Quando
sono arrivata a Barbiana per me è stato come scoprire una pentola,
venivo da un’esperienza molto borghese, con un’idea dell’insegnamento molto borghese.
Nel nostro ambiente, per esempio, i
bambini avevano tempo di recuperare… se li si bocciava, se li si
rimandava a settembre, in estate potevano avere delle ripetizioni,
rimediare. Noi insegnanti avevamo un’ignoranza della realtà che era
un’innocenza, diciamo, acquisita dall’ambiente dove eravamo cresciuti. A
Barbiana ho visto tutta un’altra faccia della situazione, e mi sono
resa conto che anch’io avevo bocciato, avevo rimandato a settembre senza
rendermi conto che durante l’estate i miei allievi finivano in una casa
di contadini del tutto isolata e che rimandarli a settembre non aveva
senso. Se non avevano raggiunto la sufficienza con me a scuola, soli a
casa non potevano combinare nulla… e quando tornavano per gli esami di
riparazione ci son state delle bocciature che ancora ricordo con
rimorso. è in queste condizioni che sono arrivata Barbiana.
E dopo Barbiana sono rimasta una persona qualunque, che però aveva
vissuto a Barbiana, e questo significa che il cervello era cambiato.
Cambiando il cervello si cambia anche il modo di fare scuola: avevo
acquisito un punto di vista, un’angolazione diversa. Ho continuato a
fare l’insegnante e sono andata in pensione a fare la baby sitter per i
miei nipoti. Qualche volta mi chiedo se sono stata una buona insegnante,
ma non rimpiango la scuola, mi va bene anche così...
Sei
stata un’educatrice a tempo pieno, gioventù, maturità, terza età, ancora
oggi continui a educarci, a spiegarci, a farci capire meglio il senso
della trasmissione di un sistema di valori da una generazione a un’altra
e il ruolo che l’educatore ha in tutto questo, non solo l’insegnante,
anche il genitore, il prete, gli adulti in genere che hanno una
responsabilità enorme nei confronti delle nuove generazioni, che poi
vuol dire nei confronti del futuro. Si ha dunque oggi la necessità di
una visione coerente e radicale su questi temi perché la visione
ufficiale, quella istituzionale, è sempre una visione di parte, è la
visione dello stato, di un sistema di potere, della borghesia, del
clero, si parte dai loro bisogni e non dai bisogni dei bambini, si parte
dai bisogni degli adulti come vengono proiettati sui bambini. Una cosa
che del tuo libro mi è molto piaciuta è quando cerchi di definire cosa
significa un’educazione radicale, prendendo esempio da don Milani ma
mettendo don Milani a confronto con Freire. Mi piacerebbe che tu ci aiutassi a capire meglio queste differenze... Il
confronto con le idee di Freire si può fare solo a posteriori, anche se
Freire e don Milani sono contemporanei non credo che all’epoca don
Milani sapesse di Freire, la cui conoscenza è venuta in Italia più
tardi. Non ho mai sentito parlare di Freire da don Milani.
Quando ho letto l’intervista a Freire ho pensato che fosse un parente
di don Milani, e ho riconosciuto come familiari le sue idee, però la
radicalità di cui io parlo è una radicalità di principi,
di convinzioni, di fede religiosa. I radicali, dice Freire, sono quelli
che hanno radici profonde, ed è da questo che mi sono resa conto che
veniva la libertà di pensiero e di azione di don Milani, che non aveva
bisogno di parlare di fede perché credeva, non aveva bisogno di fare
discorsi pii, e quello era il suo modo di essere radicale. Con lui ci si
trovava in un ambiente libero, lui non aveva nessunissimo scrupolo a
criticare un vescovo, anzi trovava assurdo non farlo. Quanto al mio
accettare o non accettare la radicalità di don Milani, si può parlare di
radicalità in un altro senso: il suo era un metodo educativo molto
severo, pretendeva molto dai ragazzi mentre io tendevo a essere più
morbida, e le discussioni nascevano soprattutto nella pratica quando
c’era un ragazzo punito e don Milani esprimeva delle esigenze nei
confronti dei ragazzi che mi parevano un pretender troppo. Quello di don
Milani era un modo di pensare molto coerente e molto sicuro, ma nello
stesso tempo era molto aperto al dialogo. Penso si veda nel mio libro
che c’era un ascolto da parte sua: quando io facevo delle obiezioni le
