Si torna a discutere di disuguaglianza tra i redditi e del suo rapporto con la crescita economica. Questa volta con Francesco Saraceno, economista presso l’OFCE di Parigi, che interviene nel dibattito su Project Syndicate per rispondere ad alcune questioni sollevate poco tempo fa da Raghuram Rajan, docente di finanza all’Università di Chicago.
Fonte:
Keynes blog
Secondo Rajan lo sviluppo delle disuguaglianze nella distribuzione
tra i redditi è stato comunque alla base dello scoppio della crisi
internazionale, qualunque sia stata la causa dello sbilanciamento di
tale distribuzione, a causa dell’accumularsi del debito. Queste cause
sono essenzialmente due e ad avviso di Rajan rappresentano due
interpretazioni distinte: il progredire di politiche che favoriscono le
classi più abbienti e quelle trasformazioni dei sistemi produttivi che
accentuano il ruolo delle competenze più qualificate per guadagnare
competitività nei settori più avanzati, diminuendo lo spazio delle
garanzie del mercato del lavoro e dando sempre più spazio alla “libera”
selezione di lavoratori altamente specializzati. Secondo Rajan,
tuttavia, nel secondo caso il prodursi di disuguaglianze aiuta lo
sviluppo, così come è accaduto in Germania, ed è su questa strada che
dovrebbero immettersi i paesi della “periferia d’Europa”.
Saraceno contesta le argomentazioni di Rajan sotto tre punti di vista.
In primo luogo non si capisce perché le due cause che sono alla radice dell’approfondimento della disuguaglianza tra i redditi debbano essere contrapposte. Si tratta di due aspetti importanti e fortemente compresenti nelle economie avanzate, che possono anzi rinforzarsi vicendevolmente acuendo gli scarti tra i redditi. E’ evidente che le spinte create dai processi di avanzamento tecnologico, determinando una maggiore sperequazione tra i redditi dovuta alla maggior concentrazione di lavori ad alta qualificazione, hanno indebolito il fronte del lavoro, favorendo per questa via l’attuazione di politiche più favorevoli agli alti redditi.
Una seconda approssimazione compiuta da Rajan è quella relativa al collegamento diretto tra disuguaglianza tra i redditi e crisi. Tale collegamento mostra caratteristiche diverse a seconda che si considerino gli Stati Uniti o l’Europa. Nel primo caso la forte sperequazione tra i redditi ha innescato il processo di indebitamento, mentre nel secondo caso la depressione dei redditi ha condotto ad un rallentamento della crescita. E’ chiaro, comunque sia, che in ambedue le aree è la depressione della domanda aggregata ad aver spinto verso la crisi, mentre i diversi esiti dei processi che si sono determinati debbono essere ascritti alla diversità di contesti istituzionali e delle politiche adottate.
Si capisce pertanto la debolezza della terza argomentazione di Rajan discussa da Saraceno, e cioè che per superare la crisi l’Europa dovrebbe attuare “riforme strutturali” orientate alla liberalizzazione del mercato del lavoro. Peraltro, la parabola della “distribuzione capillare” della ricchezza concentrata intorno agli alti redditi (“trickle down”) non si è determinata in nessun luogo, come mostrano con forte evidenza i dati statistici.
Infine, sottolinea Saraceno, tutto il discorso del fondamentale trade-off tra disuguaglianza ed efficienza economica deve essere chiarito rispetto ai principi teorici che sono alla base del ragionamento, che vedono una netta distinzione tra breve periodo e lungo periodo, essendo nel lungo periodo determinanti solo fattori di offerta (mentre nel breve periodo anche la domanda può avere effetti sui livelli di attività economica). Stando a questa rappresentazione concettuale, la distribuzione del reddito non è rilevante nel lungo periodo. Se però si assume una connessione tra il breve periodo e il lungo, il trade-off in questione diviene un fatto molto controverso. E’ un aspetto importante, quest’ultimo, intorno al quale si misurano le posizioni dei progressisti e dei conservatori. I primi, come Josef Stiglitz e James Galbraith, negano l’esistenza di un trade-off, affermando che quanto più una società è diseguale, tanto più è incapace di azionare le leve per la crescita della ricchezza collettiva. Rajan, richiama nuovamente Saraceno, tralascia inoltre di considerare che l’assenza di protezioni del mercato del lavoro ha effetti anche nel breve periodo, in quanto i lavoratori non sono messi nella condizione di investire nell’arricchimento del proprio capitale umano o comunque risultano indeboliti nella loro capacità di consumo.
Tutto ciò si proietta in una più debole capacità di crescita nel lungo periodo, esattamente come accade per effetto delle politiche di austerità.
