mercoledì 17 giugno 2020

Morti d’amianto e navi militari: condannato il Ministero della Difesa



 dinamopress Gaetano De Monte

-Vito, operaio pugliese dell’Arsenale militare morto d’amianto: il ministero della Difesa è stato condannato lo scorso 11 giugno dal tribunale civile di Roma a risarcire gli eredi dell’uomo per oltre 600 mila euro

Vito è tra le migliaia di operai impiegati sulle navi della marina militare italiane, dal luglio 1961 al settembre del 1978. Svolge la mansione di motorista, prestando servizio su diverse unità navali che erano connotate da «elevata connotazione di amianto, all’epoca utilizzato come coibentante non solo della sala macchine, bensì anche degli altri ambienti di vita, all’interno del natante». È la storia recente della politica militare italiana a raccontarlo. Oltre che una sentenza pronunciata lo scorso 11 giugno dalla giudice della sezione del Tribunale civile di Roma, Alessandra Imposimato, che ha condannato il Ministero della Difesa a risarcire i familiari dell’uomo per una cifra pari a 627.000 euro. Perché, «per l’esercizio dei compiti e delle mansioni affidategli (manutenzione dei motori e del sistema meccanico, oltre che della parte elettrica delle unità navali) svolgeva la propria attività in ambienti interamente coibentati con amianto, senza essere informato del rischio morbigeno e senza che fossero state adottate misure di prevenzione tecnica e di protezione individuale».

Dopo 17 anni e una vita trascorsa sotto coperta tra i motori delle navi abbracciato alle polveri d’amianto, poi, Vito veniva assegnato al Comando Distretto Militare di Bari, dove ha lavorato come impiegato civile all’interno dell’amministrazione fino al 1994.

È il 2007 quando il lavoratore di origini pugliesi si ammala. Ed è allora che evidenziava i primi sintomi della patologia (mesotelioma pleurico) «innescata dall’esposizione continuativa alle polveri e fibre d’amianto», si legge nella sentenza: «veniva quindi sottoposto a diversi cicli di chemioterapia; ciò nondimeno la progressione della malattia non si arrestava, conducendolo alla morte il 29 maggio del 2009».
La giudice del tribunale di Roma ha ricordato nella stessa sentenza che «per effetto delle vibrazioni indotte dal moto ondoso o dal lavorio dei motori, o dalle attività dell’uomo, l’amianto presente nei luoghi di lavoro si riduceva allo stato pulvirulento, sì da innescare la propria azione cancerogena». Non soltanto. Ha ricordato anche che, oltre a lui, «numerosi altri militari addetti alle medesime unità navali erano stati colpiti da altre patologie correlate all’esposizione all’amianto, quali l’asbestosi, il carcinoma al polmone e il mesotelioma». E ancora, riferisce oggi la giudice stabilendo l’indennizzo monetario per la moglie e la figlia di Vito: «Per tali eventi la Procura della Repubblica di Padova ha avviato una indagine a carico dei preposti del Ministero della Difesa, ma il decesso degli indagati che avevano avuto la responsabilità delle mansioni affidategli, aveva precluso che il provvedimento giungesse a termine». Di più: sempre secondo la giudice, «vi è la prova incontrovertibile che la nocività dell’amianto e la sua efficacia patogena, nell’innesco del mesotelioma, fossero acclarati, presso la comunità scientifica, fin dal 1964, sì da sussistere la responsabilità del Ministero, per non aver evitato che il proprio dipendente contraesse la malattia».

Perché Vito le polveri non soltanto le respirava, ma le “indossava” attraverso le tute fatte d’amianto, che, come altre migliaia di operai italiani dal dopoguerra e fino agli anni’80, calzava per proteggersi dal calore.

La Difesa sapeva. I familiari di Vito sono stati assistiti dall’Avv. Ezio Bonanni, Presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto, acronimo di Ona; è questa è solo l’ultima battaglia legale sul nodo salute/lavoro portata avanti in venti anni di attività. Dice Bonanni: «con questa pronuncia il Tribunale di Roma dispone l’applicazione dei principi di diritto più volte ribaditi dalla Suprema Corte di Cassazione e nel caso in cui il Ministero della Difesa dovesse proseguire nel negare il diritto al risarcimento danni, proseguiremo con le azioni legali in tutte le competenti sedi, prima di tutto in quelle civilistico risarcitorie». Nel frattempo, però, aggiunge: «Proseguiamo la nostra attività di assistenza, prima di tutto medica e poi legale, in favore delle vittime dell’amianto e dei loro familiari, per la tutela di tutti i diritti». E che la Difesa sapeva dei pericoli che correvano i suoi “operai” già dalla fine degli anni’60, inoltre, era venuto fuori tre anni fa, nel 2017, quando proprio l’avvocato Bonanni, tra le migliaia di pagine di carte del processo Marina bis che era in corso a Padova, fece saltare fuori un carteggio fino allora rimasto classificato come riservato che risaliva al 30 dicembre 1969.
In quella corrispondenza tenuta tra i vertici militari e alcuni scienziati dell’epoca veniva analizzato un documento della direzione di Sanità della Marina militare che era il risultato di un’indagine epidemiologica, il quale mostrava che su un campione di 269 operai che lavoravano allora presso l’Arsenale di Taranto (dopo quello di Napoli il più grande del Mezzogiorno) il 10% era affetto da mesotelioma o asbestosi e un altro 16% presentava sintomi sospetti.

«Una storia di silenzi che ancora oggi attende giustizia»: la definì così lo stesso Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio nazionale amianto (Ona) e parte civile nel processo di primo grado che si stava svolgendo nei confronti di 14 ex alti ufficiali della Marina militare italiana.

Era il 2017 ed ex capi di stato maggiore come Filippo Ruggiero, Umberto Guarnieri e Guido Venturoni, ufficiali pluridecorati come Rodolfo Stornelli, medaglia d’oro al merito della Repubblica Italiana per la Salute Pubblica, finirono a processo accusati «di aver omesso al personale appartenente alla Marina dei rischi per la salute insiti negli ambienti di vita e di lavoro, a causa della presenza di amianto, tanto all’interno degli Arsenali, quanto all’interno delle navi militari».
Ammiragli, colonnelli, generali, i massimi vertici della Difesa italiana per circa un ventennio furono assolti in primo grado, con la sentenza che però fu impugnata dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Venezia, Antonio Mura. Nel frattempo, su quei fatti, la Commissione Parlamentare d’Inchiesta della Camera dei Deputati sulle morti d’amianto istituita nella scorsa legislatura ha appurato l’esistenza di un migliaio di persone affette da mesotelioma e da altre patologie asbesto correlate. Mentre si è aperto lo scorso 7 febbraio il processo d’appello Marina Bis che vede alla sbarra nove ammiragli tutti accusati di non aver tutelato la salute di marinai deceduti per malattie legate all’esposizione all’amianto sulle navi e negli arsenali militari dove prestavano servizio, vi è una corsa contro il tempo perché alcuni imputati sono molto in là con gli anni; e, al di là delle singole responsabilità penali, c’è da garantire il diritto al risarcimento dei familiari, e vi è da ricostruire, inoltre, quella memoria d’amianto che riguarda un pezzo della nostra storia militare e repubblicana contemporanea. E per ora si è stabilito soltanto il prezzo, il costo umano di ognuno di quei lavoratori morti “servendo” l’interesse nazionale.

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