prendeva in considerazione, dato che venivano da una persona che viveva e
apparteneva all’ambiente, mentre la cosa che lo faceva imbestialire è
quando arrivava uno da fuori e sentiva un rimprovero, era una cosa che
non sopportava, perché veniva da uno che arrivava da fuori, da uno che
non conosceva i ragazzi e non conosceva la scuola, che non sapeva
niente. La critica superficiale non la accettava. C’era molto dialogo
tra me e lui anche perché io avevo piacere di chiarirmi le idee, ero lì
per imparare. Non accetto mai il titolo di “collaboratrice di don
Milani” e il perché lo spiego nel libro: eravamo nella scuola di don
Milani, mi sono sempre sentita una tappabuchi, non per modestia ma
perché avevo le idee chiare: quella era la scuola di don Milani e anche
se lui mi lasciava carta bianca nel far scuola a qualche ragazzo non era
per farsi dire in che direzione dovesse andare la scuola, che non
poteva essere quella di insegnare latino, di insegnare, come diceva lui,
“le stupidaggini che pretendete voi a scuola, agli esami”. Me lo disse
chiaramente fin dai primi giorni, “vuole insegnare ai ragazzi le
stupidaggini che chiedete agli esami di terza media?” La cosa non mi
dava fastidio, perché capivo che lì c’era da imparare, e
io sarò anche stata un’insegnante sbagliata perché certamente avevo
delle idee sbagliate, ma ero diligente e di buona volontà, ed è grazie a
questo che ho potuto imparare tante cose.
Qualcuno di noi può anche pensare che ci siano delle cose da discutere nel metodo di lavoro don
Milani, ma è la radicalità ad avergli permesso di rompere la crosta del
conformismo, di rompere con quel sistema di idee che la scuola
italiana, la cultura ufficiale italiana imponeva a tutti i nuovi nati, a
tutti coloro che crescevano in questo paese. Il radicalismo di don
Milani è quello che gli ha permesso di colpire nel segno, di aprire a
discorsi nuovi, di provocarci e costringerci a ragionare su cosa deve
essere la trasmissione della cultura, cosa deve essere l’educazione. E
questo non riguardava solo la scuola, quando dico
trasmissione della cultura dico il lavoro intellettuale, il giornalismo,
la ricerca scientifica… un mucchio di cose. Su questo nel tuo libro
dici a un certo punto una cosa che mi ha dato una grande soddisfazione, perché anch’io ho sempre pensato che il capolavoro di don Milani sia Esperienze pastorali, considerando la Lettera un’impresa di gruppo, come lui voleva. Le Esperienze venne
apprezzato da alcuni lettori di prim’ordine, come Giovanni Giudici,
Geno Pampaloni, Pier Paolo Pasolini, Adriano Olivetti… che si accorsero
subito del suo interesse e della sua diversità. E nel tuo libro dici che
il capitolo preferito da don Lorenzo era La ricreazione, dove
don Milani si scagliava contro le case del popolo comuniste e le loro
attività, il liscio, le bocce, il pallone, e contro le parrocchie, che
ai giovani davano poco più che il pallone e i bigliardini. Sappiamo bene
come più tardi tutta la nostra società sia stata dominata dal tempo
libero, che oggi è dominata dal tempo libero. La ricreazione è
forse eccessivo, perché i ragazzi hanno anche bisogno di giocare a palla
e gli adulti qualche volta di ballare… Su questo ci sono state delle
discussioni? Torno un momento indietro. Io penso che don Milani
fosse molto intelligente ma che è diventato geniale grazie
all’attenzione all’ambiente in cui lavorava, in cui viveva. C’è una
recensione al mio libro che parte dall’attenzione e sono stata molto
grata all’autore perché ha visto l’attenzione di don Milani in tutte le
mie pagine. L’attenzione all’ambiente gli ha permesso di rendersi conto
di qual era la situazione, quali erano i bisogni dell’ambiente in cui
operava e di schierarsi dalla parte degli ultimi, la sua era una
radicalità che va considerata in rapporto all’ambiente in cui lavorava,
l’ha detto in Esperienze pastorali, l’ha ripetuto in tutti i
modi, “io parlo qui di quello che vedo qui, ora”. “Quando sarò morto”,
disse una volta ai suoi ragazzi, “se queste donne (c’erano due donne del
posto) vi diranno che il priore avrebbe fatto diversamente, mi
raccomando non date loro retta, voi dovete agire in base alla vostra
epoca e al vostro ambiente, osservare quello e agire in base a quello”.
