Sono 21.000 miliardi di dollari: è la cifra che gli uomini più ricchi del mondo nascondono nei paradisi fiscali sparsi per il pianeta. C’è chi parla addirittura di 32.000 miliardi, ma l’ammontare complessivo è quasi impossibile da calcolare. Si stima che il solo rientro dei super-capitali evasi basterebbe ad azzerare l’attuale crisi europea del debito. Mentre i governi tagliano la spesa e licenziano lavoratori sotto la scure dell’austerity, gli ultra-ricchi (meno di dieci milioni di persone) hanno nascosto al fisco un “bottino” pari alla somma del prodotto interno lordo degli Stati Uniti e di quello del Giappone. Lo rivela il nuovo rapporto del “Tax Justice Network”, secondo cui «le entrate perse a causa dei paradisi fiscali sono talmente ampie da costituire una differenza significativa secondo tutti i nostri indici convenzionali di diseguaglianza», visto che «la maggior parte della ricchezza finanziaria mancante appartiene a una piccola élite».
Si calcola che, se questi 21.000 miliardi non dichiarati fruttassero un rendimento del 3% e questa rendita fosse tassata del 30%, soltanto ciò genererebbe introiti fiscali pari a circa 190 miliardi di dollari. Se invece l’ammontare di denaro nei paradisi fiscali fosse più vicino alla valutazione più elevata, quella di 32.000, ciò potrebbe generare introiti fiscali per 280 miliardi, circa il doppio di quanto i nostri paesi spendono per il sostegno allo sviluppo. In altre parole, un mucchio di soldi. E la tassazione al 3% è quella più bassa che si potrebbe imporre. Un “tesoro” ricavabile solo delle tasse sul reddito: quelle sui capitali azionari potrebbero fruttare ancora di più.
James Henry, ex capo economista di McKinsey & Co., autore di “The Blood Bankers” e di articoli apparsi su “The Nation” e sul “New York Times”, ha scavato nei documenti della Bank for International Settlements, del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale, delle Nazioni Unite, di banche centrali e di analisti del settore privato, riuscendo infine a tracciare il profilo dell’enorme riserva di denaro che fluttua nelle nebulose località definite offshore. «E stiamo parlando soltanto del denaro – scrive Sarah Jaffe sul “Manifesto” – perché il rapporto non si occupa di appartamenti, yacht, opere d’arte e altre forme di ricchezza nascoste nei paradisi fiscali e quindi non tassate». Henry lo definisce il “buco nero” dell’economia mondiale: almeno un terzo di tutta la ricchezza finanziaria privata e circa la metà di quella offshore è posseduta dalle 91.000 persone più ricche del mondo, cioè appena lo 0.01% della popolazione del pianeta.
Chi sono queste persone? Il rapporto parla di «speculatori cinesi trentenni, attivi nel settore immobiliare e magnati del software della Silicon Valley» e coloro la cui ricchezza deriva dal petrolio e dal traffico di droga. Lo stesso Mitt Romney, candidato alla presidenza degli Usa, è stato attaccato per aver nascosto denaro in un conto svizzero e in investimenti nelle Isole Cayman. Mentre i signori della droga hanno bisogno di nascondere i loro profitti illegali, tanti altri ultra-ricchi evitano di pagare le tasse costruendo intricati gruppi di aziende e altri investimenti soltanto per cancellare un po’ di voci dal conto che devono pagare al loro paese. Secondo James Henry, nonostante alcuni storici paradisi come Singapore e la Svizzera, che offrono «residenze fisiche sicure a bassa tassazione», oggi la ricchezza offshore è soprattutto virtuale, distribuita tra «siti nominali, ultra-portatili, multi-giurisdizionali e spesso temporanei all’interno di reti di organizzazioni e accordi legali e semi-legali».
