suoi ragazzi, “se queste donne (c’erano due donne del posto) vi diranno che il priore avrebbe fatto diversamente, mi raccomando non date loro retta, voi dovete agire in base alla vostra epoca e al vostro ambiente, osservare quello e agire in base a quello”. Era molto concreto e partiva dai ragazzi ma se a volte scappa detto a qualcuno che partiva dall’interesse dei ragazzi, no, se si parte dagli interessi dei ragazzi non ci si muove, perché i ragazzi seguono per forza le mode, la televisione, la pubblicità. Lui partiva dai bisogni più veri dei ragazzi. A Calenzano si era trovato con degli operai che venivano distratti da quelli che erano i loro diritti e dalle loro possibilità in base alla Costituzione. Anche se era un prete aveva una laicità robusta, come dice Balducci,  e diceva, “le leggi sono queste, voi avete questi diritti, non vi distraete col cinema, con la danza e il pallone perché quello è il sistema di fare politica per farvi rimanere fuori”. Era l’ambiente che gli suggeriva di non perdersi in stupidaggini mentre i preti, i parroci, anche in buona fede, credevano di poter fare a gara con i laici. “Rimarremo sempre un passo indietro, e se quelli danno un ballo, noi daremo un ballo meno divertente”. Era lucidissimo. Dico sempre che Barbiana era un esempio di come le circostanze più avverse si possono trasformare in una opportunità: la prima cosa che lui ha fatto è di mettersi intorno i giovani, di studiare la situazione. “Qui ci vuole la scuola, ci vuole la lingua”. A parte che a Barbiana era un assurdo proporre il calcio a ragazzi i cui genitori avevano l’intenzione, la speranza, di far fare ai loro figli una vita migliore, mentre se li si teneva a scuola per giocare a calcio… C’è chi dice che ha trascurato la corporeità… ma anche questo dipende dall’ambiente in cui si vive: quale contadino avrebbe mandato un bambino a ballare in parrocchia, l’avrebbe mandato a scuola di danza? Gli faceva fare di tutto; pittura, musica, astronomia… tutto pur di dar loro la lingua, di renderli capaci davanti a chiunque di non sentirsi inferiori, di dar loro i mezzi per discutere alla pari. Si poteva fare di tutto, ma partendo dalle vere esigenze di quei ragazzi. è così che se noi apprendiamo questa lezione faremo quel che è necessario come educatori di fronte all’ambiente. Negli ultimi tempi don Milani ha fatto una lotta, questa sì veramente disperata, contro le mode, perché gli pareva che le mode portassero a una grande mancanza di libertà. Alle mie scolare diceva “a New York stanno decidendo cosa ballerete l’estate prossima, se vi fanno ballare la mazurca, voi ballerete la mazurca, a seconda della moda”. Le bambine dicevano “ma io mi scelgo il vestito che mi piace…” “No, sceglierai secondo quello che ti presentano…” È stata una battaglia che è anche oggi veramente attuale, su cui nessuno pone più l’attenzione. Una volta ha detto: “Ci faranno mangiare a tutti lo stesso gelato!” Odiava la pubblicità, pensava fosse una schiavitù, e in questo mondo schiavo possiamo prendere lezioni da don Milani, su questo punto non mi sono mai sentita di contraddirlo perché è vero, più o meno siamo tutti condizionati senza nemmeno accorgercene.

C’è un punto dove forse hai delle idee un po’ diverse da don Milani: la storia famosa del contadino che vuole far studiare il figlio da ingegnere e a don Milani sembrò un’eresia. Eppure non si trattava della moda, della danza o del pallone, si trattava di far  studiare un contadino da ingegnere…