Era molto concreto e partiva dai ragazzi ma se a volte scappa detto a
qualcuno che partiva dall’interesse dei ragazzi, no, se si parte dagli
interessi dei ragazzi non ci si muove, perché i ragazzi seguono per
forza le mode, la televisione, la pubblicità. Lui partiva dai bisogni
più veri dei ragazzi. A Calenzano si era trovato con degli operai che
venivano distratti da quelli che erano i loro diritti e dalle loro
possibilità in base alla Costituzione. Anche se era un prete aveva una
laicità robusta, come dice Balducci, e diceva, “le leggi
sono queste, voi avete questi diritti, non vi distraete col cinema, con
la danza e il pallone perché quello è il sistema di fare politica per
farvi rimanere fuori”. Era l’ambiente che gli suggeriva di non perdersi
in stupidaggini mentre i preti, i parroci, anche in buona fede,
credevano di poter fare a gara con i laici. “Rimarremo sempre un passo
indietro, e se quelli danno un ballo, noi daremo un ballo meno
divertente”. Era lucidissimo. Dico sempre che Barbiana era un esempio di
come le circostanze più avverse si possono trasformare in una
opportunità: la prima cosa che lui ha fatto è di mettersi intorno i
giovani, di studiare la situazione. “Qui ci vuole la scuola, ci vuole la
lingua”. A parte che a Barbiana era un assurdo proporre il calcio a
ragazzi i cui genitori avevano l’intenzione, la speranza, di far fare ai
loro figli una vita migliore, mentre se li si teneva a scuola per
giocare a calcio… C’è chi dice che ha trascurato la corporeità… ma anche
questo dipende dall’ambiente in cui si vive: quale contadino avrebbe
mandato un bambino a ballare in parrocchia, l’avrebbe mandato a scuola
di danza? Gli faceva fare di tutto; pittura, musica, astronomia… tutto
pur di dar loro la lingua, di renderli capaci davanti a chiunque di non
sentirsi inferiori, di dar loro i mezzi per discutere alla pari. Si
poteva fare di tutto, ma partendo dalle vere esigenze di quei ragazzi. è
così che se noi apprendiamo questa lezione faremo quel che è necessario
come educatori di fronte all’ambiente. Negli ultimi tempi don Milani ha
fatto una lotta, questa sì veramente disperata, contro le mode, perché
gli pareva che le mode portassero a una grande mancanza di libertà. Alle
mie scolare diceva “a New York stanno decidendo cosa ballerete l’estate
prossima, se vi fanno ballare la mazurca, voi ballerete la mazurca, a
seconda della moda”. Le bambine dicevano “ma io mi scelgo il vestito che
mi piace…” “No, sceglierai secondo quello che ti presentano…” È stata
una battaglia che è anche oggi veramente attuale, su cui nessuno pone
più l’attenzione. Una volta ha detto: “Ci faranno mangiare a tutti lo
stesso gelato!” Odiava la pubblicità, pensava fosse una schiavitù, e in
questo mondo schiavo possiamo prendere lezioni da don Milani, su questo
punto non mi sono mai sentita di contraddirlo perché è vero, più o meno
siamo tutti condizionati senza nemmeno accorgercene.