Una compagnia, spiega il “Manifesto”, può essere ubicata all’interno di una giurisdizione, ma posseduta da un gruppo di aziende situato altrove e amministrata da un insieme di società in una località terza. Il documento distingue inoltre tra “paradisi intermedi” come le Cayman, le Bermuda e la stessa confederazione elvetica, e i “paradisi di destinazione”, che includono Stati Uniti, Gran Bretagna e perfino Germania: paesi che mettono a disposizione «mercati azionari efficienti e disciplinati, banche sostenute da un’ampia popolazione di contribuenti e compagnie d’assicurazione», nonché «sistemi legali ben sviluppati, avvocati competenti, sistemi giudiziari indipendenti». In altre parole: la stessa gente che non paga le tasse, per occultare il proprio denaro approfitta dei servizi finanziati dai contribuenti. Fin dagli anni ’90, negli Usa sono attive organizzazioni «il cui livello di segretezza e protezione nei confronti dei creditori e i cui vantaggi fiscali fanno concorrenza a quelli dei tradizionali paradisi fiscali offshore».
Se a questo si aggiunge che i ricchi e le multinazionali negli Stati Uniti pagano sempre meno tasse, osserva Sarah Jaffe, risulta che il super-evasore è un “cliente” che si fa di tutto per attirare. Chi sta favorendo questo processo? «I nomi che vengono fuori quando si spulcia nei dati sono familiari: Goldman Sachs, Ubs e Credit Suisse sono i primi tre, mentre Bank of America, Wells Fargo e Jp Morgan Chase rientrano tutti nella Top-10». I più noti colossi finanziari, afferma James Henry, sono tutti attori-chiave in molti paradisi fiscali in giro per il mondo e sono fondamentali nel sostenere il sistema globale d’ingiustizia fiscale». Alla fine del 2010, le prime 50 banche private amministravano circa 12.000 miliardi in patrimoni investiti oltre frontiera per i loro clienti: più del doppio rispetto al 2005, con una crescita annuale di oltre il 16%.
«Dalle banche alle aziende di consulenza fiscale, agli studi legali internazionali, alcuni degli affari più grossi del mondo sono legati alla fabbrica dell’elusione fiscale globale», scrive sul “Guardian” la studiosa di finanza Lydia Prieg, già trader di Goldman Sachs. «Queste aziende non sono enti morali che possiamo rimproverare per fargli pagare la loro parte: la loro funzione è massimizzare i loro profitti e quelli dei loro clienti». Fino agli ultimi anni del 2000, rileva ancora lo stesso Henry, il tipico giudizio dei capitalisti rampanti era: che cosa potrebbe essere più sicuro delle banche statunitensi, svizzere e britanniche, notoriamente “troppo grandi per fallire”?. Ma attenzione: senza i salvataggi arrivati con la crisi finanziaria del 2008, molte di queste banche che stanno nascondendo i soldi degli ultra-ricchi non esisterebbero più. I miliardari si rivolgono alle grandi banche proprio perché danno per scontato l’appoggio governativo a queste ultime.
Risultato: la ricchezza che sparisce dai bilanci ufficiali altera le politiche sociali, aggravando le diseguaglianze. Fino a trasformare in “poveri” molti paesi che invece sarebbero ricchissimi: nel solo 2010, ben 139 Stati considerati a basso reddito hanno accumulato un debito di 4.000 miliardi, ma se si tenesse conto di tutto il denaro detenuto offshore, questi paesi avrebbero un saldo attivo di 10.000 miliardi. «Una volta considerati questi patrimoni offshore e i guadagni che essi producono – dice Henry – molti paesi definiti come debitori si rivelano essere in realtà ricchi. Ma il problema è che la loro ricchezza è offshore, nelle mani delle loro élite e dei loro banchieri privati». Da oltre dieci anni, poi, il paesi “in via di sviluppo” sono rivelati creditori di quelli più avanzati: e l’onere ricade per intero sulle spalle dei lavoratori di quei paesi, che non possono avvantaggiarsi di sofisticati scudi fiscali. Nonostante la crisi dei debiti sovrani che sta dilaniando il vecchio continente, secondo l’economista francese Thomas Piketty «la ricchezza detenuta nei paradisi fiscali è probabilmente sufficiente a trasformare l’Europa in un grosso creditore netto nei confronti del resto del mondo».
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