Sono contenta che mi fai questa domanda... le mie sorelle, borghesissime, sono venute a Barbiana un giorno che stava succedendo il finimondo perché c’era un ragazzo che voleva iscriversi all’università. Una delle sorelle non capiva, capiva che c’era una tragedia in corso e che don Lorenzo era inferocito… e ha domandato all’altra sorella “ma che sta succedendo?”, e quella le ha detto, “c’è uno dei ragazzi che vuole iscriversi all’università” E l’altra ha reagito dicendo: “Assassino!” Le pareva assurdo tutta questa tragedia perché un ragazzo voleva iscriversi all’università! A casa mia lo consideravano strano, don Lorenzo, strana me e strano lui. La scoperta più grossa che ho fatto a Barbiana è stata proprio questa: io ero abituata a un prete che si dedica ai ragazzi per farli studiare, e questo voleva dire automaticamente uscire dalla classe dei poveri ed entrare in quella che don Milani chiamava dei ricchi. I ricchi secondo lui non erano quelli che avevano i quattrini ma chi era contadino e aveva cultura, costui sì che era ricco, mentre allora si pensava che si dovesse passare da una classe all’altra superiore e automaticamente per me significava questo, cambiare condizione, ed era quello che speravano i genitori. Ho scoperto stando a Barbiana che don Lorenzo non  voleva far diventare signori i ragazzi, voleva che avessero la lingua per stare con i poveri. Iscriversi all’università voleva dire cambiare ambiente, cambiare mentalità. Quando un tale mi è venuto a chiedere consiglio dopo la sua morte, gli ho detto: “Lei vuole iscrivere suo figlio al liceo e all’università, ma si deve rendere conto che non gli dà solo più cultura, gli dà anche amicizie diverse, lo tira fuori dal suo ambiente, e questo bisogna che lei lo sappia”. Era questo che cambiava. I ragazzi dovevano rimanere nella loro classe sociale e tutta la loro attività futura avrebbe dovuto essere a favore degli ultimi.

Di fatto era l’idea di una rivoluzione...

Ma lui era un rivoluzionario. Il suo era tutto un altro modo di concepire l’educazione e la società, io l’ho scoperto stando lì, vivendo lì, perché da principio non capivo, ma poi alla fine l’ho capito.

Mi incuriosisce la genesi del tuo libro: com’è che ti sei decisa a scriverlo? perché dopo tanti anni? e come l’hai scritto, che tipo di rapporto hai avuto con la casa editrice e l’editor che ti ha accompagnata?
Ho avuto una fortuna strepitosa a incontrare Alberto Rollo, lo considero uno dei regali postumi di don Milani, che me ne ha fatti parecchi… Come ho cominciato? Credo che la ragione principale sia stata la vecchiaia, da un giorno all’altro si può perdere la memoria, si può diventare un po’ scemi. A una certa età può succedere di  e si può anche morire. Io mi sento molto precaria… Nel 1963 nessuno conosceva don Milani, meno quei pochi che avevano letto Esperienze pastorali, pochi cattolici impegnati… io stessa l’ho letto un mese prima di andare a Barbiana, non lo si trovava in commercio… Arrivata lassù ho scoperto una scuola che mi pareva straordinaria e in casa mia non capivano perché io sparivo ogni volta che avevo un minuto libero. Mi avevano detto che don Milani aveva poco da vivere, forse solo tre mesi (poi per fortuna è durato molto di più) e allora mi sono detta: in questi tre mesi devo acchiappare da questa scuola tutto il possibile! Così sparivo di circolazione appena avevo un minuto… ci andavo appena avevo un giorno di vacanza. Dopo che si sono resi conto di chi era don Milani, c’è stata la lettera ai giudici, e dopo che è morto, hanno cominciato tutti a parlarne bene, le mie sorelle stesse quando raccontavo qualche fatto in famiglia mi dicevano,  “ma perché non lo scrivi?” Io avevo antipatia per l’aneddotica che deformava il personaggio e mi dicevo: “ma che faccio, un libro di aneddoti?” Ero molto perplessa, incerta, poi ho incontrato quel regista francese (Bernard Kleindienst) che ha fatto quel documentario interessantissimo che si chiamava Addio Barbiana, trasmesso anche dalla Rai in un modo che mi ha scandalizzato perché hanno usato il testamento di don Milani traducendolo dal francese ed è venuta fuori una banalità, una scemenza, è incredibile che si possano fare cose così. Fatto sta che questo regista mi disse: “Voglio fare un film su don Milani e voglio che lo spettatore esca dalla sala chiedendosi chi era don Milani”. Don Milani aveva tanti aspetti, chi lo descriveva tenero, chi maleducato, e così il regista allora avrebbe voluto raccogliere tutte le testimonianze, avrebbe voluto che la gente descrivesse quale era stato il suo rapporto con lui. Così ho cominciato a scrivere qualche ricordo in una forma… cinematografica, “…lui era lì, io ero là e ci siamo detti questo, e io ho avuto questa impressione…”  Ho scritto cinque episodi e li ho dati a questo tale che mi ha detto: “Me ne dia altri, li trovo interessantissimi”. Poi il film che voleva fare dopo il documentario non è andato in porto, ma ho capito che quel modo di scrivere su don Milani mi era congeniale. Arrivando a 85 anni avevo accanto un amica che diceva: “ma perché non scrivi?” Mi è tornato in mente quel modo in cui avevo cercato di parlare del mio rapporto con lui, un modo personale e non un saggio su don Milani, e forse ne è venuto fuori un buon ritratto ma questo lo lascio dire a chi legge. Non è che io dica: “lui era così. Ma in quel giorno mi ha detto questo e un altro giorno quest’altro e la mia reazione è stata questa”, io racconto fatti ed episodi. Mi sono decisa in questo modo.