C’è un
punto dove forse hai delle idee un po’ diverse da don Milani: la storia
famosa del contadino che vuole far studiare il figlio da ingegnere e a
don Milani sembrò un’eresia. Eppure non si trattava della moda, della
danza o del pallone, si trattava di far studiare un contadino da ingegnere… Sono
contenta che mi fai questa domanda... le mie sorelle, borghesissime,
sono venute a Barbiana un giorno che stava succedendo il finimondo
perché c’era un ragazzo che voleva iscriversi all’università. Una delle
sorelle non capiva, capiva che c’era una tragedia in corso e che don
Lorenzo era inferocito… e ha domandato all’altra sorella “ma che sta
succedendo?”, e quella le ha detto, “c’è uno dei ragazzi che vuole
iscriversi all’università” E l’altra ha reagito dicendo: “Assassino!” Le
pareva assurdo tutta questa tragedia perché un ragazzo voleva
iscriversi all’università! A casa mia lo consideravano strano, don
Lorenzo, strana me e strano lui. La scoperta più grossa che ho fatto a
Barbiana è stata proprio questa: io ero abituata a un prete che si
dedica ai ragazzi per farli studiare, e questo voleva dire
automaticamente uscire dalla classe dei poveri ed entrare in quella che
don Milani chiamava dei ricchi. I ricchi secondo lui non erano quelli
che avevano i quattrini ma chi era contadino e aveva cultura, costui sì
che era ricco, mentre allora si pensava che si dovesse passare da una
classe all’altra superiore e automaticamente per me significava questo,
cambiare condizione, ed era quello che speravano i genitori. Ho scoperto
stando a Barbiana che don Lorenzo non voleva far
diventare signori i ragazzi, voleva che avessero la lingua per stare con
i poveri. Iscriversi all’università voleva dire cambiare ambiente,
cambiare mentalità. Quando un tale mi è venuto a chiedere consiglio dopo
la sua morte, gli ho detto: “Lei vuole iscrivere suo figlio al liceo e
all’università, ma si deve rendere conto che non gli dà solo più
cultura, gli dà anche amicizie diverse, lo tira fuori dal suo ambiente, e
questo bisogna che lei lo sappia”. Era questo che cambiava. I ragazzi
dovevano rimanere nella loro classe sociale e tutta la loro attività
futura avrebbe dovuto essere a favore degli ultimi.
Di fatto era l’idea di una rivoluzione... Ma
lui era un rivoluzionario. Il suo era tutto un altro modo di concepire
l’educazione e la società, io l’ho scoperto stando lì, vivendo lì,
perché da principio non capivo, ma poi alla fine l’ho capito.
Mi
incuriosisce la genesi del tuo libro: com’è che ti sei decisa a
scriverlo? perché dopo tanti anni? e come l’hai scritto, che tipo di
rapporto hai avuto con la casa editrice e l’editor che ti ha
accompagnata? Ho avuto una fortuna strepitosa a incontrare
Alberto Rollo, lo considero uno dei regali postumi di don Milani, che me
ne ha fatti parecchi… Come ho cominciato? Credo che la ragione
principale sia stata la vecchiaia, da un giorno all’altro si può perdere
la memoria, si può diventare un po’ scemi. A una certa età può
succedere di e si può anche morire. Io mi sento molto precaria… Nel 1963 nessuno conosceva don Milani, meno quei pochi che avevano letto Esperienze pastorali,
pochi cattolici impegnati… io stessa l’ho letto un mese prima di andare
a Barbiana, non lo si trovava in commercio… Arrivata lassù ho scoperto
una scuola che mi pareva straordinaria e in casa mia non capivano perché
io sparivo ogni volta che avevo un minuto libero. Mi avevano detto che
don Milani aveva poco da vivere, forse solo tre mesi (poi per fortuna è
durato molto di più) e allora mi sono detta: in questi tre mesi devo
acchiappare da questa scuola tutto il possibile! Così sparivo di
circolazione appena avevo un minuto… ci andavo appena avevo un giorno di
vacanza. Dopo che si sono resi conto di chi era don Milani, c’è stata
la lettera ai giudici, e dopo che è morto, hanno cominciato tutti a
parlarne bene, le mie sorelle stesse quando raccontavo qualche fatto in
famiglia mi dicevano, “ma perché non lo scrivi?” Io avevo
antipatia per l’aneddotica che deformava il personaggio e mi dicevo: “ma
che faccio, un libro di aneddoti?” Ero molto perplessa, incerta, poi ho
incontrato quel regista francese (Bernard Kleindienst) che ha fatto
quel documentario interessantissimo che si chiamava Addio Barbiana,
trasmesso anche dalla Rai in un modo che mi ha scandalizzato perché
hanno usato il testamento di don Milani traducendolo dal francese ed è
venuta fuori una banalità, una scemenza, è incredibile che si possano
fare cose così. Fatto sta che questo regista mi disse: “Voglio fare un
film su don Milani e voglio che lo spettatore esca dalla sala
chiedendosi chi era don Milani”. Don Milani aveva tanti aspetti, chi lo
descriveva tenero, chi maleducato, e così il regista allora avrebbe
voluto raccogliere tutte le testimonianze, avrebbe voluto che la gente
descrivesse quale era stato il suo rapporto con lui. Così ho cominciato a
scrivere qualche ricordo in una forma… cinematografica, “…lui era lì,
io ero là e ci siamo detti questo, e io ho avuto questa impressione…” Ho
scritto cinque episodi e li ho dati a questo tale che mi ha detto: “Me
ne dia altri, li trovo interessantissimi”. Poi il film che voleva fare
dopo il documentario non è andato in porto, ma ho capito che quel modo
di scrivere su don Milani mi era congeniale. Arrivando a 85 anni avevo
accanto un amica che diceva: “ma perché non scrivi?” Mi è tornato in
mente quel modo in cui avevo cercato di parlare del mio rapporto con
lui, un modo personale e non un saggio su don Milani, e forse ne è
venuto fuori un buon ritratto ma questo lo lascio dire a chi legge. Non è
che io dica: “lui era così. Ma in quel giorno mi ha detto questo e un
altro giorno quest’altro e la mia reazione è stata questa”, io racconto
fatti ed episodi. Mi sono decisa in questo modo.
