È inconcepibile e in contrasto con la Costituzione ritenere
che la “sospensione” del Patto di stabilità e crescita debba riguardare
soltanto lo Stato e non, come tutto farebbe pensare, la gestione
finanziaria dei Comuni, i quali continuano a subire gli effetti
economici disastrosi del covid-19, versando in una situazione
assolutamente insostenibile.
micromega Paolo Maddalena
L’Europa ha sospeso, a causa del corona virus, i limiti posti dal
Patto di stabilità e crescita, ma, in assenza di qualsiasi disposizione
statale in merito, è rimasto dubbio se tale “sospensione” riguardi anche
i Comuni, i quali hanno subito e continuano a subire gli effetti
economici disastrosi del covid-19, versando in una situazione
assolutamente insostenibile. A nostro avviso, tuttavia, se si tengono
presenti le leggi sin qui emanate sul Patto di stabilità e crescita e,
soprattutto, se si guarda alle funzioni e alla collocazione
costituzionale dei Comuni, nell’ambito dell’amministrazione pubblica,
non dovrebbero esserci ostacoli, né giuridici, né logici, per ammettere
che detta sospensione riguarda anche e soprattutto i Comuni.
Innanzitutto è da sottolineare che il Patto di stabilità e
crescita, venuto in essere con una “Risoluzione” del Consiglio europeo
del 16 e 17 giugno 1997, cui hanno fatto seguito due regolamenti del
Consiglio stesso, n. 1466 e 1467 del 7 luglio 1997, è stato un “Accordo
intergovernativo”, un Atto cioè sottoscritto dai Governi, ma che ha
riguardato, non solo il bilancio dello Stato, ma “l’incidenza sui saldi
del conto economico e sul debito pubblico” di tutte le “amministrazioni
pubbliche”. È per questo che l’Italia ha adottato un “Patto di stabilità
interno” con il quale si è fatto obbligo alle Regioni e agli Enti
locali di partecipare al raggiungimento degli obiettivi di finanza
pubblica assunti a livello Europeo dallo Stato italiano, attraverso
l’assoggettamento di detti Enti pubblici alle regole del Patto medesimo.
Sennonché, subito dopo l’introduzione in Costituzione del principio
dell’equilibrio dei bilanci, con legge n. 243 del 2012, all’obbligo di
osservare il Patto di stabilità interno si è sostituito l’obbligo di
osservare la nuova regola contabile del pareggio di bilancio. Infatti
l’art. 9 della legge in questione dispone che “i bilanci delle regioni,
delle province, delle città metropolitane e delle province autonome di
Trento e Bolzano si considerano in equilibrio quando, sia nella fase di
previsione che di rendiconto conseguono un saldo non negativo, in
termini di competenza, tra le entrate finali e le spese finali”.
Insomma, non c’è stato più bisogno di ricorrere allo strumento del
“Patto di stabilità interno”. La legge, tuttavia, non ha instaurato
affatto una sorta di indipendenza finanziaria tra Stato e Enti
territoriali. Anzi, in osservanza al principio costituzionale del
“coordinamento della finanza pubblica” (art. 117, comma 3, della
Costituzione), l’art. 12 di tale legge dispone che “le regioni, i
comuni, le province, le città metropolitane e le province autonome di
Trento e Bolzano concorrono ad assicurare la sostenibilità del debito
del complesso delle amministrazioni pubbliche, secondo modalità
stabilite con legge dello Stato, nel rispetto dei principi stabiliti
dalla presente legge”. Insomma, sul piano legislativo non c’è alcun
dubbio che la “finanza pubblica” costituisce un “unicum” non separabile
in riferimento alla pluralità delle amministrazioni pubbliche.
Se poi dal piano legislativo riguardante la finanza pubblica, si
passa alle disposizioni costituzionali, si nota agevolmente che questo
concetto di “unitarietà nella diversità” riguarda sia l’aspetto
istituzionale, sia quello finanziario.
Per quanto riguarda l’aspetto istituzionale, un dato che viene
subito in evidenza è quanto si legge all’art. 97 della Costituzione, il
quale pone una regola che vale indistintamente per tutte le
amministrazioni pubbliche, quella “del buon andamento e
dell’imparzialità dell’amministrazione” (complessivamente considerata).
