giovedì 18 giugno 2020

Perché in Italia siamo ancora fascisti

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MicroMega incontra Francesco Filippi, autore di “Ma perché siamo ancora fascisti” (ed. Bollati Boringhieri). Al centro della discussione: la storia, il cinema, la politica, italiana ed europea. Le responsabilità di chi ha gestito – politicamente e culturalmente – l’uscita dal ventennio incontrano il ruolo che la settima arte ha giocato nella costruzione della nostra coscienza storica. Da “Roma città aperta” a “Io sono tornato”, passando per “Mediterraneo”, dai giorni della Costituzione alla necessità della destra italiana di spezzettarsi per poter sedersi in Europa, un lungo confronto su – come recita il sottotitolo del libro – un conto rimasto aperto.

intervista a Francesco Filippi di Daniele Nalbone

Francesco, per il tuo ultimo libro hai scelto un titolo interrogativo, quindi devo per forza iniziare da questa domanda. Perché siamo ancora fascisti?

Domanda più che lecita. La risposta lunga è nelle 256 pagine del libro. Quella breve, al di là della battuta, è questa: esistono due grandi famiglie di cause del perché siamo ancora fascisti, o meglio, come specifico nelle conclusioni del libro, perché l’Italia non è ancora convintamente antifascista. La prima causa è interna: il fascismo italiano muore in una maniera diversa rispetto al nazismo tedesco. Dal ’43 al ’45 ci sono di fatto tre “Italie” che si combattono: quella della Repubblica Sociale Italiana, quella del Comitato di Liberazione Nazionale e quella della corona sabauda. Queste tre “Italie”, nel momento in cui si raccontano al popolo italiano, e lo fanno in maniera diretta, rinnegano il ventennio precedente. Il CLN, ovviamente, perché antifascista; la corona per tentare di ripulirsi la coscienza; la RSI nel tentativo di sottolineare come il fascismo repubblichino sia “sansepolcrista”, che provenga dal 1919, togliendo così ogni riferimento all’esperienza di governo. Di fatto, sono stati buttati via venti anni di storia del paese. Questo ha sancito l’impossibilità di recuperare un’identità che, comunque, ha formato una generazione e mezzo di italiani. Ecco, il primo problema è stato non aver preso in mano quella memoria da subito. Poi c’è una causa esterna, anzi, più cause esterne che distinguono il caso italiano dagli altri. Dal 1943 al 1945 in Italia gli alleati hanno avuto una visione fluida del rapporto tra italiani e fascismo. In Germania, nel maggio del ’45, c’è ancora il Terzo Reich che combatte. Una settimana dopo che Hitler si è sparato un colpo in testa, il 9 maggio ’45, quando viene firmato l’armistizio, un centinaio di milioni di tedeschi passa da essere nazista a “niente”. La de-nazificazione verrà fatta di peso dagli alleati a Ovest e dai sovietici a Est. In Italia, invece, l’escamotage della co-belligeranza badogliana già nel ’43 determina che, per gli alleati, ci siano due diverse “Italie”: quella fascista, da combattere, e quella di cui bene o male ci si può fidare tanto da affidargli il governo delle regioni liberate. Questa differenza si traduce nella comparsa, da subito, di un paese che si può dichiarare vittorioso e liberato: questo significa che a quell’Italia è demandata la de-fascistizzazione. Possiamo quindi dire che gli italiani sono – ancora – fascisti perché nessuno ha chiesto o imposto loro di de-fascistizzarsi. È stato fatto un papocchio di cui oggi paghiamo le conseguenze.

Nel tuo primo libro – Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo - parti dall’attualità, in particolare dal mondo dei social. Ora, però, hai scritto un libro che torna indietro, prettamente storico. Ti chiedo: è stata una naturale conseguenza o alla base c’è stato un altro tipo di ragionamento?

La genesi dei due libri è in realtà un’eterogenesi. Il primo nasce perché, con il lavoro che faccio, il formatore, mi sono imbattuto nel mondo delle bufale e ho cercato di costruire un piccolo manuale di sopravvivenza per giovani antifascisti. Un libro, come lo definisce lo storico – e amico – Carlo Greppi, un “manuale di autodifesa”. Diciamo che ho notato la necessità di una prassi chiarificatrice all’interno del discorso pubblico sul fascismo. Il secondo libro, in particolare la domanda da cui parte, è invece quella che mi veniva letteralmente sbattuta in faccia durante le presentazioni del primo libro. Quel «ma» – Ma perché siamo ancora fascisti? – vuole dare l’idea anche del fastidio che provavo alla domanda: perché il fascismo è ancora parte così pesante del nostro discorso pubblico? Io, come battuta, sottolineo sempre: non è che siamo noi che ci occupiamo di fascismo, è il fascismo che continua a occuparsi di noi.