Abbiamo tra noi il redattore che ha seguito la pubblicazione del libro per la casa editrice, l’amico Alberto Rollo. Racconta che quando ti è venuto a trovare per parlare del libro gli è sembrato di trovarsi sotto esame… Alberto ha detto: “A Barbiana c’era una scuola che evidentemente ha determinato in Adele una progressiva e quasi naturale acquisizione di strumenti e di modi di arrivare sulla pagina, attraverso un processo in cui c’è lei, e c’è certamente una figura molto importante da raccontare, ma soprattutto ci sono relazioni”.
Non mi sono resa conto di fare esami! Mi è capitato a Barbiana di fare una piccola predica in un oratorio, in un eremo… Io non parlo volentieri di don Milani, della scuola e del pensiero sì, ma non di don Milani, comunque in questo oratorio due frati mi hanno invitato a parlare al loro pubblico e ho detto, tra l’altro, che a Barbiana ho visto un fenomeno, ho visto il magnificat in cui i potenti sono deposti dal trono. Chiunque arrivasse diventava una persona, e Alberto Rollo è stato per me subito una persona, quindi l’esame era solo la curiosità di sapere con chi avevo a che fare, mi piaceva parlare con una persona. A Barbiana che arrivasse un ministro, un vescovo o un operaio si trattava di una persona, sembrava sempre una cosa eccezionale, e don Milani naturalmente gli faceva le domande, a volte imbarazzanti. Una volta, per esempio, disse a un vescovo: “Dica ai ragazzi se è possibile fare il vescovo senza dire bugie”! Era un amico ma si offese lo stesso, sarebbe stato più semplice rispondere no… Non ho mai capito perché i professori si offendessero tanto leggendo Lettere a una professoressa perché, mi dicevo, se le accuse sono giuste allora si prendono in considerazione, altrimenti no, ma che c’entra arrabbiarsi… Però c’era l’architetto Michelucci, diceva che per leggere don Milani bisogna levarsi tante bucce e l’arcivescovo di Firenze era fatto di una crosta di bucce… La Pira diceva: “Don Milani, è inutile parlare con i cardinali perché se non si mette di mezzo lo Spirito Santo a dargli uno scossone, per via razionale non ci si arriva”, ed era vero, ho avuto modo di assistere a un colloquio, e non ci si arrivava per via razionale, l’autorità andava avanti per la sua strada e il prete doveva essere ubbidiente, è uno schema che perdura. La scuola di cui parla Alberto… è verissimo che ho imparato a scrivere a Barbiana  perché quando sono arrivata i ragazzi mi hanno riferito che don Milani aveva detto: “No, Adele non sa scrivere”. Ho imparato perché ho avuto la fortuna stragrande di arrivare lì quando stavano iniziando la lettera ai ragazzi di Piadena, il primo giorno, e così ho subito chiesto: “Come fate a imparare a scrivere?”, “con la scrittura collettiva”. Poi ho seguito la stesura della lettera a una professoressa, dopo che loro avevano scritto mi davano il testo e io facevo le mie osservazioni e la regola d’oro della scrittura collettiva era di eliminare il superfluo e allora quando ci si sta sopra mesi e mesi... poi ho fatto la scrittura collettiva a scuola con i miei ragazzi e loro mi dicevano: “ma questa parola la usa lei, non noi…”, era la loro lingua che volevano. Fare scrittura collettiva è interessantissimo perché è una scuola di ascolto e perché quando uno propone una cosa tutti devono ascoltare partendo dall’idea che abbia ragione, cosa che non si fa mai quando si discute, si aspetta che finisca l’altro per dire ho ragione io…

