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«Watch out now, take care, beware of soft shoe, dancing down the
sidewalks, as each unconscious sufferer, wanders aimlessly, beware of
Maya». «Fai attenzione, fai attenzione alle morbide scarpe che ballano
sui marciapiedi, e come chi soffre incosciente e, vaga senza meta,
guardati dalla Maya». Così George Harrison apre la sua Beware of
Darkness, canzone iniziale del triplo album del 1970 All things must
pass. Il disco è fortemente influenzato dall’esperienza indiana del
«Beatle tranquillo», che aveva spinto già alla fine degli anni ’60 gli
altri component dei Fab 4 verso quella scuola di pensiero induista
diretta da Maharishi Mahesh Yogi, fondatore e guru della tecnica per la
Meditazione Trascendentale.
Negli stessi anni, precisamente nel 1972, un artista americano, Chris
Burden, si esibiva in una performance chiamata Deadman: il suo corpo,
coperto da un semplice velo di plastica, era steso nel parcheggio di una
superstrada californiana, come un semplice rifiuto; se un’automobile lo
avesse investito avrebbe potuto morire.
Nell’agosto del 2015 un naufrago bengalese veniva recuperato da un
peschereccio di Lampedusa. Tratto in salvo dichiara ai suoi
soccorritori: «Molte barche sono passate davanti a me ma voi avete
guardato oltre la Maya del mare».
IN ORIENTE
Cos’è dunque questa Maya dalla quale ci si deve guardare per non
«soffrire incoscienti e vagare senza meta»? O che acceca la vista di chi
vede solo il mare? E cosa rappresenta, analogamente, il sottile strato
di materia plastica che separa dalla vista dell’automobilista che sta
parcheggiando il corpo di Chris Burden?
Ebbene tutti i suoi molteplici significati sono simboleggiati, sia in
Oriente sia in Occidente, da una immagine, quella del velo, il velo
della Maya appunto, come lo definirà Arthur Schopenhauer nel suo Il
mondo come volontà e rappresentazione. Drappeggiato sull’invisibile
essenza di tutti i fenomeni della realtà, ha il potere di farli apparire
ed al tempo stesso di ricoprire la vera Natura delle cose, che però si
rende accessibile dopo lo svelamento, dopo che il velo della Maya è
finalmente caduto, o è divento abbastanza sottile da permetterci di
gettare oltre uno sguardo perspicuo.
Per il potere della Maya – al femminile in sanscrito, come tutto ciò che
afferisce alla sfera creazionale – agli occhi dell’umanità
inconsapevole il Mondo appare come una successione di eventi, di
oggetti: questo ci incatena al ciclo di una esistenza «penosamente
frammentaria» (samsara), come sostiene C.G. Jung nel Libro Rosso, perché
percepisce solo la persistenza dell’essere ma non il suo divenire,
velando così lo sguardo sulla reale Natura che giace dentro ed oltre di
essa. Scopo della vita, invece, è sollevare questo velo per cogliere
l’essenza che la genera. Sollevare il velo della Maya significa
percepire finalmente la matrice che tutto crea e tutto connette
incessantemente, e questa visione genera la liberazione (moksa). Esserne
consapevoli è l’unica strada per conquistare il senso della vita,
essere un «risvegliato in vita», un jivanmukta in sanscrito, colui che
esperisce la connessione col Principio Creatore e non solo con le sue
illusorie e fallaci apparenze. Ma, e qui sta il suo arcano, quando si
percepisce ciò che giace nel fenomeno, ciò che è inessivo ad esso, al
contempo lo si ricrea, si ricrea l’incanto alla sorgente del Mondo.
LA FONTE INIZIATICA
La natura di questa forza illusoria è ben illustrata dalla storia
tradizionale indiana di un asceta semidivino, Narada, che una volta
chiese direttamente all’Essere Supremo (Visnù) che gli mostrasse il
potere della sua Maya. Nārada, nella mitologia indù, è uno dei modelli
preferiti del saggio «sul sentiero della devozione» (bhakti-mārga).
