Raramente la stampa quotidiana offre
spunti di respiro così ampio da riuscire a rappresentare una visione
complessiva del mondo in poche righe. L’intervista
rilasciata da Pietro Ichino al quotidiano Libero pochi giorni fa ha
questo grande merito. Tuttavia il vero e impareggiabile merito di Ichino
in questa e in altre esternazioni è quello di fornire una versione pura
e senza fronzoli dell’ideologia liberista, aiutando così il lettore a
comprendere quale sia l’obiettivo ultimo di società immaginato dai
protagonisti, della lotta martellante condotta contro i lavoratori da
parte di chi ne vuole l’eterno sfruttamento e da parte di chi,
consapevolmente o meno, di questo eterno sfruttamento costruisce le
impalcature, attraverso presunte giustificazioni teoriche.
L’intervista è un botta e risposta veloce
su temi ampi, tutti incentrati sulla crisi economica attuale e sulle
misure adottate dal Governo italiano per farvi fronte.
Al margine di aspetti di minore
importanza, sono almeno cinque i temi economici cruciali affrontati da
Ichino (e altrettante le relative soluzioni prospettate, che
costituiscono l’armamentario classico del liberismo oltranzista): 1) la
libertà di licenziamento vista come volano per l’occupazione; 2) la
causa della disoccupazione rintracciata nella formazione inadeguata dei
lavoratori; 3) la convinzione che lo Stato debba ritrarsi dall’economia e
non sia capace di “fare l’imprenditore”; 4) l’idea che il sindacato
debba integrarsi nell’impresa condividendone i destini; 5) Il mito del
lavoro agile a distanza come elemento di trasformazione della natura dei
rapporti di lavoro dipendenti. Per non citare altre postille qua e là
gettate al vento nell’intervista senza nemmeno la fatica di
un’argomentazione minima: inevitabilità di una nuova riforma
pensionistica restrittiva; reddito di cittadinanza come disincentivo al
lavoro; le tasse come nemico dell’economia; i pubblici dipendenti visti
pregiudizialmente come scansafatiche.
La postilla che apre l’intervista è
proprio quest’ultima. Senza nessuno sforzo argomentativo né la premura
di citare evidenze o stime, Ichino lancia un attacco frontale allo smart
working dei dipendenti pubblici intrapreso da questi ultimi nel periodo
di chiusura legato all’epidemia: “nella maggior parte dei casi è stata
solo una lunga vacanza pressoché totale, retribuita al cento per cento.
Si sarebbe potuto almeno estendere a questi settori il trattamento di
integrazione salariale, destinando il risparmio a premiare i medici e
gli infermieri in prima linea, o a fornire i pc agli insegnanti,
costretti a fare la didattica a distanza coi mezzi propri”. Parole che
sprizzano livore gratuito verso milioni di persone costrette a lavorare
in condizioni non semplici con mezzi improvvisati, difficoltà di
gestione dei carichi familiari e ritmi talvolta più impegnativi di
quelli ordinari. Per non parlare del mito delle risorse scarse per cui i
risparmi conseguiti con un pagamento ridotto dei dipendenti pubblici
tramite CIG avrebbero dovuto essere usati per altri fini superiori. Ma
fin qui siamo solo al dileggio gratuito. Più in là emergono molto più
chiaramente i pilastri della visione liberista del mondo.
Concentriamoci sui punti più importanti,
che emergono con sorprendente chiarezza. Interrogato dall’intervistatore
sul fatto che le imprese, in questa fase di crisi, non stanno
sostanzialmente assumendo, Ichino risponde così: “Prima del lockdown,
Anpal e Unioncamere censivano in Italia più di un milione di posti di
lavoro qualificato o specializzato permanentemente scoperti per mancanza
di persone adatte a ricoprirli. Ammettiamo pure che questa domanda
insoddisfatta si sia ridotta del dieci per cento: basterebbe comunque a
dimezzare la disoccupazione, o quasi, se fossimo in grado di attivare i
percorsi necessari”. Siamo alla solita tiritera della disoccupazione
spiegata dalle scarse qualità e capacità dei disoccupati. Milioni di
laureati senza lavoro o con lavori precari pagati miseramente, insomma,
non verrebbero assunti perché privi delle adeguate qualifiche. Come se
il percorso formativo specifico, poi, non fosse parte integrante di un
rapporto di lavoro. Un’impostura ideologica che nasconde le vere cause della disoccupazione di massa, ovvero la cronica carenza di domanda di merci e servizi.
Si passa poi all’elogio del licenziamento
libero: “in tempi normali, il divieto (di licenziamento) è utile solo
contro i licenziamenti discriminatori, di rappresaglia, o comunque
dettati da motivi illeciti. Al di fuori di questo, può fare solo danni:
non deve essere un giudice a sostituirsi all’imprenditore nelle scelte
gestionali”.
