di Enrico Grazzini
Per affrontare la gravissima crisi del coronavirus il governo italiano dovrà contare soprattutto sulle proprie forze senza attendere passivamente gli “aiuti” della Unione Europea. Se il governo Conte si affiderà al nuovo Recovery Plan, ridenominato Next Generation EU, rischia di morire in pochi mesi travolto da proteste e ribellioni sociali. Il grande rischio è che il piano di “aiuti” europei, il Next Generation EU, se verrà, arriverà troppo tardi e troppo poco per salvare l’economia italiana, che quest’anno potrebbe perdere anche più di 200 miliardi di PIL. Il governo Conte nutre delle aspettative eccessive sul “Piano di Rinascita” – come lo ha ridenominato Conte – proposto dalla Commissione UE. Le cifre vere si sapranno solo alla fine, ma molti indicano che il piano europeo è poco più che fumo negli occhi e che, anche nelle migliori delle ipotesi, non può risolvere i problemi dell’economia italiana.
Robero Perotti su Repubblica, Federico Fubini sul Corriere della Sera e Wolfgang Munchau sul Financial Times hanno cominciato a fare i conti (peraltro solo provvisori): ma tutti avvertono che il decantato Next Generation non è certamente manna dal cielo. È quantitativamente insufficiente per l’Italia e arriverà quando prevedibilmente la crisi del coronavirus sarà cessata da un bel pezzo.
L’unico vero incisivo sostegno viene e verrà dalla Banca Centrale Europea, che però può solo fornire nuova moneta di riserva alle banche e abbassare così gli interessi sul debito pubblico; ma non può – a causa dei vincoli del Trattato di Maastricht – dare soldi direttamente agli stati e all’economia reale, alle imprese e alle famiglie, e quindi non può portarci fuori dalla crisi. La BCE può solo cercare di salvare i Paesi dagli attacchi speculativi: ma solo una politica fiscale espansiva può portarci davvero fuori dalla crisi, e solo strumenti innovativi come i Titoli di Sconto Fiscale.
Per l’Italia occorre un progetto game changer, come dicono gli americani: qualcosa di dirompente che cambi veramente le dinamiche dell’economia italiana, altrimenti avviata – al di là della retorica dell’ottimismo – al disastro. Bisogna approntare decine di miliardi da investire subito per non fare andare a rotoli migliaia di imprese e per non perdere milioni di posti di lavoro, per non fare fallire l’economia italiana. Il governo non può accontentarsi del Piano Europeo Next Generation perché, come vedremo, è del tutto insufficiente e partirà lentamente, e solo nel 2021.
Deve affrettarsi a creare nuove risorse per decine di miliardi, e questo può farlo solo se adotta soluzioni innovative come l’emissione di Titoli di Sconto Fiscale convertibili in euro. Cioè titoli quasi-moneta da distribuire a famiglie, enti locali e imprese: titoli che prevedibilmente sarebbero ben visti dai mercati e dalla Banca Centrale Europea di Christine Lagarde, che non produrrebbero nuovo debito pubblico e che soprattutto rilancerebbero il PIL nazionale e ci porterebbero fuori dalla crisi tremenda che il Paese attraversa. Occorre che il governo italiano crei subito e autonomamente nuove risorse per uscire dalla crisi: altrimenti è prevedibile che il Paese si ribellerà.
Bisogna anche che il governo crei una grande banca pubblica di sviluppo che – detto in termini semplici – prenda i soldi dalla BCE a zero tasso di interesse e compri molte decine di miliardi di BTP all’1- 2% circa di rendimento: in questo modo la banca pubblica italiana nazionalizzerebbe il debito pubblico guadagnandoci sopra, e facendo guadagnare i suoi correntisti. In questo modo non dovremmo più trasferire decine di miliardi di ricchezza nazionale ai mercati finanziari internazionali, abbasseremmo i rendimenti dei titoli di stato nazionali, e non vivremmo più sotto il ricatto perenne di un aumento speculativo dello spread e del fallimento dell’Italia.
Occorre infatti nazionalizzare il debito pubblico e toglierlo per quanto possibile dal mercato internazionale, che è il più volubile e speculativo, e che può facilmente mandare in rovina l’economia italiana. E bisogna anche che una banca pubblica affianchi la Cassa Depositi e Prestiti (che è una società finanziaria e non una banca) e finanzi progetti infrastrutturali di lungo periodo di cui l’Italia ha immensamente bisogno.
Il Next Generation Plan non risolve in nulla i problemi dell’Italia
Il Next Generation Plan così pomposamente annunciato e titolato dalla presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen, si presenta bene all’apparenza ma ha poca sostanza. Il progetto si svolgerà in quattro anni – 2021-2025 – ma i primi soldi arriveranno quasi certamente solo con il contagocce e a partire dall’anno prossimo, quando potrebbero essere fuori tempo massimo. I media e le reti tv hanno annunciato che con questo piano – ammesso e non concesso che venga effettivamente approvato dal Consiglio Europeo – sono previsti per l’Italia fino a circa 80 miliardi di euro di finanziamenti a fondo perduto più altri 90 miliardi da pagare con bassi interessi: la cifra totale per l’Italia ammonterebbe a circa 170 miliardi. La realtà è molto differente.
