il manifesto | Autore: Ugo Mattei
I recenti convulsi sussulti della scena politica italiana mostrano la
necessità sempre più stringente di mettere in campo una grande alleanza
contro-egemonica, con forte competenza di governo e tuttavia capace di
sovvertire radicalmente il pensiero unico per portare finalmente al
cuore dell’agenda politica, in modo non minoritario né tattico, il
rifiuto del neoliberismo di Napolitano, Monti e Bersani. La partita è
particolarmente delicata e sconsiglia scorciatoie perché bisogna
assolutamente evitare il ritorno di Berlusconi e della sua corte dei
miracoli senza tuttavia rinunciare per questo all’intransigenza sulla
legalità costituzionale, cosa di cui si mostra incapace chiunque faccia
sconti ala retorica emergenziale del governo Monti e alla sua politica
economica anti-costituzionale di recente bocciata dalla sentenza 199
della Corte Costituzionale. In campo c’è un rischio, non remoto, che
Berlusconi cavalchi una facile piattaforma antieuropeista, ricostruisca
su queste basi l’alleanza con la Lega e lasci il Pd con il cerino in
mano a pagare da solo il giusto malcontento popolare per la feroce
politica reazionaria che ci viene importa dai dispositivi di governance
globali (inclusa la Bce). Se così fosse per lui ricuperare una decina di
punti nei confronti dello sbiadito Bersani e della sua alleanza con
Casini (e Dio non voglia che davvero ci stia anche Nichi, reduce dal
grande successo di difesa costituzionale del referendum del 2011)
sarebbe un gioco da ragazzi.
Di Pietro con il consueto istinto furbesco si è accorto di questa possibilità ed è corso a contendere al Movimento cinque stelle l’opposizione di pancia alle politiche suicide dei nostri tecnici proprio per occupare preventivamente un territorio politico che fa gola a Berlusconi. La sua operazione lo sta portando a cercare di mettere il cappello sull’importante iniziativa di Landini volta a creare un’alleanza laburista, ripetendo oggi in materia di lavoro, lo scippo già tentato a proposito dell’ acqua.
Ma al di là di un certo dividendo politico che nella società dello spettacolo queste operazioni men che dignitose in qualche modo comunque portano, la sua operazione non può convincere proprio perché, a differenza di Grillo, l’Idv si dimostra culturalmente incapace di far proprio il paradigma della riconversione ecologica (Di Pietro continua a straparlare di crescita e appartiene al partito delle grandi opere) cosa che invece, grazie agli importanti contatti con il movimento per la decrescita felice riesce, seppure a costo di notevoli semplificazioni, a Grillo.
Di fronte a tutto ciò, chi nei movimenti decida di rassegnarsi alla necessità di sporcarsi le mani con la politica elettorale non può certo permettersi di essere troppo schizzinoso. Bisogna saper riconoscere i sommovimenti potenzialmente sovversivi dello stato di cose presenti ovunque essi si trovino, lavorando per condizionarne gli esiti intorno a pochissime discriminanti: l’antifascismo, l’anti-neoliberismo, e l’ antirazzismo che sono poi aspetti dello stesso fenomeno.
Se uno vuole mettersi sulla strada della rappresentanza, dopo aver sperimentato con successo la democrazia diretta ex art. 75, deve essere ben conscio che di qui al 2013 non c’è tempo per produrre a fondo nella società italiana quel cambiamento politico-culturale che ad esempio quanti hanno lavorato al manifesto di Alba si augurano. Bisogna quindi essere pronti a sporcarsi le mani anche di fronte a livelli di comunicazione grossolani, che certo a noi non piacciono, ma che sembrano essere i soli efficaci per produrre qualche effetto su un popolo «sovrano» in gran parte abbrutito dalla società dei consumi. Bisogna riconoscere senza ipocrisia che questi livelli di comunicazione esprimono il nostro stesso disagio nei confronti dello status quo e condividono molte linee essenziali del nostro programma. Grillo era con me sull’acqua e in Val di Susa. Di fronte alle ruvidità e alla fisicità della politica vera, qualunque atteggiamento che si accontenti di un linguaggio di mitezza e di buone intenzioni per circoscrivere il perimetro delle proprie alleanze sarebbe suicida. Non è soltanto l’Arcobaleno che andrebbe evitato, anche se in questo momento forse perfino una sua riedizione sarebbe meglio del nulla che ci circonda. Bisogna anche guardarci da esperienze ultra-minoritarie, come quella lista radical-professorale di Massimo Severo Giannini che, pur presentandosi in tutta Italia con nomi di grande prestigio intellettuale, non andò neppure vicina al quorum, pur assai baso, del 1992 un momento politico in qualche modo simile a quello attuale.