Ricordiamo che in Italia sono previste
tre tipologie di licenziamento legittime: giusta causa, giustificato
motivo soggettivo e giustificato motivo oggettivo. Il primo è legato al
verificarsi di comportamenti gravi di violazione dei propri doveri da
parte del lavoratore (e non prevede preavviso), il secondo al
verificarsi di comportamenti di manifesta inadempienza da parte del
lavoratore, ma non così gravi da rientrare nella giusta causa, e il
terzo alla presenza di crisi aziendale che rende impossibile la
prosecuzione del rapporto di lavoro per l’azienda. Nel caso in cui il
licenziamento sia ritenuto illegittimo (ovvero laddove non ricorra
nessuno dei tre motivi previsti dalla legge) vi è l’obbligo da parte del
datore di lavoro di reintegro sul posto del lavoro e indennizzo (dal
Jobs Act in poi l’obbligo di reintegro è stato limitato al solo
licenziamento illegittimo discriminatorio, stravolgendo la precedente
disciplina). Il sogno dei liberisti è da sempre la totale
liberalizzazione del licenziamento. In base a questo modo di pensare, i
datori di lavoro dovrebbero poter licenziare senza alcuna
giustificazione tranne l’onere di dimostrare che non ti stanno
licenziando per il colore della pelle o perché incinta. Licenziamento
libero e discrezionale, dunque, e indennizzo per il lavoratore senza
alcun obbligo di reintegro. Questa la proposta di Ichino, che sogna il
modello anglosassone dove il rapporto di lavoro è integralmente
flessibile e i contratti a tempo indeterminato possono essere sciolti
senza alcuna forma di tutela, fatti salvi irrisori indennizzi.
Sorvolando sullo “Stato che non sa fare
il mestiere di imprenditore” e che dovrebbe quindi starsene fuori da
qualsivoglia ruolo nell’attività economica, andiamo ad analizzare i due
punti forse più cruciali e inquietanti dell’intervista.
Il sindacato, secondo Ichino, dovrebbe
smettere di creare contrapposizioni e conflitti integrandosi nella
missione dell’impresa e condividendone i destini nella buona e nella
cattiva sorte. Qui siamo al corporativismo esplicito. Il linguaggio
usato può sembrare criptico, ma il messaggio è chiaro: “io propongo la
distinzione tra il sindacato alfa, quello tradizionale, che si considera “tutt’altro rispetto all’impresa”, e il sindacato omega,
che invece ha come proprio obiettivo, dove possibile, quello di guidare
i lavoratori nella negoziazione della scommessa comune con
l’imprenditore sul piano industriale innovativo”.
Che un sindacato nasca come altro
rispetto all’impresa è una semplice evidenza oggettiva che ne connota il
ruolo storico e, sperabilmente, attuale. Il sindacato nasce per
tutelare i lavoratori in posizione di subordinazione dall’esercizio
dell’arbitrio assoluto da parte dei padroni. Ichino vorrebbe che “il
sindacato guidasse i lavoratori nella scommessa comune con
l’imprenditore sul piano industriale innovativo”. Sono parole che
lasciano intendere un solo messaggio: i sindacati non devono intralciare
l’impresa nei propri progetti mettendole i bastoni tra le ruote con le
loro rigidità (rigidità = tutela dei posti di lavoro), ma devono
assecondare i processi di trasformazione innovativa (innovazione =
ristrutturazioni aziendali che spesso implicano stravolgimenti di
organico, di ruoli, di orari, etc.). Insomma siamo di nuovo all’elogio
della discrezionalità assoluta da parte dell’impresa, la quale, per
giunta, dovrebbe essere assecondata da sindacati accondiscendenti che
mirano a obiettivi comuni. Corporativismo!
Infine, veniamo alla parte in assoluto
più inquietante del pensiero di Ichino. Quella che spaventa di più
perché descrive un processo in atto che, durante la crisi da Covid-19 ha
in qualche misura costituito una sorta di prova generale temporanea, ma
che potrebbe tornare assai utile ai padroni nel tentativo di
stravolgere i rapporti di lavoro nella direzione auspicata dal
giuslavorista.