Elena Brambilla, sorella di Giovanni e di Leopoldo Pirelli, cattolica, benefattrice in senso moderno di tante iniziative, mi ha raccontato che quando è andata a trovare don Milani affascinata da Esperienze pastorali, la prima cosa che don Milani le ha detto è stata: “In genere i nostri ospiti li faccio incontrare con i ragazzi, nella scuola, se la sente?” E lei, un po’ intimidita: “Sì, certo, perché no?” Sono entrati nella stanza della scuola e lui l’ha presentata e le ha chiesto, “Spieghi ai ragazzi come si sente una persona che ogni giorno concorre allo sfruttamento di un mucchio di operai”. Lei ha dovuto parlare della contraddizione primaria della sua esistenza…
Questo era quello che faceva andar via le persone… Dopo la lettera ai cappellani militari venne un prete che conosceva don Milani, un cappellano militare con una damigiana di vino e dei regali, e secondo lui la questione doveva finire a tarallucci e vino letteralmente, in buona pace, “io non ti serbo rancore, restiamo amici”, e invece don Milani – a Barbiana non si poteva parlare in privato, era d’obbligo che si sfruttasse la persona in funzione dei ragazzi – gli fa: “Dica lei come si comportava alla vigilia di una battaglia, cosa faceva, ai soldati parlava del Vangelo o di che cosa?” E quello era imbarazzatissimo, tanto che io e un altro professore ci schierammo dalla parte del prete che ci pareva che soffrisse. Lui però non l’aveva trattato male, l’aveva messo con le spalle al muro e costretto a rispondere, e per alcuni era molto spiacevole.

Un giovane insegnante, Nicola Ruganti che è qui tra noi, ha detto che il punto di partenza di Lettera a una professoressa è una normalità assoluta, da cui è assente qualsiasi forma di narcisismo pedagogico, e c’è invece una specie di necessità primaria, immediata. Ha detto anche che se la scrittura è collettiva vi si sente però un’ossessione individuale di don Lorenzo. Come è intervenuto, don Milani?
Nella prima versione la lettera era una porcheria. Mi mandarono due pagine nella stanza accanto a quella dove facevo scuola, “guardi abbiamo scritto una lettera a una professoressa”, e io la lessi e andai di là e dissi: “Ma è un sudiciume, una serie di insulti e basta”. E lui mi disse: “La vuole più bella? la faremo più bella!” E ci sono voluti nove mesi. Si partiva dalla base, “diciamo tutti il nostro pensiero e i ragazzi imparano a scrivere, fanno un esercizio di scrittura”. Il lavoro di don Milani da solo, come coordinatore della scrittura collettiva, consisteva nel prendere visione della tappa che si deve affrontare e nel vedere se c’era disordine nel ragionamento. Ricordo di una volta che ha detto: “In queste pagine si va avanti a fatica, non deve essere buono l’ordine logico, riguardatelo”, e le ha fatte rivedere a me e a un altro ragazzo, ci ha dato l’incarico di fare una scaletta con l’ordine logico. Nella scrittura collettiva l’ordine logico viene affrontato dopo che è stato scritto il testo, e allora si fanno i capitoli e all’interno dei capitoli si fa un ordine cronologico o logico. Il coordinatore deve tenere d’occhio se ci sono ripetizioni, e mostrare al gruppo quelle che ci sono, invitarlo a toglierle. Ho fatto da coordinatore in Spagna in una scuola nata a Salamanca come un germoglio di Barbiana, una scuola per ragazzi di campagna che dava loro una cultura alternativa. Hanno pubblicato degli scritti collettivi e di una di queste pagine ero io la coordinatrice e anche se non conoscevo lo spagnolo dicevo: “Ragazzi, volete un aggettivo che indichi disprezzo o apprezzamento?”, cercavo di indirizzarli a chiarire cosa volevano dire, “avete fatto un capitolo che parla di cosa si aspettano i genitori da voi, nel parlare dei genitori volete approvarli o disapprovarli?” A Barbiana c’era anche fretta perché don Lorenzo capiva di dover morire e che le cose andavano avanti rapidamente, e infatti è morto un mese dopo la pubblicazione della Lettera, eravamo agli sgoccioli della sua esistenza e lui lo capiva bene, e allora certe volte dava una spinta da solo, lavorando la notte. Una pagina l’ha scritta tutta lui, ma solo una pagina, e poi la limatura, le correzioni erano opera di tutto il gruppo, ognuno suggeriva le sue. In Lettera a una professoressa il contributo dei ragazzi è stato molto importante per dare forma alle idee, anche se le idee non si può negare che fossero di don Milani. Quello che non mi ricordo, e nessuno dei ragazzi si ricorda, è come nasceva la pagina. Mi pare che ci fosse una discussione su un argomento e poi si metteva per scritto il succo di questa discussione, poi i ragazzi si mettevano insieme e si faceva il lavoro di correzione, ma comunque le idee erano quelle di don Milani, i ragazzi non sarebbero stati in grado di concepire un attacco alla scuola come quello anche se sicuramente delle cose le vedevano anche loro! Uno dei ragazzi bocciati non conosceva la scuola di stato perché aveva fatto solo la scuola a Barbiana, e quando fu iscritto alle magistrali, perché i ragazzi bocciati venivano iscritti per un anno alla scuola pubblica, tornò alla scuola a Barbiana, e disse, “Priore, ma quella non è una scuola, è un interrogatorio! Pensi che di un’ora di francese abbiamo perso più di mezz’ora per sentire quello che sapevano perché chiama un ragazzo e quello dice una cosa, poi ne chiama un altro e dice la stessa cosa…” Ed era davvero una gran perdita di tempo perché a scuola si deve fare selezione, dare giudizi, mentre a Barbiana si pensava a studiare, non c’era l’assillo di dover giudicare. E allora tutto era scuola, tutto era apprendimento, eravamo lì per imparare. Le idee della lettera erano di don Lorenzo, ma nascevano dall’esperienza dei ragazzi, che quello che avevano in mente lo dicevano.