Quattro sono state le esperienze di grandi città italiane in cui il pensiero unico è risultato sconfitto: Milano, Napoli, Palermo e Genova. In due di queste le primarie di coalizione hanno visto il candidato del Pd battuto da un personaggio della cosiddetta società civile, vicino o iscritto a Sel. In altre due, a essere sconfitto è stato il meccanismo delle primarie, spesso truccate e comunque assai poco garantite allo stato attuale. Solo Milano e Napoli sono per ora valutabili come esperienze amministrative. Posso testimoniare direttamente, avendo vissuto da vicino l’esperienza di Macao, che a Milano il Pd, seppur sconfitto, è riuscito a mantenere il controllo su tutti i più importanti gangli del potere. Altrettanto direttamente posso testimoniare, nelle ultime convulse battute della battaglia sull’acqua per la trasformazione di Arin in Abc, culminata con l’atto di trasformazione notarile redatto il 31 luglio scorso, che lo stesso fenomeno non è avvenuto a Napoli e che nel capoluogo partenopeo il vecchio assetto di potere trova ben altre resistenze al suo tentativo di riorganizzarsi per ristabilire lo status quo.
Napoli e Palermo mostrano che è possibile vincere senza l’ipocrita presenza della falsa sinistra (o se si preferisce dell’altra destra) con un messaggio che parli forte e chiaro (magari anche in modo un po’ sguaiato) di un’alternativa vera, di persone e di idee. Non ho paura di affrontare la responsabilità politica che mi viene dal dire che preferisco chi afferma, ancorché grossolanamente, di non essere né di destra né di sinistra a chi dice di essere di sinistra ma poi a tutti gli effetti pone in essere politiche di destra. Ai troppi italiani che non votano perché arcistufi dell’ipocrisia dei Napolitano, dei Monti, dei Bersani, non importa nulla delle etichette: a noi importa di acqua, di Tav, di esiti delle occupazioni per i beni comuni culturali, e di una nuova, indispensabile ecologia politica capace di creare un modello di società più giusto ed egualitario. Qualsiasi movimento genuinamente contrario allo status quo, se interno alla discriminante antifascista, non può che essere il nostro alleato naturale nel difendere il rispetto della nostra Costituzione economica.
In questa fase occorre mettere in campo un Comitato di Liberazione Nazionale contro i colpi di coda autoritari del neoliberismo e dei suoi servitori affaristici e partitocratici che sappia far vincere un discorso di radicale inversione di rotta. Poi chi ha studiato troverà il modo di dare il proprio contributo. Cercare di farlo prima, escludendo per ragioni estetizzanti pulsioni potenzialmente rivoluzionarie, sarebbe a un tempo velleitario e suicida.
Di Pietro con il consueto istinto furbesco si è accorto di questa possibilità ed è corso a contendere al Movimento cinque stelle l’opposizione di pancia alle politiche suicide dei nostri tecnici proprio per occupare preventivamente un territorio politico che fa gola a Berlusconi. La sua operazione lo sta portando a cercare di mettere il cappello sull’importante iniziativa di Landini volta a creare un’alleanza laburista, ripetendo oggi in materia di lavoro, lo scippo già tentato a proposito dell’ acqua.
Ma al di là di un certo dividendo politico che nella società dello spettacolo queste operazioni men che dignitose in qualche modo comunque portano, la sua operazione non può convincere proprio perché, a differenza di Grillo, l’Idv si dimostra culturalmente incapace di far proprio il paradigma della riconversione ecologica (Di Pietro continua a straparlare di crescita e appartiene al partito delle grandi opere) cosa che invece, grazie agli importanti contatti con il movimento per la decrescita felice riesce, seppure a costo di notevoli semplificazioni, a Grillo.
Di fronte a tutto ciò, chi nei movimenti decida di rassegnarsi alla necessità di sporcarsi le mani con la politica elettorale non può certo permettersi di essere troppo schizzinoso. Bisogna saper riconoscere i sommovimenti potenzialmente sovversivi dello stato di cose presenti ovunque essi si trovino, lavorando per condizionarne gli esiti intorno a pochissime discriminanti: l’antifascismo, l’anti-neoliberismo, e l’ antirazzismo che sono poi aspetti dello stesso fenomeno.