Inoltre, riferendoci in particolare alla collocazione
costituzionale dei Comuni, balza immediatamente agli occhi che le
comunità locali rientrano tutte nel concetto unitario della
“Repubblica”, cioè dello Stato comunità. E si tenga presente che questa
“integrazione” risulta, non solo dall’art. 5 della Costituzione, dal
quale si evince che i Comuni sono parti della Repubblica “unica e
indivisibile”, ma anche e soprattutto dall’art. 114 della Costituzione,
secondo il quale “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province,
dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, affermando con
ciò che i Comuni sono alla base, per così dire, della “stratificazione”
della Repubblica in più livelli, da quello più ristretto delle singole
comunità locali fino a quello più esteso della comunità nazionale. Si
tratta, come è ovvio, di una stratificazione che discende
dall’appartenenza di ogni singola persona a ognuna delle comunità or ora
citate. In altri termini, l’art. 114 Cost. (indipendentemente dai
convincimenti di chi lo ha scritto), in una Costituzione che considera
lo Stato, non come persona giuridica, ma come “Comunità”, e in ultima
analisi come “Popolo”, può avere significato soltanto se riferito alle
singole comunità, che sono come dei centri concentrici dei quali ogni
cittadino è “parte”.
E, se ci si vuol riferire direttamente ai Comuni, l’aspetto
istituzionale di maggior rilievo sta nel fatto che, come si legge
all’art. 118, primo comma, Cost., “le funzioni amministrative sono
attribuire ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario,
siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla
base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.
Insomma, le funzioni amministrative non seguono più il riparto delle
competenze secondo le materie, ma sono indifferentemente attribuite ai
Comuni, cioè al primo livello dell’organizzazione della Repubblica.
Venendo finalmente all’aspetto prettamente finanziario, decisivo è
quanto si legge nell’art. 119 della Costituzione, in tre distinti commi,
che di seguito riportiamo.
Al terzo comma di detto articolo si apprende che “la legge dello
Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione,
per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Al quinto
comma, si legge: “per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la
solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali,
per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona…, lo Stato
destina risorse aggiuntive e effettua interventi speciali in favore di
determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni”. All’ultimo
comma, infine, si sancisce che i Comuni, le Province, le Città
metropolitane e le Regioni… possono ricorrere all’indebitamento solo per
finanziare spese di investimento”.
Non può, dunque, sfuggire a nessuno quanto sia interconnessa, sul piano costituzionale, la posizione dei Comuni e quella dello Stato, specialmente sul piano finanziario, al qual proposito non sono da sottovalutare gli aiuti che, secondo il citato art. 119 Cost., lo Stato è tenuto a fornire ai Comuni, facendo espresso riferimento ai “territori con minore capacità fiscale per abitante” (che è la situazione in cui versa il Comune di Napoli), e alla finalità di promuovere lo “sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali e per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona”.
Sembra proprio che, alla luce del delineato quadro, appare davvero
inconcepibile e pienamente in contrasto con la Costituzione, ritenere
che la “sospensione del Patto di stabilità e crescita” debba riguardare
soltanto lo Stato e non, come tutto farebbe pensare, “in prima linea” la
gestione finanziaria dei Comuni. Resta il problema delle “modalità”,
che, ai sensi del citato art. 12, della legge n. 243, del 2012,
dovrebbero essere “stabilite con legge dello Stato”.
È dunque urgentissimo che si provveda in proposito con decreto
legge da convertire in legge. Ma si tenga presente che, in mancanza di
questo elemento puramente procedurale, i Comuni potrebbero anche agire
autonomamente sulla base di modalità conforme alla Costituzione e ai
principi generali dell’ordinamento. È quanto dispose la giurisprudenza
costituzionale, quando si trattò di dare effettività alla potestà
legislativa regionale nelle materie specificate dall’art. 117 della
Carta costituzionale redatta nel 1947, il quale richiedeva, fra l’altro,
l’emanazione di una legge dello Stato, che precisasse “i principi
fondamentali” cui dovevano attenersi le Regioni nell’esercizio del loro
potere legislativo. Si trattava delle cosiddette “leggi cornice”, mai
emanate.
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