sabato 25 agosto 2012

Italia bene comune


In questa pagina spunti di riflessione e proposte organizzative per un altro modello di convivenza civile.
fonte http://www.alternativeperilsocialismo.it/
La non-trattativa e l’articolo 18
Mentre la politica è sommersa da scandali tanto grandi quanto quotidiani - ultimo quello, clamoroso, che ha investito la Lega - nel Paese reale si gioca uno scontro che ha per oggetto il futuro del lavoro e del modello sociale in cui vivere. Nelle piazze i lavoratori si mobilitano per difendere il loro punto di vista, fino allo sciopero generale della Fiom ma, allo stesso tempo, va in scena tra governo e parti sociali una non-trattativa. Una non-trattativa sul lavoro, senza i lavoratori. Un’assenza clamorosa, totale, organica. I lavoratori e le lavoratrici vengono cancellati come depositari del mandato a negoziare sulla propria condizione, con una proposta autonoma rispetto sia a quella imprenditoriale che a quella del governo (un punto di vista di classe, verrebbe da dire).
Il governo apre il confronto annunciando solennemente che l’avrebbe comunque concluso con la decisione di mutare le norme sul mercato del lavoro, Statuto dei lavoratori compreso. Di fronte all’affermazione del governo di tenersi mano libera, un sindacato rispettoso della propria autorità negoziale avrebbe dovuto rifiutarsi di partecipare al massacro di quel suo bene così prezioso, prendendosi, a sua volta, piena libertà d’iniziativa, a partire da un rinnovato rapporto con l’intero mondo del lavoro. Invece, il tavolo viene imbandito di pietanze avvelenate e avvolto da una coltre d’opacità, con i lavoratori tenuti lontani.
Una non-trattativa, dunque, che segna l’uscita da destra dalla crisi della concertazione e sostanzia la crisi del sindacalismo confederale. La politica sindacale di un lungo ciclo di esperienze negoziali è cancellata: non c’è una piattaforma rivendicativa; non viene elaborata un’analisi condivisa tra i sindacati e con i lavoratori sulla linea del governo e sui suoi prevedibili obiettivi; non è individuato il punto di caduta accettabile del confronto, oltre il quale configurare la rottura. Persino sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori si è evitato di farlo, con un esito infatti politicamente disastroso. Eppure, chiunque sapeva che esso costituiva una cartina di tornasole, essendo, insieme, una diga reale, concreta contro lo strapotere padronale e un segnalatore simbolico dei più generali rapporti di classe. Un punto di valore costituzionale, tanto che quando fu varato lo Statuto si disse che la democrazia aveva varcato i cancelli della fabbrica. Così ci si è esposti persino alla beffa di un padronato che con il sostegno delle destre si dichiara insoddisfatto, in modo da poter ancora essere all’attacco.
E’ stato espulso dalla non-trattativa anche il tema di come si crea lavoro e occupazione, non è stato posto il tema cruciale del salario sociale, mentre si è stabilizzato il regime di flessibilità (e di precarietà). Un disastro che la tardiva, ma utile e persino importante, reazione della Cgil non deve indurre a sottovalutare. Un lungo, ricco e assai diversificato ciclo del sindacalismo confederale in Italia si chiude, in un’Europa ormai post-democratica.
E’ tempo di ricominciare un nuovo cammino.

Italia Bene Comune:  un altro modello di democrazia1
Un percorso politico-referendario urgente  per riprendere l’iniziativa ed invertire la rotta

