martedì 28 agosto 2012

I peperoni o l’Ilva?

Non che sia proprio una fuga, ma solo un lento allontanarsi. Da quell’aria avvelenata, da quel gas che spezza il respiro, da quella polvere assassina. Nessuno vuole lasciare Taranto al suo destino forse ormai segnato, alla sporca dannazione a cui in tanti l’hanno condannata.


Ignavi o compiacenti o corrotti e dunque complici di un’accumulazione omicida, che però costituisce lo zero-virgola-zero-qualcosa del Pil e ci fa competere con i tedeschi, i cinesi e perfino i coreani. Nessuno vuole che Taranto affondi nei due mari, con gli altoforni a sobbollire in una brodaglia fumante e contaminata. Solo che appena fuori dalla città, qualche chilometro a Ovest, c’è un piccolo tempio greco. Due filari di colonne doriche che fioriscono in un nulla apparente, proprio accanto alla statale 106, la sgangherata Taranto-Reggio Calabria, che è la stessa disegnata dai romani duemila anni fa, appena ritoccata dai cartografi del Regno delle due Sicilie. C’è insomma un rudere della Magna Grecia lungo una strada ottocentesca: e allora? E allora diciamo subito che timpani e capitelli non inquinano e non uccidono i bambini. Non producono laminati né travature, non aiutano l’esportazione, non movimentano il mercato internazionale dell’acciaio: ma lasciano respirare e sono anche belli da vedere. E inoltre intorno a quell’esile reperto c’è un intero mondo di storia e di cultura.