Abbiamo tra
noi il redattore che ha seguito la pubblicazione del libro per la casa
editrice, l’amico Alberto Rollo. Racconta che quando ti è venuto a
trovare per parlare del libro gli è sembrato di trovarsi sotto esame…
Alberto ha detto: “A Barbiana c’era una scuola che evidentemente ha
determinato in Adele una progressiva e quasi naturale acquisizione di
strumenti e di modi di arrivare sulla pagina, attraverso un processo in
cui c’è lei, e c’è certamente una figura molto importante da raccontare,
ma soprattutto ci sono relazioni”. Non mi sono resa conto di
fare esami! Mi è capitato a Barbiana di fare una piccola predica in un
oratorio, in un eremo… Io non parlo volentieri di don Milani, della
scuola e del pensiero sì, ma non di don Milani, comunque in questo
oratorio due frati mi hanno invitato a parlare al loro pubblico e ho
detto, tra l’altro, che a Barbiana ho visto un fenomeno, ho visto il magnificat in
cui i potenti sono deposti dal trono. Chiunque arrivasse diventava una
persona, e Alberto Rollo è stato per me subito una persona, quindi
l’esame era solo la curiosità di sapere con chi avevo a che fare, mi
piaceva parlare con una persona. A Barbiana che arrivasse un ministro,
un vescovo o un operaio si trattava di una persona, sembrava sempre una
cosa eccezionale, e don Milani naturalmente gli faceva le domande, a
volte imbarazzanti. Una volta, per esempio, disse a un vescovo: “Dica ai
ragazzi se è possibile fare il vescovo senza dire bugie”! Era un amico
ma si offese lo stesso, sarebbe stato più semplice rispondere no… Non ho
mai capito perché i professori si offendessero tanto leggendo Lettere a una professoressa
perché, mi dicevo, se le accuse sono giuste allora si prendono in
considerazione, altrimenti no, ma che c’entra arrabbiarsi… Però c’era
l’architetto Michelucci, diceva che per leggere don Milani bisogna
levarsi tante bucce e l’arcivescovo di Firenze era fatto di una crosta
di bucce… La Pira diceva: “Don Milani, è inutile parlare con i cardinali
perché se non si mette di mezzo lo Spirito Santo a dargli uno scossone,
per via razionale non ci si arriva”, ed era vero, ho avuto modo di
assistere a un colloquio, e non ci si arrivava per via razionale,
l’autorità andava avanti per la sua strada e il prete doveva essere
ubbidiente, è uno schema che perdura. La scuola di cui parla Alberto… è
verissimo che ho imparato a scrivere a Barbiana perché
quando sono arrivata i ragazzi mi hanno riferito che don Milani aveva
detto: “No, Adele non sa scrivere”. Ho imparato perché ho avuto la
fortuna stragrande di arrivare lì quando stavano iniziando la lettera ai
ragazzi di Piadena, il primo giorno, e così ho subito chiesto: “Come
fate a imparare a scrivere?”, “con la scrittura collettiva”. Poi ho
seguito la stesura della lettera a una professoressa, dopo che loro
avevano scritto mi davano il testo e io facevo le mie osservazioni e la
regola d’oro della scrittura collettiva era di eliminare il superfluo e
allora quando ci si sta sopra mesi e mesi... poi ho fatto la scrittura
collettiva a scuola con i miei ragazzi e loro mi dicevano: “ma questa
parola la usa lei, non noi…”, era la loro lingua che volevano. Fare
scrittura collettiva è interessantissimo perché è una scuola di ascolto e
perché quando uno propone una cosa tutti devono ascoltare partendo
dall’idea che abbia ragione, cosa che non si fa mai quando si discute,
si aspetta che finisca l’altro per dire ho ragione io…
Elena
Brambilla, sorella di Giovanni e di Leopoldo Pirelli, cattolica,
benefattrice in senso moderno di tante iniziative, mi ha raccontato che
quando è andata a trovare don Milani affascinata da Esperienze pastorali,
la prima cosa che don Milani le ha detto è stata: “In genere i nostri
ospiti li faccio incontrare con i ragazzi, nella scuola, se la sente?” E
lei, un po’ intimidita: “Sì, certo, perché no?” Sono entrati nella
stanza della scuola e lui l’ha presentata e le ha chiesto, “Spieghi ai