a cura di
A. Lucarelli e U. Mattei

Relazione introduttiva

L’analisi

I referendum del giugno 2011 hanno dimostrato che il popolo italiano, se
informato tramite un’autentica mobilitazione di massa, è capace di dare risposte maggioritarie in senso decisamente alternativo rispetto alle politiche neoliberali ed al pensiero unico che domina il mondo da trent’anni. Le settimane successive al voto hanno altresì dimostrato che la mancanza di un’elaborazione politica unitaria nello schieramento referendario, in particolare la scarsa comunicazione fra il movimento
per l’acqua bene comune e quello anti nucleare, hanno reso impossibile trasformare la vittoria referendaria in una proposta politica di cambiamento efficace in tutto il Paese.
La manovra di Ferragosto e la caduta del governo Berlusconi per via “tecnica”piuttosto che politica, entrambe determinate dal clima di emergenza economica, sonostate la risposta reazionaria e anticostituzionale alla c.d. Primavera italiana, segnata non soltanto dal risultato referendario, ma anche dall’esito del voto delle elezioni amministrative di Milano, ma soprattutto di Napoli, per la sua originalità di proposta ed attuazione di un modello alternativo di democrazia.
I poteri globali, di cui l’Europa è oggi ridotta a cassa di risonanza, non
potevano sopportare che un grande paese come l’Italia decidesse politicamente di  “invertire la rotta”, dando vita ad una nuova egemonia antiliberista, contraria alle grandi opere e decisa a battersi per una reale tutela dei beni comuni, un nuovo rapporto fra pubblico e privato e nuove dimensioni della democrazia, intreccio tra democrazia locale, partecipazione e rappresentanza.

Il dispositivo di restaurazione politica e mediatica che ha portato al governoMonti ha sconvolto il quadro politico del Paese, lasciando la sola Lega, principale artefice delle politiche più detestabili del ventennio berlusconiano, all’opposizione parlamentare. Una tale restaurazione, palesemente contraria a quanto indicato dal popolo solo pochi mesi prima, è stata possibile soltanto mettendo in campo uno sforzo ideologico ingentissimo, un vero colpo di coda estremistico delle politiche dominanti. L’opera di “macelleria sociale” iniziata con Pomigliano è stata dapprima consolidata con l’art. 8 della Manovra di Ferragosto, fino a proporne oggi una costituzionalizzazione a livello europeo e dei singoli Stati membri. 
 1
 Il testo è stato realizzato con il contributo di  R. Albanese, M. Baldarelli, A. Carapellucci, A. De
Benedetto,  S. Lieto, L. Longhi, G. Mastruzzo, D. Mone. Alessandra  Quarta ha coordinato il gruppo di
lavoro.
  
Noi riteniamo che sia necessario reagire, superando l’atteggiamento difensivo in cui abbiamo dovuto giocare la battaglia referendaria, riprendendo un’offensiva capace di riorganizzare, in un grande sforzo politico collettivo, la volontà di alternativa di sistema che abbiamo visto potenzialmente capace di aggregare un blocco maggioritario nel Paese. Sarebbe letale lasciare manovrare il Governo per ancora molte settimane, senza riuscire a mettere in campo un’opposizione organizzata. 
E' quindi indispensabile oggi fare di necessità virtù. Infatti, dovrebbe esserepossibile, entro fine aprile 2012, completare una nuova raccolta di firme referendarie che, se ben governata e pensata politicamente in un quadro ampio, dovrebbe consentire di riprendere iniziativa e porre all’ordine del giorno nazionale, con la dovuta chiarezza e forza, l’alternativa che proponiamo in nome dei beni comuni. 
Il tema dei beni comuni, ben elaborato politicamente durante la Primavera italiana, offre finalmente una chiave di riduzione ad unità di un gran numero di vertenze che sono vive nel Paese. Sviluppando un’inedita sinergia a rete, i movimenti possono contribuire a produrre “dal basso”, secondo le nuove dimensioni della democrazia, un programma politico alternativo capace di nuova egemonia.