Nel Metaponto il granaio di Roma
C’è per esempio Metaponto con la sua sterminata area archeologica, che però resta sepolta perché scavare costa troppo, e l’archeologia è diventata un lusso per un paese che si è fatto imprigionare dal suo debito. Più in là, lungo la costa, ci sarebbero anche Eraclea e poi Sibari. E chissà cos’altro ancora, se solo si potesse scandagliare e penetrare quella terra accarezzata dal mare, che ha visto transitare mille popoli e mille culture.
Da quelle parti c’erano quelli che oggi definiremmo «meridionali incazzati». I messapi. Furiosi perché una volta sì e l’altra pure vedevano arrivare barconi pieni di migranti greci che cercavano fortuna in giro per il Mediterraneo. E fu proprio un manipolo di attici reduci dalla guerra di Troia (in quel tempo c’era sempre qualcuno che girovagava di ritorno da Troia) a impossessarsi pian piano di quel territorio italico, uno dei più fertili d’Europa. Ma quella gente che veniva dall’altra parte del mare sembrava più sveglia e intraprendente, a sua volta contagiata da altre esperienze e altre avventure. Si portava dietro arti e scienze, ma anche guerrieri e armi. Pitagora con la sua tavola leggendaria, ma anche manipoli di spartani attaccabrighe.
Poi, al solito, ci pensarono i romani a stabilizzare lo stato delle cose. Si presero tutto e chi disobbediva veniva raso al suolo: come capitò proprio a Metaponto perché aveva ospitato il cartaginese Annibale. Per un periodo bazzicò da quelle parti anche Spartaco con il suo esercito di liberi ma disperati, e per i romani furono dolori; ma poi sappiamo come finì. E per secoli quella terra miracolosa, graffiata dall’acqua che scende dall’Appennino, diventò la più grande riserva alimentare dell’impero.
La storia certo non finì così. Ci fu la stagione dei Bizantini e dei Longobardi, dei Saraceni e anche dei Normanni, un lungo medioevo tra grotte di tufo e calanchi, chiese rupestri, santi combattenti e madonne varie, guerricciole infinite tra francesi e spagnoli. Per non parlare di briganti, cardinali e piemontesi; il regno d’Italia sfruttatore e tirannico che cambiava nome ai paesi, da Salvia a Savoia; gli antifascisti mandati al confino nei paesi più nascosti, Tursi, Aliano, Craco. Infine arrivarono gli anni ’60: e proprio allora il presidente dell’ancor giovane repubblica inaugurò l’acciaieria di Taranto, allora Italsider di stato, oggi Ilva della famiglia Riva.
Italsider, Eni, Fiat e le altre
Non fu solo Taranto a ricevere in dono quella polpetta avvelenata, anche Napoli ne beneficiò. E ne sanno qualcosa pure sardi e siciliani. Ma in quel tempo tutti ritenevano di promuovere sviluppo e ricchezza, senza particolari distinzioni: partiti di governo e d’opposizione, industriali e sindacalisti, scienziati e intellettuali. Si localizzavano al Sud gli impianti più pericolosi affinché il Sud potesse somigliare al Nord. Basta con la maledizione dei campi, con la paura della grandine o della siccità. Tutti operai, tutti salariati, tutti garantiti. L’avvelenamento di terre, mari e aria, con i polmoni che si spappolano e il sangue che diventa stracciatella sono solo un danno collaterale. O meglio, il prezzo da pagare all’emancipazione della società.
Dopo cinquant’anni di devastazione e di malintesa modernità sono ancora in molti a pensarla allo stesso modo. Sì, d’accordo, l’acciaieria ha un po’ inquinato, qualcuno c’è morto per quelle particelle svolazzanti, ma adesso diamo una ripulita e si ricomincia di più e meglio di prima. E per favore dite a quei quattro magistrati di non esagerare con le loro accuse, ché qui è in gioco il futuro del paese, del suo permanere nel club delle potenze industriali del pianeta. Fronti aggrottate, sguardi a piombo, parole ben scandite, l’esercito di furieri al servizio di Mario Monti non ha dubbi. Le sorti della nazione si giocano sulle ciminiere di Taranto; che nessuno s’azzardi neanche a pensare di chiudere gli impianti.
Cinquant’anni passati invano. Anzi, in una condizione ambientale stressata allo stremo, con una biosfera largamente necrotizzata, tra bambini stroncati dai tumori e animali mutanti, quel che incredibilmente si propone è di andare a caccia di petrolio. L’ha annunciato con grottesca solennità il ministro più contemporaneo e intelligente che c’è, Corrado Passera. Non dunque la riconversione ecologica dell’acciaieria, ma neanche la produzione energetica da fonti naturali. Andiamo a trivellare un po’ di montagne e a pescare in fondo al mare. Raccogliamo dalle profondità il respiro e lo sputo del diavolo. Mettiamo il tutto a cuocere in raffineria e poi imbottigliamolo dentro oleodotti e gasdotti che per centinaia di chilometri attraverseranno vallate e pianure, si tufferanno in mare per poi riemergere e continuare il loro viaggio velenoso.
Poco distante da Taranto, piegando un po’ verso l’interno, c’è un paese che si chiama Ferrandina. Da quelle parti, con scarso successo in verità, per decenni hanno succhiato un po’ di metano. Era stato annunciato come il tesoro nascosto di quella terra, ma di quei giacimenti oggi restano solo impianti abbandonati, simulacri vuoti e scrostati. Per fortuna, una manciata di contadini hanno continuato a coltivare le loro piante d’ulivo. Piantagioni di una varietà tuttavia speciale, l’oliva Majatica: che produce un olio tra i più buoni d’Italia e che viene anche infornata e poi esportata in tutto il mondo. Certo, non si può vivere soltanto con le olive. Ma con il metano, di sicuro, s’invecchia presto e male.
Si torna dunque a prospettare lo sfruttamento minerario e l’agricoltura, l’archeologia, l’ambiente, la cultura, ecc. vengono nuovamente accantonate, relegate a un destino residuale e scarsamente redditizio. Si continua a preferire lo sfruttamento di risorse limitate e comunque effimere e non si coglie il valore strategico dell’uso e la cura di altre risorse naturali, queste sì sempre disponibili. Anzi, privilegiando le prime si rischia di danneggiare le seconde. Come provarono a fare quando decisero di seppellire a Scansano le scorie radioattive.
E come purtroppo hanno fatto in Val d’Agri con l’estrazione del petrolio. Da diverso tempo questa splendida valle lucana, che si trova in pratica alle spalle dell’area jonica e che, tra montagne, pascoli e verdi piegature, somiglia a un paesaggio alpino, è attraversata da una rete di pozzi, centri di raccolta, oleodotti. A grande profondità c’è il petrolio. Ovviamente a sfruttarne il potenziale ci sono grandi compagnie globalizzate, anche se lasciano un po’ di soldi allo stato e una mancetta al territorio.
Dal latte al metano (e ritorno?)
Da quando c’è l’attività estrattiva lo scenario ambientale e sociale è sensibilmente cambiato, e non poteva andare diversamente. Su quei crinali ruminavano le vacche podoliche dal cui latte si produce il provolone più buono del mondo, in quelle pianure si coltivavano legumi e ortaggi fantastici, i fagioli di Sarconi, le melanzane rosse di Rotondella, i peperoni gialli di Senise. In realtà è ancora così ma spesso affiora il dubbio che qualcosa tenda ad alterarsi nell’equilibrio bio-territoriale. Siamo tuttavia sicuri che, alla fine, tra un po’ di tempo, esaurito il giacimento, smantellati gli impianti, il futuro della Val d’Agri potrà contare ancora sui fagioli e i peperoni.
Dove esattamente s’incrociano la produzione d’acciaio e l’estrazione di idrocarburi è a Melfi, che si trova ancora più a nord. Qui la Fiat produce automobili, sebbene non si sappia fino a quando. Per localizzare lo stabilimento e il suo cospicuo indotto di fabbriche e fabbrichette è stata completamente cementificata un’enorme area agricola, dove in sovrappiù hanno insediato un bell’inceneritore. Siamo sul limitare del Tavoliere delle Puglie, dove la terra comincia ad arrampicarsi verso l’Appennino. Ebbene, proprio in quella piana si produceva forse il miglior grano duro di tutto il Mezzogiorno. Difficile torni a crescere come prima, quando gli impianti industriali chiuderanno le loro attività.
Ma a Melfi non si coltivano solo ottimi cereali, c’è anche la produzione di uno dei vini rossi più prestigiosi d’Italia, l’Aglianico del Vulture, un vitigno portato fin quassù proprio da quei migranti greci che sbarcarono sul litorale di Metaponto. E inoltre questa capitale normanna è davvero splendida, al centro di una zona densa di beni culturali stratificati lungo secoli e secoli. Musei, siti archeologici, castelli medievali, chiese meravigliose. Ma nonostante tutta questa ricchezza, a Melfi si è pensato di far atterrare la Fiat, che per anni ha distribuito salari ridotti (e bisognava anche ringraziarla) e oggi è lì a minacciare di chiudere l’impianto e volarsene in America.
La domanda a questo punto del nostro viaggio nel Sud è la seguente: ma siamo sicuri che le colate d’acciaio facciano vivere meglio delle coltivazioni di fagioli, che gli inceneritori siano più moderni e redditizi del provolone, e il petrolio più vantaggioso di un esile tempio greco, e le nuvole rosse di Taranto più salutari delle onde lunghe dello Jonio?

Nessun commento:

Posta un commento