Don Milani negli ultimi anni ha avuto rapporti molto stretti con due donne: te e Elda, quella che cucinava, lavava, quella che si occupava dell’andamento della casa, una contadina di…
…Calenzano. Elda aveva fatto questo atto eroico, era salita a Barbiana dove non c’era né luce né acqua corrente, un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini, e lui mandò Elda e la mamma di Elda mi raccontava che don Milani diceva: “Voi non vi posso portare con me...”, e poi subito dopo, “ma mi lascereste andar solo?” Andò a finire che disse: “Voglio che voi prima andiate lassù a vedere di che si tratta e poi decidete se venire o no”. Le donne tornarono piangendo, e quando il cardinale Dalla Costa venne in visita alla parrocchia la più vecchia disse: “Ma dove l’avete mandato?” Fatto sta che nonostante le lacrime hanno deciso di seguirlo e lì la mamma è morta, circondata dall’affetto grandissimo di tutti,  e la Elda è rimasta a fare la padrona di casa. Nel libro lo dico chiaramente, era lei che invitava a pranzo…  e che creava un ambiente davvero gradevolissimo.

Molti hanno parlato del presunto o reale maschilismo di don Milani...
Credevo che senza esprimere giudizi, da quello che raccontavo, tutti alla fine dicessero: “Ma è un femminista!” Ma il commento era che fosse un maschilista perché quando era arrabbiato dava della troia a Elda. Ma quand’era arrabbiato coi ragazzi, capitava che dava anche a loro del maiale… non era una cosa riservata alle donne. Uno dei ragazzi si è offeso, gli è sembrato che con il mio libro io accontentassi la curiosità malsana della gente, “tutti saranno soddisfatti di scoprire che era un uomo che dava della troia alle donne”. Ma no, se io ti do dello stupido, do dello stupido a te, non a tutto il genere maschile! A me questo fatto non mi piaceva, era una forma maleducata di insultare la persona con cui era arrabbiato, una libertà un po’ brutta, ma non mi pare che da questo si possa dedurre il maschilismo. Ci sono altri episodi da cui si può dedurre che fosse un femminista. Io portai tutte le bambine della mia classe che volevano fare una festa da ballo, le portai lassù dicendo loro: “C’è una scuola dove io vado il pomeriggio, venite con me così vi invitano a parlare del ballo…”. E loro: “Dobbiamo portare i dischi?” “No, il giradischi lassù non ce l’hanno”. E così si trovarono a fare una discussione sul ballo, ma la discussione era tutta impiantata sulla inferiorità delle donne nella sala da ballo, che vengono distratte e poi si sposano, una discussione non moralistica sul ballo. Lui diceva: “Capisco che avere tra le braccia un ragazzotto vi faccia piacere ma state attente che se vi legate troppo presto rimarrete senza cultura, non parteciperete alla vita politica”, eccetera. Mi pare ce ne siano tanti di episodi che mi fanno dire che era un femminista ante litteram. Mi pare di aver raccontato tante cose sul fatto che voleva l’uguaglianza tra l’uomo e la donna, a volte lo diceva molto polemicamente. Nel mio libro racconto che una volta disse: “Bisognerebbe sverginare le bambine appena nate”, e io rimasi inorridita. A quel tempo i giovanotti di Barbiana ci tenevano a trovare delle ragazze vergini e lui sosteneva che non fosse giusto poter fare un