La via referendaria

Come noto, è in campo un progetto, largamente condiviso, di abrogazione
referendaria dell’art. 8 della manovra promosso dalla FIOM. La presente proposta  referendaria mira, pertanto, a non lasciare solo il tema del lavoro bene comune, rafforzandolo attraverso la mobilitazione della forza politica che scaturisce dalle diverse declinazioni territoriali e tematiche delle vertenze per i beni comuni.
Sono infatti oggi in campo: 
a) movimenti e vertenze che rivendicano la cura del territorio come bene comune, in  contrapposizione alla logica delle grandi opere, già sconfitta nel referendum sul nucleare. Il movimento NO TAV della Valsusa non è per nulla solo in queste vertenze ed una rete contro lo scempio del territorio si sta organizzando;
b) movimenti e vertenze a tutela della democrazia partecipativa e dell’esito dei referendum del giugno 2011, in particolare del primo quesito relativo ai servizi di interesse generale obliterato dalla manovra di ferragosto. Le condizioni economiche per la gestione pubblica e partecipata dei beni comuni (trasporti, servizi pubblici, ecc.) sono a loro volta temi all’ordine del giorno; 
c) movimenti per il riconoscimento della cultura e della conoscenza come bene comune, da quello del Teatro Valle a quello contro la visione aziendalistica dell’Università, a quello sulla RAI.
Le vertenze di cui tali movimenti sono portavoce e che sono già articolate in una ricca rete di iniziativa politica possono affiancare il referendum per il lavoro come bene comune: l’intera piattaforma darebbe al popolo italiano la possibilità di esprimersi su un equivalente funzionale, che nasce “dal basso”, del referendum negato al popolo greco. Tramite il proposto ed urgente cammino referendario, gli Italiani possono infatti essere accompagnati a pronunciarsi, questa volta in modo sistematico, circa l’insistenza su ricette neoliberiste per uscire dalla crisi, continuamente riproposte (o meglio ri-imposte) dalla troika BCE, Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale ed implementate, con costi sociali insopportabili, dal governo “tecnico”.
Si deve mettere in campo da subito un’opposizione extraparlamentare per
muovere passi politici ed istituzionali concreti nella produzione di un’“Italia bene  comune”. Le vertenze sub a) sono qui articolate tramite la proposta di abrogazione di alcuni dei provvedimenti legislativi con cui il “pensiero unico” ha smantellato i presupposti di un buon governo del territorio, informato all’ecologia e al rispetto della legalità.  In particolare proponiamo qui 
a1) un referendum sul c.d. federalismo demaniale, la via prescelta per il saccheggio della proprietà pubblica e dei beni culturali;
a2) un referendum contro la militarizzazione dei siti del cantiere  TAV in Valsusa,  prevista nella manovra del governo Berlusconi;
a3) un referendum contro lo stato di eccezione codificato nella Legge sui grandi  eventi che consente la sovversione del sistema delle fonti del diritto e di ogni garanzia politica e costituzionale, legalizzando un vero e proprio dispositivo di saccheggio e malaffare. 
Le vertenze sub b) sono oggi condotte in parte in via giudiziaria (ricorso
diretto alla Corte Costituzionale, conflitto di attribuzione sollevato dal Comitato  referendario Acqua Bene Comune aventi ad oggetto l’art. 4 della manovra di ferragosto), in parte attraverso campagne dirette al rispetto dell’esito referendario di giugno 2011 come l’autoriduzione delle bollette sull’acqua, in parte tramite una moltitudine di lotte locali per la salvaguardia dei trasporti e dei servizi pubblici.
Proponiamo qui di affiancare a queste campagne due referendum:
b1) il primo di tipo “difensivo”, che in sostanza mira alla ri-cancellazione della struttura del Decreto Ronchi riprodotta interamente dal Decreto di Ferragosto; 
b2) il secondo, volto a ricostruire Cassa Depositi e Prestiti, per valorizzarla poi come bene comune indispensabile per il reperimento delle condizioni di percorribilità economica della riconversione della nostra economia.  
Infine, le vertenze sub c) sono volte a ristabilire le condizioni sostanziali di agibilità democratica in un paese che voglia dotarsi di un futuro. Realizzare cultura, informazione ed università come beni comuni costituisce un passo fondamentale di bonifica della nostra democrazia a fine di inclusione e di emancipazione. Per queste ragioni viene proposta l’abrogazione
c2) dell’art. 6 della legge n. 133/2008, che per primo ha segnato la privatizzazione  dell’Università;
c1) di parte della c.d. Riforma Gelmini (n. 240/2010) che ha completato la visione  aziendalista dell’Università;
c3) di parte della Legge Gasparri che prefigura lo smantellamento della Rai come  azienda pubblica, in modo da porre le premesse per la sua riorganizzazione come bene comune. 