Riportiamo i passaggi dell’intervista per intero, incluse le domande dell’intervistatore:
Ancora in tema di intelligenza del lavoro: secondo lei si va verso la sparizione del lavoro dipendente?Direi, piuttosto, che si va verso una forte dilatazione dell’area nella quale la struttura della prestazione di lavoro subordinato non è più distinguibile da quella del lavoro autonomo.Può spiegare meglio?Pensi al cosiddetto “lavoro agile” o smart working, nella sua versione più diffusa: cioè quella in cui la prestazione non è soggetta ad alcun vincolo temporale e la persona è responsabile soltanto del compimento di un determinato lavoro, cioè del risultato. Non c’è più lavoro misurato dallo scorrere del tempo, né eterodirezione.Ma se il dipendente da remoto non lavora in maniera smart, come può difendersi l’imprenditore?È necessario inventare una struttura e un sistema di protezione del lavoro dipendente compatibile con l’obbligo di risultato. È corretto vietare il licenziamento discriminatorio, ma negli altri casi la valutazione delle ragioni del licenziamento non può essere affidata al giudice. Bisogna partire dal presupposto che un imprenditore non si libera di un dipendente utile e operoso. Giusto subordinare il recesso a un indennizzo, ma non di 36 mensilità.
In dieci righe si condensa l’apoteosi del
progetto liberista. Questa la narrazione: il lavoro oggi diviene agile,
slegato dal posto fisico, e le mansioni possono essere svolte da casa
tramite la rivoluzione telematica, senza vincoli di orario specifici. Si
può persino parlare di fine della cosiddetta “eterodirezione” ovvero di
quella caratteristica cruciale che definisce un lavoro subordinato e lo
distingue dal lavoro autonomo imprenditoriale in senso stretto. Nello
smart working nessuno ti segue con il bastone per verificare cosa tu
stia facendo. Conta il risultato, non quanto tempo ci si impiega! Se sei
smart, intelligente, capace, se sei così bravo magari da
riuscire a lavorare mentre giochi con i figli il pomeriggio o mentre
prepari la cena avrai tutto da guadagnare! Fin qui il mito.
La realtà, invece, è il ritorno
strisciante di un lavoro a cottimo coperto dall’aura di libertà del
“lavoro a distanza”, pagato sulla base del risultato voluto dai padroni.
Un risultato raggiunto, come molte esperienze di smart working da tempo
dimostrano, con orari di lavoro massacranti che rubano tempo alla vita
portandosi il lavoro dentro le mura domestiche, fino ad orari
improbabili, anche nelle ore notturne, e in condizioni di totale
promiscuità tra vita personale e vita lavorativa. Apparente libertà che
nasconde la peggiore delle schiavitù.
E affinché la schiavitù del lavoro smart a
cottimo sia davvero compiuta, Ichino, come se non bastasse, batte
ancora il martello sul suo chiodo fisso: la libertà di licenziamento. Se
qualche impresa dovesse preoccuparsi della capacità effettiva di
controllo sul lavoratore a distanza, niente paura: se non si portano i
risultati richiesti si viene licenziati senza bisogno di tante
dimostrazioni.
Il progetto così è compiuto. Nella favola
di Ichino il lavoro dipendente diventa lavoro autoimprenditoriale,
ciascuno è imprenditore di sé stesso e scompare il vincolo della
subordinazione. Quella subordinazione che il lavoro smart-cottimo,
invece, rafforza ed esaspera viene così nascosta dietro le apparenze
della finta libertà di lavorare nel proprio salotto senza orari. La
visione di Ichino, che rappresenta perfettamente l’immagine
ultraliberista dell’economia di mercato, in cui ogni individuo è un
atomo libero e sovrano e non esistono classi sociali e rapporti di
subordinazione, rovescia in modo perfetto il mondo reale. Nel mondo
reale si assiste da molti anni, proprio al contrario, ad un allargamento
delle maglie dei rapporti di subordinazione: sia attraverso la
precarizzazione diretta del lavoro subordinato riconosciuto come tale,
sia attraverso la proliferazione di figure fittiziamente autonome, sia
attraverso l’impoverimento di parti di microimprenditoria individuale e
familiare proletarizzata e sempre più subordinata alla spietata legge
del mercato dominato dai grandi capitali. Nel mondo di Ichino e dei
fanatici del libero mercato si starebbe, invece, producendo un
allentamento del vincolo di subordinazione tradizionale in vista di una
società di esseri umani liberi e flessibili. Ciò che nella realtà si
manifesta come esasperazione del grado di dipendenza e semi-schiavitù
viene plasticamente rappresentato come liberazione dalla dipendenza. Una
orwelliana rappresentazione rovesciata che ha la chiara funzione di
alimentare la divisione e l’individualizzazione dei bisogni in seno al
vasto mondo dei subalterni, un mondo oggi parcellizzato e frammentato,
ma sempre più ampio.
Per capire la realtà contemporanea e
poter rilanciare un percorso di unità tra tutti coloro che sotto diverse
modalità formali di rapporti di dipendenza subiscono impietosamente le
conseguenze dell’economia capitalistica, è sufficiente rovesciare il
rovesciamento di Ichino. Almeno per questo dovremmo ringraziarlo. La sua
intervista, letta all’inverso, rappresenta un raro esempio di
eccellente lezione di economia sui rapporti di produzione nel
capitalismo!
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