Quando Narada ebbe espresso umilmente la sua profonda aspirazione, il
dio lo istruì, non verbalmente, bensì sottoponendolo ad una atroce
avventura. Quindi gli disse: «tuffati nell’acqua e sperimenta il segreto
della mia Maya». Narada si immerse nel laghetto e ne riemerse
trasformato in Susila, La Virtuosa, la figlia del re di Benares; e poco
dopo, quando fu nel fiore degli anni suo padre la diede in sposa al
figlio del re del Vidarbha, suo vicino. Tuttavia col passare del tempo,
fra lo sposo ed il padre di Susila scoppiò una guerra furibonda. In una
sola tremenda battaglia molti dei suoi figli e nipoti furono uccisi.
Fece dunque costruire una pira gigantesca e vi pose sopra i cadaveri dei
suoi figli. Con le sue mani appiccò il fuoco alla pira, e quando le
fiamme ruggirono si gettò nel fuoco. La vampa divenne immediatamente
fresca e trasparente; la pira divenne un laghetto e in mezzo all’acqua
Susila trovò se stessa, ma nelle spoglie del santo Narada. Il dio Visnù,
tenendolo per mano, lo stava conducendo fuori dal laghetto,
chiedendogli con un sorriso ambiguo: «Chi sono i figli di cui lamenti la
morte?».
Narada pregò allora che gli fosse concessa la grazia di ricordare
quest’esperienza per tutto il tempo a venire, e chiese inoltre che il
laghetto, come fonte iniziatica, potesse divenire un luogo sacro di
pellegrinaggio. Questa versione è riportata nel libro di Heinrich
Zimmer, Miti e simboli dell’India.
L’essenza del racconto sta nello svelamento che la Maya è l’Esistenza
stessa sia nella sua forma visibile, peritura e transeunte, sia nella
sua essenza invisibile, perenne al di là di ogni dualismo. Il Mondo, per
l’induismo, è, infatti, mayamaya, cioè «costituito dalla maya»; è
questa la conoscenza che il mito si propone di svelare attraverso la
capacità magica, trasformatrice, delle acque. Giustamente, fa notare
Zimmer, che qui l’acqua rappresenta la sostanza del principium
individuations, poiché la nostra personalità individuale, consapevole,
la psiche della quale siamo consci, il personaggio il cui ruolo
impersoniamo socialmente o in solitario isolamento, è comunque nutrito,
come in un microcosmo mentale ed emotivo, dall’elemento fluido
dell’inconscio. Quest’ultimo di fatto rappresenta una potenzialità per
larga parte sconosciuta, distinta dal nostro essere cosciente: molto più
vasta, molto più complessa, potremmo anche dire segreta se non
addirittura incomprensibile e paurosa, e che tuttavia ne rappresenta il
fondamento profondo, la sostiene ed è in comunione con essa, le circola
attraverso come un fluido vivificante, ispiratore e spesso perturbante,
eppure in qualche modo da esso separata: come può essere simboleggiato
da un velo che ci ondeggia dinanzi allo sguardo separando conscio ed
inconscio.
Wendy Doniger, in Sogni, illusione ed altre realtà, ci rammenta che il
potere della Maya non si esercita dunque sui fenomeni, poiché essi sono
la Maya, bensì sulla consapevolezza dell’uomo: quanto più essa è ottusa –
per paura, insicurezza, avidità, ignoranza – tanto più il velo si
inspessisce divenendo alla fine un manto oscuro che ci separa dal senso
della nostra stessa esistenza.
Sollevare il velo della Maya, o renderlo traslucido, è allora
un’esperienza iniziatica, come quella che ha vissuto il saggio Narada:
egli, finalmente, apre gli occhi sulla Realtà sui generis che giace
«dentro» i fenomeni apparenti, svelando lo sguardo con il quale l’uomo
risvegliato guarda al Mondo.
IL DRAPPO DI ISIDE
Quid fuit, quid est, quid erit
Ma la metafora del velo che copre l’essenza delle cose non è solo legata
alla filosofia indiana, anzi: appare esplicitamente citata anche
nell’antica opera di Plutarco Iside ed Osiride. Su quella che si diceva
essere un tempo la tomba di Iside, vicino a Menfi, ci dice l’autore, era
stata eretta una statua ricoperta da un velo nero. Sulla base della
imponente e misteriosa figura era incisa questa iscrizione: «Io sono
tutto ciò che fu, ciò che è, e ciò che sarà, e nessun mortale ha ancora
osato sollevare il mio velo».