Si sarebbe dovuto completare il quadro tramite un quesito sul Decreto n.
114/2008 (c.d. Decreto Tremonti) volto a ripristinare il diritto soggettivo al contributo pubblico per le imprese editoriali cooperative. Tuttavia la natura di bilancio di quella norma la protegge dal Referendum sicché quella battaglia di civiltà deve essere condotta con altri mezzi.

Le fasi

Il processo qui proposto ha tratti e scopi diversi da quello sull’acqua bene comune alla cui predisposizione avevamo collaborato. Non solo l’attuale contesto politico è notevolmente diverso, perché il nuovo Governo pare godere per ora di un consenso ben più vasto di quello di Berlusconi, ma ci stiamo anche avviando verso fine legislatura. Il che significa che le prossime elezioni politiche avverranno comunque prima dell’eventuale espletamento dei referendum, che potrebbero tenersi
soltanto nella primavera del 2014. Si tratta quindi di valutare l’opportunità di usare la  raccolta firme referendarie come una “messa all’ordine del giorno” dell’aggregato tematico dei beni comuni con cui ci si dovrà confrontare nella prossima campagna elettorale. 
Tutto ciò se da un lato obbliga a completare la raccolta di firme nei primi tre mesi del 2012, d’altra parte darà tempo ai movimenti di mettere in campo una serie di proposte legislative di iniziativa popolare intorno a tutti i temi oggetto del referendum costruendo così anche una “pars construens” di una specifica programmazione politica, che potrebbe far tesoro delle sinergie derivanti, presumibilmente, da una campagna
referendaria sotto l’insegna condivisa dei beni comuni.
Non solo, ma dall’aprile del 2012 sarà possibile dar vita alla raccolta delle firmeper le iniziative europee di cui all’art. 11 del Trattato di Lisbona, che dovrebbe vedere i movimenti italiani in prima linea tanto sull’“acqua bene comune” quanto, più in generale, su un progetto di una “Carta europea dei beni comuni”, promossa dal Comune di Napoli anche in funzione costituente europea (un primo testo è consultabile in appendice a questo documento). Essendo il 2014 anche anno di elezioni del Parlamento Europeo, la vera e propria campagna per i referendum
sull’Italia Bene Comune potrebbe essere contemporanea alla campagna elettorale  europea. Possiamo mettere così in campo una visione autenticamente alternativa da articolarsi tanto a livello nazionale quanto a livello europeo, proprio al fine di evitare scorciatoie antieuropeiste sulle quali la destra populista (in primis fin da ora la Lega) potrebbe quasi certamente puntare per far dimenticare le proprie responsabilità.
Quelli che ci attendono sono due anni davvero decisivi ed estremamente
pericolosi: non è da escludersi che con l’acuirsi delle conseguenze sociali della crisi  economica, possano prevalere tentazioni autoritarie e nazionalistiche. Tutto ciò rischia di far perdere di vista la vera emergenza sociale ed ecologica che va invece affrontata senza indugio, mettendo in campo proposte concrete di riconversione ecologica e qualitativa del nostro modello di sviluppo. E’ perciò essenziale che di
questi temi si cominci a discutere da subito ai banchetti della raccolta firme e che  intorno ad essi si aggreghino nuovi centri propulsivi del dibattito politico, nel quadro di una nuova grande mobilitazione sui beni comuni che sappia questa volta dotarsi anche della capacità politica di tradurre in un’azione davvero incisiva la nuova egemonia. 