ragazzi come si sente una persona che ogni giorno concorre allo
sfruttamento di un mucchio di operai”. Lei ha dovuto parlare della
contraddizione primaria della sua esistenza… Questo era quello
che faceva andar via le persone… Dopo la lettera ai cappellani militari
venne un prete che conosceva don Milani, un cappellano militare con una
damigiana di vino e dei regali, e secondo lui la questione doveva finire
a tarallucci e vino letteralmente, in buona pace, “io non ti serbo
rancore, restiamo amici”, e invece don Milani – a Barbiana non si poteva
parlare in privato, era d’obbligo che si sfruttasse la persona in
funzione dei ragazzi – gli fa: “Dica lei come si comportava alla vigilia
di una battaglia, cosa faceva, ai soldati parlava del Vangelo o di che
cosa?” E quello era imbarazzatissimo, tanto che io e un altro professore
ci schierammo dalla parte del prete che ci pareva che soffrisse. Lui
però non l’aveva trattato male, l’aveva messo con le spalle al muro e
costretto a rispondere, e per alcuni era molto spiacevole.
Un giovane insegnante, Nicola Ruganti che è qui tra noi, ha detto che il punto di partenza di Lettera a una professoressa
è una normalità assoluta, da cui è assente qualsiasi forma di
narcisismo pedagogico, e c’è invece una specie di necessità primaria,
immediata. Ha detto anche che se la scrittura è collettiva vi si sente
però un’ossessione individuale di don Lorenzo. Come è intervenuto, don
Milani? Nella prima versione la lettera era una porcheria. Mi
mandarono due pagine nella stanza accanto a quella dove facevo scuola,
“guardi abbiamo scritto una lettera a una professoressa”, e io la lessi e
andai di là e dissi: “Ma è un sudiciume, una serie di insulti e basta”.
E lui mi disse: “La vuole più bella? la faremo più bella!” E ci sono
voluti nove mesi. Si partiva dalla base, “diciamo tutti il nostro
pensiero e i ragazzi imparano a scrivere, fanno un esercizio di
scrittura”. Il lavoro di don Milani da solo, come coordinatore della
scrittura collettiva, consisteva nel prendere visione della tappa che si
deve affrontare e nel vedere se c’era disordine nel ragionamento.
Ricordo di una volta che ha detto: “In queste pagine si va avanti a
fatica, non deve essere buono l’ordine logico, riguardatelo”, e le ha
fatte rivedere a me e a un altro ragazzo, ci ha dato l’incarico di fare
una scaletta con l’ordine logico. Nella scrittura collettiva l’ordine
logico viene affrontato dopo che è stato scritto il testo, e allora si
fanno i capitoli e all’interno dei capitoli si fa un ordine cronologico o
logico. Il coordinatore deve tenere d’occhio se ci sono ripetizioni, e
mostrare al gruppo quelle che ci sono, invitarlo a toglierle. Ho fatto
da coordinatore in Spagna in una scuola nata a Salamanca come un
germoglio di Barbiana, una scuola per ragazzi di campagna che dava loro
una cultura alternativa. Hanno pubblicato degli scritti collettivi e di
una di queste pagine ero io la coordinatrice e anche se non conoscevo lo
spagnolo dicevo: “Ragazzi, volete un aggettivo che indichi disprezzo o
apprezzamento?”, cercavo di indirizzarli a chiarire cosa volevano dire,
“avete fatto un capitolo che parla di cosa si aspettano i genitori da
voi, nel parlare dei genitori volete approvarli o disapprovarli?” A
Barbiana c’era anche fretta perché don Lorenzo capiva di dover morire e
che le cose andavano avanti rapidamente, e infatti è morto un mese dopo
la pubblicazione della Lettera, eravamo agli sgoccioli della
sua esistenza e lui lo capiva bene, e allora certe volte dava una spinta
da solo, lavorando la notte. Una pagina l’ha scritta tutta lui, ma solo
una pagina, e poi la limatura, le correzioni erano opera di tutto il
gruppo, ognuno suggeriva le sue. In Lettera a una professoressa il
contributo dei ragazzi è stato molto importante per dare forma alle
idee, anche se le idee non si può negare che fossero di don Milani.