controllo, mentre l’uomo può fare ciò che gli pare… Gli pareva una legge di natura poco giusta. A me pare un chiaro sintomo di femminismo. Ci teneva moltissimo a mandare le ragazze all’estero – con tutte le precauzioni del caso perché le famiglie mica ce le mandavano volentieri, erano gente di montagna,  e lui si prendeva una responsabilità pazzesca a mandare i ragazzi in Inghilterra in autostop, le bambine le mandava in aereo… Una bambina di Barbiana che va all’estero! Certamente c’erano poche bambine nella scuola, ma a Barbiana c’erano quelli che nascevano lì e da fuori Barbiana venivano dei ragazzi ma non le bambine, c’era da fare una lunga strada in mezzo al bosco e a volte di sera, al buio. E poi dice nella Lettera a una professoressa “ancora nelle famiglie pensano che una donna possa essere poco istruita e non gliene importa, gli importa solo del ragazzo”. E questa è una critica chiaramente femminista.

Piero Giacchè racconta di essere andato dopo la morte di don Milani a Barbiana per chiedere il permesso per una lettura teatrale della Lettera. E ricorda di avere incrociato salendo due giovani del movimento, uno piuttosto anarchico e uno piuttosto stalinista, che gli dissero, “Non andarci, non otterrai niente, sono tremendi!” Dice anche che pian piano anche la lettura della Lettera diventò ideologia, per esempio il fatto di non dover bocciare in prima... con i prevedibili risultati in ultima, all’università…  Era diventato un comandamento ideologico, mentre per don Milani voleva dire lavorare tanto per non dover bocciare.
Se ci sono lacune, bisogna lavorare tanto in seconda per colmarle, per non lasciare il bambino disorientato. Prima di andare a scuola, portavo le idee che mi erano venute, sotto forma di fogliettini, le depositavo sul tavolo, ma se non vedevo quest’idea ripresa nel testo che arrivava la sera, il giorno dopo insistevo, e poi i giorni appresso. E lui mi disse: “Ancora lei non lo ha capito che non la vogliamo scrivere questa idea sua?” Nel bigliettino c’era scritto: “Bisogna dire che non basta non bocciare, bisogna anche insegnare”, perché se no verranno promosse delle persone che più tardi si troveranno malissimo... “Ma le pare che io vado a dire agli insegnanti che devono insegnare? Se non insegnano vanno all’inferno!” Diffidenza io ne avevo moltissima, e anche gli studenti. Quando gli studenti, a Milano e altrove, cominciarono a sfilare con i cartelli con citazioni dalla Lettera, arrivò un prete amico di Barbiana che ci disse: “Ci stanno giocando”. Noi si aveva l’impressione che il messaggio fosse stato frainteso, quando se ne sono appropriati i liceali e gli universitari. Venivano dei ragazzi, e uno che venne faceva ingegneria, e c’era un ragazzo operaio dei nostri che gli si sedette accanto e gli disse: “Io di te non mi fido, quando avrai la laurea comincerai a contare i tempi di quanto ci metto a montare un frigorifero". Quello ci rimase malissimo, ma c'era questo atteggiamento a Barbiana, e siccome prima tutti avevano parlato male di don Milani, non ci aspettavamo che poi... Quando arrivava un giornalista o una giornalista io dicevo sempre: "Sono la cameriera".
Adele Corradi
incontro con Goffredo Fofi

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