PIATTAFORMA REFERENDARIA ITALIA BENE COMUNE

SOMMARIO


  • Governo del territorio: ecologia, legalità, Beni Comuni
  • Il Federalismo Demaniale
  • Militarizzazione Siti TAV
  • Gestione dei Grandi Eventi
  • Gestione Pubblica e Partecipata dei Beni Comuni
  • Privatizzazione dei Servizi Pubblici Locali
  • Cassa Depositi e Prestiti: la privatizzazione del risparmio
  • Cultura, Informazione e Università come Beni Comuni
  • Università e Ricerca  
  • Rai e Servizio Pubblico
  • Proposta per una Carta Europea dei Beni Comuni  



GOVERNO DEL TERRITORIO: ECOLOGIA E LEGALITÀ

Il Federalismo Demaniale


Volete voi che sia abrogato l’art. 2 comma 4  limitatamente alle parole “dispone del bene nell’interesse della collettività rappresentata ed”; comma 5, lett. b) ; l’art. 3, comma 6 limitatamente alle parole “e alienazione degli
stessi”; art. 4, comma 1, limitatamente alle parole “entrano a far parte del patrimonio disponibile dei comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Regioni, ad eccezione di quelli appartenenti al demanio marittimo,
idrico e aeroportuale, che”; art. 6; art. 9 comma 5 del decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85, recante “Attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un proprio patrimonio, in attuazione dell’articolo
19 della legge 5 maggio 2010, n. 42?

Il quesito

Il quesito si propone di abrogare alcune disposizioni del decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85, entrato in vigore il 26 giugno del 2010, il quale rappresenta il primo decreto di attuazione del c.d. “federalismo fiscale”, introdotto dalla legge 5 maggio 2009, n. 42. Tale legge delega si proponeva di attribuire un patrimonio a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, in forza dell’art. 119. 6 Cost., come riformato nel 2001, secondo cui “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge  dello Stato”. Di fatto, il decreto n. 85/2010 ha aperto il nostro ordinamento al c.d. “federalismo demaniale”.
In particolare, gli articoli del decreto oggetto di referendum abrogativo
ammettono la possibilità che gli enti locali dismettano i beni loro attribuiti a seguito di  procedure di trasferimento, potendo in questo modo far cassa, risanando i propri bilanci. Tale scopo del resto emerge chiaramente da altra norma del decreto n. 85/2010, l’art. 9 comma 5 secondo cui “le risorse nette derivanti all’ente locale dall’alienazione dei beni sono destinate alla riduzione del debito dell’ente”. Inoltre, il favor del decreto nei confronti di processi di svendita non è certo smentito dal comma  2 dell’art. 2, secondo cui gli enti locali in dissesto finanziario non possono alienare i beni attribuiti finché perdura lo stato di crisi, considerato che non è previsto alcun meccanismo di garanzia posto a controllo delle  eventuali alienazioni.

Coerenza del quesito con gli obiettivi generali dell'iniziativa "Italia benecomune"

L’abrogazione delle norme indicate in premessa si inscrive nella teoria generale  dei beni comuni, secondo cui determinate risorse non possano essere oggetto di processi di dismissione avviati per far fronte alle esigenze di spesa corrente dello Stato e degli enti locali.  In altre parole, è emersa l’esigenza di offrire una tutela rafforzata a determinati beni, attraverso l’introduzione di una nuova categoria – quella appunto dei beni comuni – formalizzata nel progetto di riforma della proprietà pubblica nel codice civile (c.d. Commissione Rodotà) e rappresentata sul piano politico ed istituzionale dalla campagna referendaria per l’Acqua bene comune.
Contemporaneamente, segnali di apertura sono arrivati anche dalla giurisprudenza ed  in particolare dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che nella sentenza n. 365 del 14 febbraio 2011 ha ritenuto, in un’ottica evolutiva ed interpretativa che “là dove un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche
connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale come sopra delineato, detto bene è da ritenersi al di fuori dell’ormai datata prospettiva del dominium romanistica e della proprietà codicistica, “comune” vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà,
strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini”.  
La campagna Italia bene comune si propone di intervenire proprio a tutela di questi beni e della collettività, oltre che delle generazioni future, evitando che i patrimonio comune sia oggetto di speculazioni e svendite.