E’ importante quindi, conclude Saraceno, abbandonare il solco delle teorie mainstream centrate sul ruolo dell’offerta. Il collegamento tra breve e lungo periodo fa decadere la tradizionale dicotomia tra domanda e offerta di cui si serve il mainstream per giustificare, in relazione ai ragionamenti sopra esposti, la necessità di “riforme strutturali”, orientate alla liberalizzazione del mercato del lavoro. Solo in questa prospettiva si può valutare in che misura la disuguaglianza inibisce la crescita. E, una volta che lo si è provato, è necessario evitare politiche che sono solo in grado di approfondire la depressione economica.
Saraceno contesta le argomentazioni di Rajan sotto tre punti di vista.
In primo luogo non si capisce perché le due cause che sono alla radice dell’approfondimento della disuguaglianza tra i redditi debbano essere contrapposte. Si tratta di due aspetti importanti e fortemente compresenti nelle economie avanzate, che possono anzi rinforzarsi vicendevolmente acuendo gli scarti tra i redditi. E’ evidente che le spinte create dai processi di avanzamento tecnologico, determinando una maggiore sperequazione tra i redditi dovuta alla maggior concentrazione di lavori ad alta qualificazione, hanno indebolito il fronte del lavoro, favorendo per questa via l’attuazione di politiche più favorevoli agli alti redditi.
Una seconda approssimazione compiuta da Rajan è quella relativa al collegamento diretto tra disuguaglianza tra i redditi e crisi. Tale collegamento mostra caratteristiche diverse a seconda che si considerino gli Stati Uniti o l’Europa. Nel primo caso la forte sperequazione tra i redditi ha innescato il processo di indebitamento, mentre nel secondo caso la depressione dei redditi ha condotto ad un rallentamento della crescita. E’ chiaro, comunque sia, che in ambedue le aree è la depressione della domanda aggregata ad aver spinto verso la crisi, mentre i diversi esiti dei processi che si sono determinati debbono essere ascritti alla diversità di contesti istituzionali e delle politiche adottate.
Si capisce pertanto la debolezza della terza argomentazione di Rajan discussa da Saraceno, e cioè che per superare la crisi l’Europa dovrebbe attuare “riforme strutturali” orientate alla liberalizzazione del mercato del lavoro. Peraltro, la parabola della “distribuzione capillare” della ricchezza concentrata intorno agli alti redditi (“trickle down”) non si è determinata in nessun luogo, come mostrano con forte evidenza i dati statistici.
Infine, sottolinea Saraceno, tutto il discorso del fondamentale trade-off tra disuguaglianza ed efficienza economica deve essere chiarito rispetto ai principi teorici che sono alla base del ragionamento, che vedono una netta distinzione tra breve periodo e lungo periodo, essendo nel lungo periodo determinanti solo fattori di offerta (mentre nel breve periodo anche la domanda può avere effetti sui livelli di attività economica). Stando a questa rappresentazione concettuale, la distribuzione del reddito non è rilevante nel lungo periodo. Se però si assume una connessione tra il breve periodo e il lungo, il trade-off in questione diviene un fatto molto controverso. E’ un aspetto importante, quest’ultimo, intorno al quale si misurano le posizioni dei progressisti e dei conservatori. I primi, come Josef Stiglitz e James Galbraith, negano l’esistenza di un trade-off, affermando che quanto più una società è diseguale, tanto più è incapace di azionare le leve per la crescita della ricchezza collettiva. Rajan, richiama nuovamente Saraceno, tralascia inoltre di considerare che l’assenza di protezioni del mercato del lavoro ha effetti anche nel breve periodo, in quanto i lavoratori non sono messi nella condizione di investire nell’arricchimento del proprio capitale umano o comunque risultano indeboliti nella loro capacità di consumo.
Tutto ciò si proietta in una più debole capacità di crescita nel lungo periodo, esattamente come accade per effetto delle politiche di austerità.
E’ importante quindi, conclude Saraceno, abbandonare il solco delle teorie mainstream centrate sul ruolo dell’offerta. Il collegamento tra breve e lungo periodo fa decadere la tradizionale dicotomia tra domanda e offerta di cui si serve il mainstream per giustificare, in relazione ai ragionamenti sopra esposti, la necessità di “riforme strutturali”, orientate alla liberalizzazione del mercato del lavoro. Solo in questa prospettiva si può valutare in che misura la disuguaglianza inibisce la crescita. E, una volta che lo si è provato, è necessario evitare politiche che sono solo in grado di approfondire la depressione economica.
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