Se uno vuole mettersi sulla strada della rappresentanza, dopo aver sperimentato con successo la democrazia diretta ex art. 75, deve essere ben conscio che di qui al 2013 non c’è tempo per produrre a fondo nella società italiana quel cambiamento politico-culturale che ad esempio quanti hanno lavorato al manifesto di Alba si augurano. Bisogna quindi essere pronti a sporcarsi le mani anche di fronte a livelli di comunicazione grossolani, che certo a noi non piacciono, ma che sembrano essere i soli efficaci per produrre qualche effetto su un popolo «sovrano» in gran parte abbrutito dalla società dei consumi. Bisogna riconoscere senza ipocrisia che questi livelli di comunicazione esprimono il nostro stesso disagio nei confronti dello status quo e condividono molte linee essenziali del nostro programma. Grillo era con me sull’acqua e in Val di Susa. Di fronte alle ruvidità e alla fisicità della politica vera, qualunque atteggiamento che si accontenti di un linguaggio di mitezza e di buone intenzioni per circoscrivere il perimetro delle proprie alleanze sarebbe suicida. Non è soltanto l’Arcobaleno che andrebbe evitato, anche se in questo momento forse perfino una sua riedizione sarebbe meglio del nulla che ci circonda. Bisogna anche guardarci da esperienze ultra-minoritarie, come quella lista radical-professorale di Massimo Severo Giannini che, pur presentandosi in tutta Italia con nomi di grande prestigio intellettuale, non andò neppure vicina al quorum, pur assai baso, del 1992 un momento politico in qualche modo simile a quello attuale.
Quattro sono state le esperienze di grandi città italiane in cui il pensiero unico è risultato sconfitto: Milano, Napoli, Palermo e Genova. In due di queste le primarie di coalizione hanno visto il candidato del Pd battuto da un personaggio della cosiddetta società civile, vicino o iscritto a Sel. In altre due, a essere sconfitto è stato il meccanismo delle primarie, spesso truccate e comunque assai poco garantite allo stato attuale. Solo Milano e Napoli sono per ora valutabili come esperienze amministrative. Posso testimoniare direttamente, avendo vissuto da vicino l’esperienza di Macao, che a Milano il Pd, seppur sconfitto, è riuscito a mantenere il controllo su tutti i più importanti gangli del potere. Altrettanto direttamente posso testimoniare, nelle ultime convulse battute della battaglia sull’acqua per la trasformazione di Arin in Abc, culminata con l’atto di trasformazione notarile redatto il 31 luglio scorso, che lo stesso fenomeno non è avvenuto a Napoli e che nel capoluogo partenopeo il vecchio assetto di potere trova ben altre resistenze al suo tentativo di riorganizzarsi per ristabilire lo status quo.
Napoli e Palermo mostrano che è possibile vincere senza l’ipocrita presenza della falsa sinistra (o se si preferisce dell’altra destra) con un messaggio che parli forte e chiaro (magari anche in modo un po’ sguaiato) di un’alternativa vera, di persone e di idee. Non ho paura di affrontare la responsabilità politica che mi viene dal dire che preferisco chi afferma, ancorché grossolanamente, di non essere né di destra né di sinistra a chi dice di essere di sinistra ma poi a tutti gli effetti pone in essere politiche di destra. Ai troppi italiani che non votano perché arcistufi dell’ipocrisia dei Napolitano, dei Monti, dei Bersani, non importa nulla delle etichette: a noi importa di acqua, di Tav, di esiti delle occupazioni per i beni comuni culturali, e di una nuova, indispensabile ecologia politica capace di creare un modello di società più giusto ed egualitario. Qualsiasi movimento genuinamente contrario allo status quo, se interno alla discriminante antifascista, non può che essere il nostro alleato naturale nel difendere il rispetto della nostra Costituzione economica.
In questa fase occorre mettere in campo un Comitato di Liberazione Nazionale contro i colpi di coda autoritari del neoliberismo e dei suoi servitori affaristici e partitocratici che sappia far vincere un discorso di radicale inversione di rotta. Poi chi ha studiato troverà il modo di dare il proprio contributo. Cercare di farlo prima, escludendo per ragioni estetizzanti pulsioni potenzialmente rivoluzionarie, sarebbe a un tempo velleitario e suicida.
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