Il quadro di riferimento

L’idea che gli enti locali debbano avere un proprio patrimonio, dimora nella novella del Titolo V della Costituzione ed in particolare nell’art. 119. Sotto questa copertura normativa e con uno sguardo verso il federalismo fiscale, il legislatore ha avviato tale percorso di riforma partendo dal c.d. federalismo demaniale. Il decreto n. 85/2010 ha così previsto che lo Stato trasferisca a titolo gratuito una parte dei beni
demaniali, fornendo agli enti locali una base patrimoniale idonea a garantire un’autonomia di bilancio, con lo scopo di eliminare i trasferimenti erariali nei loro confronti. Il contesto economico di riferimento in cui il decreto è stato approvato vedeva una manovra finanziaria che tagliava a Regioni ed enti locali circa 15 miliardi
nell’arco di tre anni: per questa ragione, alcuni hanno ritenuto che percorrere la via  del federalismo demaniale fosse “iniziativa congiunturale piuttosto che […] una riforma strutturale”2, volta quindi a fornire agli enti locali forme e strumenti per il risanamento del proprio debito pubblico. Ciò emerge peraltro dall’analisi del decreto  che, secondo alcuni, rivela una contraddittorietà intrinseca nei principi ispiratori3, ben rappresentata dalle norme oggetto del quesito referendario.  
E’ importante notare che, all’espletamento delle procedure previste dal
decreto, lo Stato trasferirà agli enti locali un totale di 19.005 unità appartenenti al proprio demanio, per un valore di circa tre miliardi4. Così, per dar conto solo di alcuni esempi, la Lombardia può contare su un portafoglio di beni per un valore complessivo pari a 700 milioni5, mentre nel patrimonio (disponibile) della Regione Sicilia passano beni come la Valle dei Templi di Agrigento e il Palazzo dei Normanni di Palermo6. Tutti potranno essere oggetto di processi di dismissione a favore di
privati.
2
  R. GALLIAIl federalismo demaniale,  in  Rivista Giuridica del Mezzogiorno, a. XXIV, 2010, n. 3,  pag.
967. 


