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“I’m not blaming any longer,
But if what doesn’t kill you makes you stronger,
Then you’ve created a monster.
In the streets with the people,
They’re the only ones I trust,
Cause they don’t give a fuck about us”
A
meno di due settimane dalla morte di George Floyd il movimento di
protesta sviluppatosi per denunciare innanzitutto la violenza poliziesca
nei confronti della comunità afro-americana ha assunto sabato un
profilo compiutamente nazionale negli Stati Uniti, nel mentre si
tenevano manifestazioni in buona parte del globo.
Marce
con migliaia di persone sono sfilate nelle maggiori città statunitensi –
finora l’epicentro della protesta – mentre gruppi più piccoli
dimostravano nelle città minori.
La
manifestazione più attesa era quella nella capitale, che si è tenuta in
un clima pacifico, festoso e popolare nonostante la cappa di piombo che
il presidente Trump ha cercato di far calare con le sue minacce di
militarizzazione – brandendo l’ipotesi dell’utilizzo dell’esercito vero e
proprio – e sulla variegata galassia degli attivisti del movimento,
reiterando la propria volontà (priva di fondamento giuridico) di
considerare gli “antifa” una organizzazione terroristica “domestica”.
Un documento fornito da un anonimo funzionario della FBI a The Nation
mostra che non sono state trovate connessioni dirette tra gli “antifa” e
le proteste del 31 maggio a Washington, giorno in cui il Presidente ha
per la prima volta preso di mira la galassia antifascista.
La narrazione presidenziale, non sostenuta da alcuna prova tangibile, vuol far passare l’idea di un deus ex machina
nascosto dietro la protesta con un preciso piano di destabilizzazione, e
l’intervento dell’esercito più che risolvere una necessità pratica – la
Guardia Nazionale intervenuta in 26 Stati in ausilio alle già
militarizzate forze di polizia è un corpo composto da 400 mila
“riservisti” con alle spalle missioni militari all’estero – sarebbe
stato pensato per far passare l’idea di un presidente “assediato” da una
minaccia oscura.
È il canovaccio che usa l’establishment
statunitense da almeno un secolo, cioè da quando – dopo la Prima Guerra
Mondiale – venne creato la “Radical Division”, poi GID all’interno del
Bureau of Investigation, con a capo quel J. E. Hoover che sarà
l’architetto delle strategie di contro-rivoluzione preventiva per
buona parte dal Novecento, a cominciare dai Palmer Raids tra le due
guerre, passando per il “maccartismo” e giungendo fino al “Cointelpro”.
All’apice della sua efficacia, la “lista nera” di attivisti nell’index della FBI contava ben 26.147 persone.
Infiltrazione,
omicidio sistematico della leadership, operazioni “false flag”,
montature giudiziarie, pressioni psicologiche e distruzione del tessuto
relazione degli attivisti sono state alcune delle armi dell’ingombrante
arsenale usato contro gli attivisti più utilizzate…
Lo
spirito di “criminalizzazione” dell’attivismo, e le tattiche usate, non
sembrano cambiati; semmai nel corso degli anni la sorveglianza
tecnologica è diventata più sofisticata e si è potuta giovare dei “big
data”.
Gli
strateghi del Pentagono, più inclini al calcolo costi-benefici e meno
soggetti alle pressioni politiche contingenti, hanno espresso la propria
contrarietà rispetto all’uso dell’esercito per non “bruciare” il
prestigio di cui gode questa istituzione tra i cittadini americani
“buttandola in politica”, e per non far intervenire un corpo addestrato
per contesti di guerra e composto prevalentemente (nei ranghi della sua
fanteria) da quelle “minoranze etniche” fortemente penalizzate dal
Covid-19 o da persone che hanno prestato servizio nell’esercito per
ottenere la “green card” rispetto alla cittadinanza o per pagarsi gli
studi.
Un
qualsiasi film minimamente dignitoso sull’esercito uscito negli ultimi
anni mostra questa realtà. Forse il più e il più carico di significati è
Land, di Bebak Jalali, che tratta della condizione dei nativi americani, più che un film è il prodotto di una con-ricerca sul campo.
L’analisi più articolata – anche dal punto di vista giuridico – sulla questione dell’uso dell’esercito ed i conflitti sottotraccia tra governo centrale ed eletti locali in questo momento è apparsa sul “Newsweek”.
Come scrivono John Yoo e Robert Delahunty, autori del contributo:
“Ma
solo perché Trump ha la legge dalla sua parte non significa che
dovrebbe usarla. Se usare quel potere è una decisione di arduo giudizio.
Ci sembra che le forze dell’ordine locali e statali, supportate dalle
loro unità della Guardia Nazionale, abbiano risorse sufficienti per
gestire le rivolte urbane per ora.
Il
presidente dovrebbe davvero introdurre truppe solo quando la violenza
cresce al di fuori del loro controllo; il classico ruolo federale è
semplicemente quello di sostenere gli Stati, che mantengono (come nel
caso del coronavirus) la responsabilità primaria della sicurezza
pubblica.
L’intervento
federale è una scelta particolarmente scadente se contrastato da
governatori e sindaci, poiché l’assistenza delle forze dell’ordine
locali è fondamentale per il successo di uno spiegamento federale.