Quello che non mi ricordo, e nessuno dei ragazzi si ricorda, è come
nasceva la pagina. Mi pare che ci fosse una discussione su un argomento e
poi si metteva per scritto il succo di questa discussione, poi i
ragazzi si mettevano insieme e si faceva il lavoro di correzione, ma
comunque le idee erano quelle di don Milani, i ragazzi non sarebbero
stati in grado di concepire un attacco alla scuola come quello anche se
sicuramente delle cose le vedevano anche loro! Uno dei ragazzi bocciati
non conosceva la scuola di stato perché aveva fatto solo la scuola a
Barbiana, e quando fu iscritto alle magistrali, perché i ragazzi
bocciati venivano iscritti per un anno alla scuola pubblica, tornò alla
scuola a Barbiana, e disse, “Priore, ma quella non è una scuola, è un
interrogatorio! Pensi che di un’ora di francese abbiamo perso più di
mezz’ora per sentire quello che sapevano perché chiama un ragazzo e
quello dice una cosa, poi ne chiama un altro e dice la stessa cosa…” Ed
era davvero una gran perdita di tempo perché a scuola si deve fare
selezione, dare giudizi, mentre a Barbiana si pensava a studiare, non
c’era l’assillo di dover giudicare. E allora tutto era scuola, tutto era
apprendimento, eravamo lì per imparare. Le idee della lettera erano di
don Lorenzo, ma nascevano dall’esperienza dei ragazzi, che quello che
avevano in mente lo dicevano.
Don Milani negli ultimi anni ha
avuto rapporti molto stretti con due donne: te e Elda, quella che
cucinava, lavava, quella che si occupava dell’andamento della casa, una
contadina di… …Calenzano. Elda aveva fatto questo atto eroico,
era salita a Barbiana dove non c’era né luce né acqua corrente, un luogo
dimenticato da Dio e dagli uomini, e lui mandò Elda e la mamma di Elda
mi raccontava che don Milani diceva: “Voi non vi posso portare con
me...”, e poi subito dopo, “ma mi lascereste andar solo?” Andò a finire
che disse: “Voglio che voi prima andiate lassù a vedere di che si tratta
e poi decidete se venire o no”. Le donne tornarono piangendo, e quando
il cardinale Dalla Costa venne in visita alla parrocchia la più vecchia
disse: “Ma dove l’avete mandato?” Fatto sta che nonostante le lacrime
hanno deciso di seguirlo e lì la mamma è morta, circondata dall’affetto
grandissimo di tutti, e la Elda è rimasta a fare la padrona di casa. Nel libro lo dico chiaramente, era lei che invitava a pranzo… e che creava un ambiente davvero gradevolissimo.
Molti hanno parlato del presunto o reale maschilismo di don Milani... Credevo
che senza esprimere giudizi, da quello che raccontavo, tutti alla fine
dicessero: “Ma è un femminista!” Ma il commento era che fosse un
maschilista perché quando era arrabbiato dava della troia a Elda. Ma
quand’era arrabbiato coi ragazzi, capitava che dava anche a loro del
maiale… non era una cosa riservata alle donne. Uno dei ragazzi si è
offeso, gli è sembrato che con il mio libro io accontentassi la
curiosità malsana della gente, “tutti saranno soddisfatti di scoprire
che era un uomo che dava della troia alle donne”. Ma no, se io ti do
dello stupido, do dello stupido a te, non a tutto il genere maschile! A
me questo fatto non mi piaceva, era una forma maleducata di insultare la
persona con cui era arrabbiato, una libertà un po’ brutta, ma non mi
pare che da questo si possa dedurre il maschilismo. Ci sono altri
episodi da cui si può dedurre che fosse un femminista. Io portai tutte
le bambine della mia classe che volevano fare una festa da ballo, le
portai lassù dicendo loro: “C’è una scuola dove io vado il pomeriggio,
venite con me così vi invitano a parlare del ballo…”. E loro: “Dobbiamo
portare i dischi?” “No, il giradischi lassù non ce l’hanno”. E così si
trovarono a fare una discussione sul ballo, ma la discussione era tutta
impiantata sulla inferiorità delle donne nella sala da ballo, che
vengono distratte e poi si sposano, una discussione non moralistica sul