Questo è il Velo di Iside, divinità antichissima che simboleggia la
Natura, cioè la Natura naturans, ed al contempo la varietà delle sue
varie forme: l’insieme cioè della Zoè e delle sue Bìos, secondo la
distinzione greca tra la Vita senza caratterizzazioni, incondizionata,
la Zoè appunto, e le sue espressioni caratterizzate, le Bìos.
Perché Iside è velata? Già Eraclito di Efeso, in uno dei suoi frammenti
più discussi ci dice che «la Natura ama velarsi», ed infatti Plutarco,
descrivendo la versione più comune del mito che lega Iside ed Osiride,
così descrive il velo che copre la Dea in opposizione a quello che
invece riveste il suo sposo: «Tinte di colori diversi sono la veste di
Iside, a segno del suo potere sulla materia, la quale accoglie tutte le
forme e tutte le vicissitudini subisce, potendo diventare luce e
tenebra, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte, inizio e fine. Ma
senza ombra né varietà e la veste di Osiride, che ha un solo colore,
quello delle luce. Il Principio, infatti è vergine di ogni mescolanza:
l’essere primordiale ed intelligibile è essenzialmente puro. Così i
sacerdoti non rivestono che una sola volta Osiride della sua veste, per
subito riporta e non mostrarla mai né toccarla mai… La visione
dell’Essere… non si può ottenere o percepire che in un solo istante».
Questa visione mistica della realtà al di là del velo che la ricopre è
esattamente quella che propone Eraclito con il suo frammento sul
nascondimento della Natura. Egli intende darci una traccia di come
superare il dualismo che separa l’uomo dalla realtà intima delle cose.
KANT E SCHOPENHAUER
Dopo più di venticinque secoli da Eraclito ritroviamo una
interpretazione politico-etica del velo della Maya nell’opera di
Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione, dove il filosofo
cerca di innestare sulla visione del pensiero occidentale contemporaneo,
duale e scisso, quella orientale, ricongiungente e non duale.
Schopenhauer parte infatti dalle categorie di Kant, con la nota
distinzione tra fenomeno e noumeno (o cosa in sé), per rovesciarle
completamente o meglio, ricongiungerle.
Per Kant, notoriamente, il fenomeno è la realtà, o almeno l’unica realtà
conoscibile e accessibile agli «a priori» che informano la mente umana;
per Schopenhauer invece il fenomeno è illusione, sogno e parvenza:
esattamente ciò che nella filosofia indiana abbiamo visto essere il Velo
della Maya.
Ma, mentre l’essenza della realtà, o noumeno, che si nasconde dietro il
fenomeno, per Kant restava inconoscibile, per Schopenhauer esso può
essere percepito e di conseguenza è possibile squarciare il velo della
Maya, ma come?
Attraverso la «volontà di vivere»: la forza creativa e impersonale alla
base di tutte le cose che ne costituiscono l’oggettivazione. Questa è
allora l’esperienza fondante attraverso cui possiamo percepirci sia
dall’esterno, come rappresentazione, sia dall’interno come «vissuto
diretto», come corpo vivente di una Bìos immersa pienamente nel flusso
della Zoè. Non è questo allora che informa di sé l’esperienza di Chris
Burden? In Deadman, non solo la realtà corporea dell’artista, ma la sua
stessa essenza vitale, il suo Invisibile, è separato dallo sguardo
diretto solo da un sottile velo che può essere squarciato in ogni
momento. Per questo Arthur Danto nel suo La destituzione filosofica
dell’arte, in particolare nel capitolo Arte e perturbazione, prendendo
in considerazione queste forme di performance le classifica come «arti
della perturbazione», nel senso che sono in grado di rendere
indistinguibile i confini tra artefatto e realtà.