L’intervento
federale avrebbe anche offuscato le linee di responsabilità politica
nel rispondere alla crisi. Il federalismo insegna che il governo locale e
statale dovrebbe rimanere il principale responsabile della salute e
della sicurezza pubblica, in parte perché rispondono immediatamente ai
loro elettori.”
Torniamo alle mobilitazioni di sabato, in particolare quella a Washington che è il “centro politico”.
Ecco come il New York Times la descrive:
“Una
delle più grandi proteste è stata nella capitale della nazione, dove
nuovi recinti, barriere di cemento e un contingente della Guardia
Nazionale ‘non identificabile’ hanno circondato la Casa Bianca,
proiettando simbolicamente l’immagine di un difesa militarizzata,
piuttosto che apertura e democrazia.
Una
folla multietnica e multigenerazionale di migliaia di manifestanti
convergeva lì, allo sbocco di Lafayette Square. I manifestanti a piedi e
in bicicletta si sono diretti al murale Black Lives Matter appena
dipinto sulla via principale, passando in auto con ‘BLM’ e ‘Stop Killing
Us’ scritti sui finestrini posteriori. Successivamente, hanno anche
incontrato persone che sorseggiavano cocktail in alcuni ristoranti di
lusso aperti per cenare all’aperto.
A
volte, sembrava che l’intera città si fosse svuotata nel centro di
Washington mentre i numeri aumentavano. Linee di manifestanti – spesso,
ma non sempre mascherate contro il virus – si facevano strada per le
strade laterali, mentre altri convergevano nei parchi vicini.
In
prima serata, la sulla Sedicesima Strada si aveva la sensazione di una
festa di strada. Camion di gelati al minimo sul ciglio della strada, i
genitori trascinavano bambini stanchi nei passeggini, la gente suonava
chitarre e armoniche. La musica stava suonando dal retro delle macchine.
Alcune persone hanno ballato.
I
manifestanti si sono anche radunati nei quartieri un tempo
prevalentemente neri di U Street e Columbia Heights, a nord della Casa
Bianca. Nel Meridian Hill Park, che la gente del posto chiama Malcolm X
Park, una grande folla si è radunata per cantare: ‘Nessuna giustizia, nessuna pace‘.
Proprio in fondo alla strada, l’incrocio tra la XIV e la U Street era
pieno di manifestanti che si erano radunati per ascoltare DJ e musicisti
che suonavano musica go-go, un tipo di musica funk recentemente
designata come musica ufficiale del distretto.
La folla si è fermata per ascoltare una donna che cantava Lift Every Voice and Sing, che i neri americani hanno abbracciato per più di un secolo come inno di liberazione”.
È questo carattere popolare e di massa che inquieta l’inquilino della Casa Bianca.
New
York, Seattle (organizzata dagli infermieri con gli slogan “Black
Health Matters” e “Racism Is a Public Health Emergency.”), San
Francisco, Los Angeles (nel cuore della comunità nera losangelina,
insieme agli attivisti latinos), Filadelfia (con i manifestanti che
hanno chiesto al City Council di “decurtare” i fondi per il distretto di
polizia), sono state alcune dei teatri della protesta.
Ma
quello che colpisce di più è la mobilitazione anche nei piccoli centri,
anche nei “feudi” del conservatorismo anti-integrazionista, come Vidor
in Texas, una città di appena 10 mila abitanti.
Marion,
in Ohio, Simi Valley in California e poi Richmond, Athens, Ephrata,
Huntsville, hanno manifestato sabato, e nei giorni precedenti Havre,
Garden city, Harvard… E così via
Città
che non appaiono solitamente nel cono di luce dei media, ma che ci
dicono che qualcosa si sta muovendo anche nell’“America Profonda” fuori
dai grandi centri urbani…
Persino
la Florida, sono stati teatro di proteste posti conosciuti più come
mete turistiche che come “hotspot” di attivismo politico: Orlando e
Tallahassee hanno manifestato questa settimana.
E
se anche la NFL fa un passo indietro tardivo, e con un’autocritica
rispetto all’atteggiamento tenuto di fronte alle proteste iniziate dal
2016, partendo da Colin Kapernick, il giocatore di football americano
che per primo si era inginocchiato nel pre-partita durante l’esecuzione
dell’inno nazionale, qualcosa sta succedendo… Allora i
proprietari delle squadre si erano spinti a chiedere che venissero
puniti chi si inginocchiava, ma ora qualcosa sta cambiando, almeno nella
percezione generale.
Come
ha detto un manifestante A Miami: “Non sono solo le istituzioni
razziste che stiamo combattendo. È l’apatia della gente. La gente pensa
che il razzismo sia come un peso in una barca che puoi buttare in mare e
ripararlo, ma è davvero un buco nella barca che deve essere riparato.”
Quel
buco iniziato con lo stermino dei nativi americani, la schiavitù dei
neri, l’esproprio di territorio al Messico, e tutte le avventure che
hanno reso l’America un Impero, prima che una Nazione, ed una macchina
di morte per i suoi stessi cittadini.
Come dimostra la gestione criminale della pandemia e delle sue conseguenze economiche…
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