ballo. Lui diceva: “Capisco che avere tra le braccia un ragazzotto vi
faccia piacere ma state attente che se vi legate troppo presto rimarrete
senza cultura, non parteciperete alla vita politica”, eccetera. Mi pare
ce ne siano tanti di episodi che mi fanno dire che era un femminista
ante litteram. Mi pare di aver raccontato tante cose sul fatto che
voleva l’uguaglianza tra l’uomo e la donna, a volte lo diceva molto
polemicamente. Nel mio libro racconto che una volta disse: “Bisognerebbe
sverginare le bambine appena nate”, e io rimasi inorridita. A quel
tempo i giovanotti di Barbiana ci tenevano a trovare delle ragazze
vergini e lui sosteneva che non fosse giusto poter fare un controllo,
mentre l’uomo può fare ciò che gli pare… Gli pareva una legge di natura
poco giusta. A me pare un chiaro sintomo di femminismo. Ci teneva
moltissimo a mandare le ragazze all’estero – con tutte le precauzioni
del caso perché le famiglie mica ce le mandavano volentieri, erano gente
di montagna, e lui si prendeva una responsabilità
pazzesca a mandare i ragazzi in Inghilterra in autostop, le bambine le
mandava in aereo… Una bambina di Barbiana che va all’estero! Certamente
c’erano poche bambine nella scuola, ma a Barbiana c’erano quelli che
nascevano lì e da fuori Barbiana venivano dei ragazzi ma non le bambine,
c’era da fare una lunga strada in mezzo al bosco e a volte di sera, al
buio. E poi dice nella Lettera a una professoressa “ancora
nelle famiglie pensano che una donna possa essere poco istruita e non
gliene importa, gli importa solo del ragazzo”. E questa è una critica
chiaramente femminista.
Piero Giacchè racconta di essere
andato dopo la morte di don Milani a Barbiana per chiedere il permesso
per una lettura teatrale della Lettera. E ricorda di avere
incrociato salendo due giovani del movimento, uno piuttosto anarchico e
uno piuttosto stalinista, che gli dissero, “Non andarci, non otterrai
niente, sono tremendi!” Dice anche che pian piano anche la lettura della
Lettera diventò ideologia, per esempio il fatto di non dover bocciare
in prima... con i prevedibili risultati in ultima, all’università… Era diventato un comandamento ideologico, mentre per don Milani voleva dire lavorare tanto per non dover bocciare. Se
ci sono lacune, bisogna lavorare tanto in seconda per colmarle, per non
lasciare il bambino disorientato. Prima di andare a scuola, portavo le
idee che mi erano venute, sotto forma di fogliettini, le depositavo sul
tavolo, ma se non vedevo quest’idea ripresa nel testo che arrivava la
sera, il giorno dopo insistevo, e poi i giorni appresso. E lui mi disse:
“Ancora lei non lo ha capito che non la vogliamo scrivere questa idea
sua?” Nel bigliettino c’era scritto: “Bisogna dire che non basta non
bocciare, bisogna anche insegnare”, perché se no verranno promosse delle
persone che più tardi si troveranno malissimo... “Ma le pare che io
vado a dire agli insegnanti che devono insegnare? Se non insegnano vanno
all’inferno!” Diffidenza io ne avevo moltissima, e anche gli studenti.
Quando gli studenti, a Milano e altrove, cominciarono a sfilare con i
cartelli con citazioni dalla Lettera, arrivò un prete amico di
Barbiana che ci disse: “Ci stanno giocando”. Noi si aveva l’impressione
che il messaggio fosse stato frainteso, quando se ne sono appropriati i
liceali e gli universitari. Venivano dei ragazzi, e uno che venne faceva
ingegneria, e c’era un ragazzo operaio dei nostri che gli si sedette
accanto e gli disse: “Io di te non mi fido, quando avrai la laurea
comincerai a contare i tempi di quanto ci metto a montare un
frigorifero". Quello ci rimase malissimo, ma c'era questo atteggiamento a
Barbiana, e siccome prima tutti avevano parlato male di don Milani, non
ci aspettavamo che poi... Quando arrivava un giornalista o una
giornalista io dicevo sempre: "Sono la cameriera". Adele Corradi incontro con Goffredo Fofi |
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