Hai scelto tre verbi, tre azioni, per strutturare il libro: punire, comprendere, superare. Dalla lettura del volume ho notato una particolare attenzione ai termini usati, al lessico. Ti chiedo: perché questa scelta? Se per il primo – punire – ormai è troppo tardi, per gli altri due – comprendere e superare – qual è il lavoro da fare?

Partiamo dal punire. Nel ‘46-‘47 l’Assemblea costituente mette su Carta un dato che possiamo considerare di fatto: il fascismo non è un’idea, è un reato. Chi lo perpetra, chi vi inneggia, chi lo sostiene, commette un reato. La questione del punire è derivata dal fatto che i venti anni di fascismo sono un reato contro la democrazia dell’Italia di allora e contro lo sviluppo del paese. Per questo analizzo il mancato punire o il punire edulcorato, che è ancora peggio. Molti fascisti se la sono cavata con uno schiaffo sulle mani o un richiamo in panchina, penso ai gangli dell’amministrazione pubblica. C’è stato qualche stop, ma ci sono anche state persone che negli anni Cinquanta hanno reclamato, riuscendo ad averla, la pensione con i contributi calcolati anche nei momenti in cui sospesi dal servizio perché sotto commissione di defascistizzazione. Concordo con te: quello che si poteva punire ce lo siamo giocati un paio di generazioni fa. Però è importante capire – ed eccoci al comprendere - come si è apparecchiato il processo, o il mancato processo di punizione, perché racconta molto di chi è stato chiamato a giudicare il reato. Una delle cose che sottolineo è che il 2 giugno del 1946, nelle famose elezioni monarchia-repubblica, i partiti della pacificazione, democristiano, socialista e comunista vennero premiati dalle urne, mentre l’intransigenza del Partito di azione di Ferruccio Parri raccolse pochi consensi, l’1,5 per cento dei voti e appena 7 eletti. C’era qualcuno, in Italia, che avrebbe voluto punire degli atteggiamenti pubblici molto chiari, ma il 2 giugno 1946 ci racconta di un’Italia che voleva solo voltare pagina. Per comprendere il fenomeno è necessario partire da qui: il paese era esausto, veniva da 15 anni di conflitto semi-permanente perché non dobbiamo dimenticarci le spedizioni militari in Libia per le “pacificazioni”, in realtà massacri di civili e partigiani libici, fino ad arrivare al 1945. L’unico obiettivo era cambiare passo, velocemente. All’inizio del 1946 la scelta era tra una defascistizzazione che avrebbe decapitato l’amministrazione pubblica e delle indagini un po’ trascinate che avrebbero però lasciato la funzione pubblica al suo posto. Superare. Il fascismo è una narrativa funzionale, in alcune fasi della nostra storia addirittura vincente, perché semplicistica. In momenti di difficoltà pone risposte facili a problemi complessi: diciamo che fa comodo. È un tema estremamente difficile da affrontare anche perché di stretta attualità. Non dimentichiamoci che in piena emergenza Coronavirus, secondo alcuni sondaggi, il 40 per cento degli italiani si è detto propenso a essere guidato dal classico “uomo forte”, da un uomo solo al comando.

Con questo libro hai fatto un’operazione che, dal mio punto di vista, ridà dignità e centralità alla ricerca storica in una fase in cui l’intero sistema, dalla scuola all’università, è in estrema difficoltà. Poni come elemento centrale per capire il presente lo studio della storia, cosa che in troppi si sono dimenticati di fare. Vado su un esempio concreto e recente: nella manifestazione di piazza del Popolo in solidarietà con le proteste statunitensi una ragazza nata in Italia da genitori stranieri ha lanciato una dura accusa caduta nel vuoto del mainstream: il razzismo che c’è in Italia – diverso da quello Usa – è dovuto al fatto che non abbiamo mai fatto i conti con il passato colonialista.

Tema centrato in pieno! Non solo non abbiamo fatto i conti, ma a metà della cena ci siamo alzati e siamo scappati dalle nostre responsabilità. A differenza di altri paesi, non abbiamo sviluppato un’etica coloniale. Non siamo riusciti nemmeno a seguire da lontano le dinamiche delle nostre ex colonie. Il razzismo italiano nasce dall’eradicazione del problema dell’altro. A questo va aggiunto un altro elemento fondamentale: ci siamo raccontati la storiella dei buoni, della brava gente. Abbiamo talmente fatto finta di niente che oggi non abbiamo neanche un lessico in grado di raccontare il grande tema delle migrazioni per sopravvivenza. Pochi giorni fa stavo ascoltando una rassegna stampa in radio: il conduttore aveva scelto come argomento del giorno su cui aprire un dibattito lo ius soli. Ebbene, la maggior parte delle telefonate in studio era di questo tono: «Con tutti i problemi che abbiamo, cosa c’entra ora lo ius soli». Non vedere tali questioni significa non capire com’è fatto questo paese: basta entrare in una classe per rendersi conto che la realtà è diversa da come viene dipinta.