Argomenti a sostegno dell'intervento abrogativo

L’art. 2, co. 4, prevede che “l’ente territoriale, a seguito dell’attribuzione,
dispone del bene nell’interesse della collettività rappresentata ed è tenuto a favorire la  massima valorizzazione funzionale del bene attribuito, a vantaggio diretto o indiretto della collettività territoriale rappresentata. Ciascun ente assicura l’informazione della collettività circa il processo di valorizzazione anche tramite pubblicazione sul proprio sito internet istituzionale. I Comuni possono indire forme di consultazione popolare, anche in forma telematica, in base alle norme dei rispettivi Statuti”7.
A ben guardare, tuttavia, il decreto limita l’interesse della collettività di
riferimento ad una mera dichiarazione di principio, facendo coincidere i processi di  valorizzazione con l’alienazione dei beni da parte degli enti locali. In altre parole, ciò che sembra descrivere al meglio il concetto di cui si discute è il criterio di semplificazione che, insieme ad altri individuati dal comma 5 dell’art. 2 (territorialità, sussidiarietà, adeguatezza, capacità finanziaria …), rappresentano i parametri da
impiegare per l’attribuzione dei beni demaniali agli enti locali. In particolare, esso apre  alla possibilità che Regioni ed Enti locali ricorrano a procedure di alienazione e dismissione secondo quanto stabilito dall’art. 58 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 poi convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. L’attuazione del criterio della semplificazione consentirebbe quindi agli enti locali di avvalersi di processi i cui introiti sarebbero utili per porre rimedio a situazioni di disavanzo finanziario. I beni immobili trasferiti agli enti entrano a far parte del loro patrimonio disponibile con un processo di vera e propria sdemanializzazione che fa salvi soltanto i beni appartenenti al demanio marittimo, idrico ed aeroportuale (art. 4, co. 1)8. Il decreto poi, oltre a
rinviare alle ordinarie forme di dismissione del patrimonio, ne contempla anche di più  avanzate come il conferimento a fondi comuni di investimento immobiliare (art. 6 co. 1)9.
A fronte di questo quadro, la disciplina del federalismo demaniale appare
addirittura sorprendente, perché rimette agli enti locali, attraverso veri e propri processi di sdemanializzazione ex art. 829 c.c., beni fondamentali per la collettività nazionale in forza  della loro funzione ed essenzialità intrinseca, consentendone la dismissione. In altre parole, le disposizioni descritte consentono agli enti locali di trasferire proprietà pubblica a privati, con un’operazione  priva delle garanzie proprie dell’espropriazione di proprietà privata. Se ciò non bastasse, la disciplina in questione si pone in contrasto con diverse previsioni costituzionali, come autorevolissima dottrina ha evidenziato: “innanzitutto, è violato l’art. 76 Cost. per aver il Governo ecceduto dai limiti imposti dalla legge di delega (art. 19 della legge n. 42 del 2009).
Inoltre, risultano violati i seguenti articoli: l’art. 1 Cost., in quanto viene lesa la sovranità della Repubblica e quella che Carl Schmitt denominava ma «superproprietà» del Popolo sovrano; art. 2 Cost., in quanto, sottraendosi a tutti i cittadini italiani la proprietà collettiva e l’uso di beni necessari per soddisfare esigenze primarie della vita, si ledono diritti inviolabili relativi all’esistenza ed allo sviluppo della persona umana;
l’art. 3 Cost., in quanto si creano molteplici disparità di trattamento fra i cittadini  italiani; l’art. 5 Cost., in quanto, dividendo ingiustamente il demanio statale tra le varie Regioni e Province, si sottrae una parte del territorio alla Repubblica; l’art. 42 Cost., in quanto si sottrae indebitamente alla Comunità nazionale la proprietà e l’uso di beni
appartenenti a tutti; l’art. 43 Cost., in quanto si sottraggono allo Stato-comunità beni  di «preminente interesse generale»; l’art. 117, comma secondo, lett. l), in quanto, non si prescinde dai confini territoriali dei governi locali, per offrire servizi naturali di uniforme livello essenziale a tutti i cittadini italiani; l’art. 120 Cost., in quanto si infrange l’unità economica e giuridica della Repubblica. E, lo si creda, l’elenco potrebbe continuare”10


3 P. M. ZERMANIl federalismo demaniale tra interesse della comunità e risanamento del debito,
pubblicato su www.giustizia-amministrativa.it/documentazione il 31 maggio 2010.
4 S. SETTISLa costituzione e i beni pubblici, in La Repubblica del 24 agosto 2010.
5 I beni pubblici in vendita valgono 700 milioni, in La Repubblica di Milano del 27 luglio 2010.
6 Dalla Valle dei templi ai teatri antichi, lo Stato cede 143 beni alla Regione, in La Repubblica di Palermo
del 3 giugno 2010.
7 Per una lettura critica del decreto, cfr. le schede di Federalismi.it - Rivista di diritto pubblico italiano,
comunitario e comparato.                                             
8 Sono invece esclusi dal trasferimento e restano quindi al demanio dello Stato i fiumi e laghi ultraregionali,
i porti di interesse nazionale, aeroporti di rilevanza economica nazionale ed internazionale, beni
appartenenti al patrimonio culturale, reti di interesse statale (stradali ed energetiche), parchi nazionali e
riserve naturali, strade ferrate in uso di proprietà dello Stato (art. 5 co. 2).
9 A. POLICEIl federalismo demaniale: valorizzazione nei territori o dismissioni locali?, in Giornale Dir.
Amm., 2010, 12, 1233.
10 P. MADDALENA,  I beni comuni nel codice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione della
Repubblica Italiana, in Federalismi.it  Rivista di diritto pubblico italiano, comunitario e comparato, n.
19/2011, pag. 17. 
  