Riferendosi a Deadman, Danto la definisce una «perturbazione» perché
quel gesto è in grado di ridisegnare i confini tra arte e vita: qui la
«perturbazione» consiste nell’infrangere la distanza tra le due per
includere la realtà come componente artistica effettuale. In tal modo si
elimina la distinzione tra arte e realtà: «Burden avrebbe potuto essere
ucciso, sapeva che sarebbe potuto succedere, e voleva che questo fatto
facesse parte dell’opera e che fosse ciò a cui si rispondeva quando si
rispondeva emotivamente all’opera. Non accadde, ma sarebbe potuto
accadere senza violare i confini dell’opera, perché l’opera incorporava
quei confini come parte della propria sostanza«. Incorporava: non il
corpo che si fa arte attraverso un gesto estremo, ma il gesto estremo
che si fa corpo, restituisce corporeità alla vita.
ARENDT ED ERACLITO
La linea interpretativa che lega disvelamento e rinascita, potere della
mente e creazione personale e collettiva del Mondo, è spinto alle sue
estreme conseguenze esistenziali da Hanna Arendt nell’incompiuto La vita
della mente. Già Giorgio Colli riferendosi al frammento di Eraclito,
traduce «Natura» con «Nascimento» e dunque: «Il Nascimento ama
nascondersi». Nel commento è chiarito che «Natura» è qui intesa come
Natura trascendente, la Natura naturans, il «Principio» che nonostante
abbia creato le apparenze, i fenomeni, si mantiene inaccessibile ad uno
sguardo puramente raziocinante e scientista. Sicché Natura è l’Origine,
come dice Angelo Tonelli nel suo Eraclito, dell’Origine: «Ciò che
origina si cela, come mistero, dietro l’apparenza delle cose che
origina, pur manifestandosi anche attraverso di esse. Ogni
manifestazione del principio è anche suo nascondimento: tale l’ambiguità
del cosmo in cui viviamo, e di tale ambiguità il sapiente reca
consapevolezza. La conoscenza diventa flusso dinamico, tensione al
congiungimento con ciò che origina».
ESTETICA FRAGILE
Ma oggi chi è in grado di catalizzare il nostro stupore tanto da farci
ritrovare nella quotidianità un accesso alla «totalità non manifesta»? E
ancora, chi coniuga insieme i concetti di Schopenhauer e l’estetica di
Arthur C. Danto, incarnando con la propria «volontà di vivere» una vera e
propria performance di «arte perturbazionale»? Certo i migranti. Questi
corpi che attraversano lo spazio, autentiche metafore viventi,
squarciano il velo di una realtà per noi ancora invisibile. Per la
sensibilità narcotizzata e secolarizzata dell’Occidente, quelle che
consideriamo sovente non-persone, arrivando da oltre le Colonne d’Ercole
del nostro sguardo sul quotidiano sono in grado, mercé la loro
fragilità, di generare e trasmetterci una «volontà di vivere» che può
agire da controveleno della nostra mortificazione morale. La fragilità
si ribalta così nella forza di chi non ha nulla da perdere. La
consapevolezza di questo contare nulla per l’Occidente liberista
permette ai migranti di spingersi al di là del già visto, al di là del
conosciuto: se la mia vita è senza valore per voi che non mi vedete-
accecati dalla Maya del mare – allora io me le riprendo sotto i vostri
stessi occhi rischiando la morte. Massima fragilità uguale massima
resilienza: massima negazione potenziale, la morte, massima affermazione
in atto, la mia volontà di vivere. Il malessere perturbante che ci
assale alla loro vista e che nessuna misura di «sorvegliare e punire»
può cancellare dall’anima, è in realtà generato dall’oscura
consapevolezza che il nostro insensato stile di non-vita dipende in
definitiva dal loro non-essere. La performance permanente della loro
«apparizione» sui nostri territori afferma così l’emergere di una
soggettività che invece vorremmo affondare insieme ai loro corpi. Ogni
espressione performativa migrante sdrucisce allora la compattezza della
Maya biopolitica che impedisce di accedere alla nostra stessa «volontà
di vivere». Questa semplice evidenza diviene dunque l’inizio di una
sfida che ha come posta emozionale la nostra stessa percezione del
Mondo. Il velo diviene a poco a poco traslucido: balugina la luce delle
ombre splendenti di chi affronta il rischio supremo pur di affermare la
dignità della propria esistenza.
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