Neofascisti. Postfascisti. Fascisti del terzo millennio. Con l’avvento di Berlusconi è iniziato un vero e proprio sdoganamento dei camerati italiani. Ti chiedo: questa operazione è andata a compimento? E, tornando al lessico e alla sua importanza per capire e soprattutto raccontare i fenomeni, come definiresti la destra italiana guardando soprattutto agli altri paesi europei?

Il tema è complesso: la destra italiana è una definizione che copre un’enorme galassia che parte dagli ex democristiani e arrivano addirittura fino a un partito che ha nel suo simbolo ancora la fiamma tricolore, Fratelli d’Italia. In mezzo, al fianco, di lato, un po’ ovunque ci sono poi quelli che definirei “gli ammiccanti”: quelli che per cercare militanti per questo sovranismo un po’ corpuscolare strizzano l’occhio a una determinata destra. Una delle cose interessanti avvenuta negli ultimi mesi nel panorama delle destre italiane è che un partito come Casapound ha dichiarato che non si presenterà più alle elezioni per tornare movimento: evidentemente ha trovato una rappresentatività ampia e forte in strutture meno faticose rispetto al minipartito. Per capire questo scenario, direi che la fotografia più interessante arriva dalla composizione che questa destra, che vediamo in casa come un grande blocco monolitico e plurale, assume in Europa. A Bruxelles, non riconosciuta dalle famiglie europee come una forza unica, deve spezzettarsi in tre gruppi: la Lega nel gruppo di Le Pen, Forza Italia tra i Popolari europei, Fratelli d’Italia in quello che è il gruppo europeo più complesso, quello dei conservatori. Per rispondere alla tua domanda, non ti so dire quale nome o definizione darei alla italiana, saprei però sicuramente come non definirla: cioè una destra europea.

Ho trovato molto interessante il fatto che nella conduzione di una ricerca storica hai dedicato ampio spazio al cinema. Ci spieghi questa scelta e, fra tutte le pellicole che hai mappato – domanda secca – quale faresti vedere a una classe di ragazzi e ragazze e quale invece non faresti mai vedere.

(Ride, ndr).

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Sei un formatore, quindi, come si dice a Roma, ti devi accollare la domanda.

Me la accollo, me la accollo. Quella del cinema è stata una scelta obbligata visto il tema al centro del libro, capire perché “siamo” ancora fascisti. Ho notato, è banale dirlo, una frattura enorme tra la storiografia italiana del ventennio, approfondita e poliedrica, e la sua rappresentazione. Gramscianamente parlando, la storia è stata maestra: ma non ha avuto scolari. Sono partito quindi dal presupposto che c’è una storiografia accademica molto solida, ma accanto a questa c’è una coscienza storica molto diversa. Il ruolo che il cinema ha giocato in Italia, un paese nel dopoguerra scarsamente alfabetizzato, è stato fondamentale. Io sono partito da Roma città aperta per arrivare a La vita è bella, anche se nel preludio al libro parlo di Io sono tornato, esperimento assolutamente interessante che però, dal mio punto di vista, ha sbagliato nel modo di porsi. Non ti dirò quale film non farei vedere. Ti rispondo con due film che mostrerei a dei ragazzi, due film per me centrali in questo dibattito. Il primo è proprio Roma città aperta: è lì che nasce il racconto italiano, un racconto molto interessante perché si affida alle donne per rappresentare gli italiani che, se maschi, non potrebbero stare sullo schermo senza colpe. Il secondo, frutto evidente di un’Italia che pensa di essersela cavata e che vuole tranquillamente affrontare questo tema in maniera leggera, è un altro bellissimo film: Mediterraneo di Gabriele Salvatores. Il film è il racconto della guerra come una bella gita di italiani sempre buoni. È interessante che tutte le scelte forti che gli italiani fanno in questo film dipendano al cuore: l’unico che in qualche modo diserta lo fa perché si è innamorato di una donna. Tutte le domande che dovrebbero venire in mente guardando la storia di un corpo di occupazione militare in un’isoletta greca, non emergono. È un film bellissimo, ripeto, ma che letto con gli occhi di chi vorrebbe capire l’Italia appare incredibilmente auto-assolutorio. Io lo farei vedere ai ragazzi chiedendo: «Ma se quel corpo di spedizione fosse stato composto da tedeschi?». Risposta: qualche morto ci sarebbe sicuramente stato. L’ho sfangata la domanda?

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