Ammissibilità del ricorso al referendum 

Le disposizioni oggetto del quesito referendario, non rientrando tra le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, possono senz'altro essere oggetto di referendum abrogativo ex art. 75 Cost., non sussistendo altresì alcuno dei limiti desumibili dalla giurisprudenza costituzionale in materia.
In particolare, la disciplina indicata non presenta contenuto costituzionalmente vincolato né è stata elaborata a fronte di obblighi provenienti dalla disciplina comunitaria. Il quesito si presenta inoltre omogeneo, rispettando i parametri di univocità, chiarezza e coerenza (cfr. C. Cost., sent. nn. 47/1991 e 5/1995), nonostante esso abbia ad oggetto pluralità di disposizioni. Queste infatti sono tutte sussumibili in un unico principio unitario, ossia l’introduzione delle condizioni necessarie affinché gli enti locali possano alienare beni pubblici. Si propone quindi
un’abrogazione parziale, proprio perché diretta a cancellare norme introdotte dal  legislatore secondo un’unica ratio.
Il quesito è poi idoneo a perseguire lo scopo che lo spirito del comitato
promotore si propone di rappresentare: evitare che l’attuazione delle disposizioni oggetto della proposta di abrogazione determini una sostanziale spoliazione della collettività di beni funzionali al perseguimento e al soddisfacimento di interessi e diritti fondamentali della persona, ponendosi anche in contrasto con l’ordinamento
costituzionale. 
Allo stesso modo, l’abrogazione della norma indicata non determinerebbe
lacune normative, giacché i beni immobili sarebbero oggetto di trasferimento agli enti  locali, a patto che essi propongano un adeguato progetto di valorizzazione funzionale. 



Militarizzazione Siti TAV 

Volete voi che sia abrogato l’art. 19, comma 1 e 2 della legge 12 novembre 2011, n.  183?

Il quesito

Il quesito ha l’obiettivo di abrogare i commi 1 e 2 dell’art. 19, legge 12
novembre 2011, n. 183, che hanno rispettivamente qualificato le aree ed i siti del Comune di Chiomonte “di interesse strategico nazionale” ed applicato l’art. 682 c.p. nei confronti di chi si introduca abusivamente, impedisca o ostacoli l’accesso autorizzato nelle aree indicate. 

Coerenza del quesito con gli obiettivi generali dell'iniziativa "Italia benecomune"

La disciplina di cui all’art. 19 dalle legge 12 novembre 2011, n. 183,
qualificando le aree del Comune di Chiomonte, sede del cantiere della linea ferroviaria Torino – Lione, “siti di interesse strategico nazionale”, ha reso possibile l’applicazione dell’art. 682 c.p., rubricato “Ingresso arbitrario in luoghi, ove l'accesso è vietato nell'interesse militare dello Stato”.
La scelta politica sottesa a tale normativa desta significative preoccupazioni, giacché ricorre alla militarizzazione del territorio per gestire il dissenso spesso manifestato nei confronti della realizzazione dell’opera, proprio come se si affrontasse una situazione di “guerra”, che richiede l’uso della forza.
Tale rappresentazione contribuisce a segnare il definitivo scollamento tra
crescita economica e benessere, causando una frattura tra scelte politiche del governo  centrale ed interessi delle comunità locali, le quali sono state sempre estromesse dai procedimenti di realizzazione dell’opera, come del resto dimostra ad es. l’esclusione dei rappresentanti istituzionali contrari al progetto dall’Osservatorio per il Collegamento Ferroviario Torino – Lione. 
In questo quadro, la norma di cui si propone l’abrogazione intende
neutralizzare – attraverso l’uso della forza militare - l’opposizione alla realizzazione  della linea ferroviaria espressa da gran parte della popolazione locale, all’insegna di un’esperienza collettiva - quella del movimento “No Tav” - che prosegue da circa un ventennio e che raccoglie progressivamente un consenso sempre più ampio e diffuso
sul territorio nazionale.    In questa fase, il legislatore ha deciso di scavalcare gli interessi delle comunità coinvolte e le manifestazioni di dissenso configurando un vero e proprio diritto

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