Quest’anno dovrebbero arrivare solo quasi sette miliardi di euro a fondo perduto, più quindici di prestiti del fondo Sure di sostegno ai lavoratori e – se il governo, pressato dai condizionamenti di Confindustria, li accetterà – i 37 miliardi nella linea di credito sanitaria del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Si tratta secondo Federico Fubini di circa 50 miliardi di potenziale sostegno europeo (peraltro quasi tutti a debito, cioè soldi da restituire con gli interessi) a fronte di una distruzione di PIL di 200 miliardi e oltre.
L’anno prossimo i trasferimenti diretti di bilancio da parte della UE saranno pari a circa 4 miliardi di euro, mentre sotto forma di prestiti ne dovrebbero arrivare altri 8. In tutto, secondo le stime di Fubini, la Recovery and Resilience Facility dovrebbe versare all’Italia somme pari allo 0,7% del reddito nazionale nel 2021 dopo un crollo economico fra il 10% e il 13% di quest’anno. Il grosso degli esborsi dovrebbe essere effettuato negli anni successivi al 2021, ma solo dopo che la Commissione UE avrà approvato i piani nazionali di investimento. In altri termini, tutto sarà deciso di volta in volta dalla Commissione e non ci saranno automatismi.
Ma non basta: l’intero pacchetto presentato dalla van der Leyen deve essere approvato da alcuni parlamenti nazionali dei Paesi Europei perché, come avverte Fubini, “modifica le fonti di ricavi fiscali della Commissione stessa: in estate o in autunno dovranno votare a favore i parlamenti nazionali di Olanda e Danimarca (dove due governi già ostili al progetto non controllano neppure la maggioranza dei seggi) e parlamenti regionali come quello di impronta fortemente sciovinista delle Fiandre, in Belgio”. Insomma, se il governo Conte si affida ciecamente all’Unione Europea è già morto.
Il sostegno della BCE sembra invece più efficace, salva gli stati ma non promuove l’economia reale. La spiegazione è semplice, anche se pochi economisti la sanno e nessuno lo spiega: la BCE, grazie al programma PEPP (Pandemic Emergency Purchase Program) di 750 niliardi di euro e avviato in marzo, finanzia i titoli di stato comprandoli però solo dalle banche, cioè per via indiretta. La BCE aumenterà ancora prevedibilmente i finanziamenti per il PEPP. Ma il sostegno della BCE è solo difensivo: infatti la BCE paga alle banche i titoli di stato e quindi migliora le loro riserve monetarie presso la BCE stessa, ma non può costringere le banche a concedere più crediti all’economia reale se l’economia langue.
Non è vero che la BCE dà più ossigeno all’economia; la banca centrale offre invece più riserve di moneta alle banche comprando titoli di stato, ma questa moneta di riserva, depositata presso la banca centrale, stenta poi a essere “trasmessa” all’economia reale. Se nell’economia ci sono troppi debiti e aziende che falliscono, le banche non fanno crediti. La moneta bancaria non circola se lo stato non ha soldi da investire, se c’è troppa disoccupazione, gli stipendi diminuiscono e le imprese chiudono. La BCE può fare poco se il cavallo non beve. Non bastano tasso centrale di interesse uguale a zero e aumento delle riserve bancarie. C’è bisogno di moneta che vada direttamente a favore di investimenti pubblici, redditi famigliari e consumi. Solo così può riprendere l’attività produttiva. Purtroppo però Maastricht proibisce la monetizzazione dei debiti pubblici.
Ursula von der Leyen ha presentato Next Generation EU con toni enfatici ma in realtà, come spiega Wolfgang Munchau sul Financial Times, quello che sembrava un cannone è una piccola carabina. I finanziamenti a fondo perduto per affrontare la crisi saranno pari, secondo Munchau, a circa 400 miliardi di euro, di cui 310 miliardi per il nuovo piano Next Generation, che spalmati su quattro anni, rappresentano lo 0,6% del PIL europeo del 2019. Insomma: briciole.
In effetti sembra che il Next Generation UE, il nuovo Piano per il rilancio, l’ex Recovery Plan, sia congegnato apposta per obbligare il governo italiano ad aderire al piano di salvataggio del MES, il famigerato Meccanismo Europeo di Stabilità a guida tedesca che ha già operato in Grecia con pessimi risultati: - 25% di PIL, rapporto debito pubblico/PIL salito dal 120 al 180%, taglio brutale alle spese sociali e sanitarie. In Grecia, anche grazie al MES, il Paese è stato commissariato dalla Troika e, con il debito pubblico aumentato, ha perso tutta la sua sovranità. La democrazia conta ormai molto poco nell’Ellade: comandano Berlino e il Fondo Monetario Internazionale.
È pur vero che in Spagna, dove il MES è stato impegnato con successo per salvare le banche, il MES non ha combinato i disastri della Grecia; e che molti spergiurano che i 37 miliardi previsti dal MES per l’Italia non sarebbero soggetti a condizionalità penalizzanti (leggi: austerità, taglio delle spese e aumento delle tasse). Tuttavia anche qui si discute di poco più di briciole: infatti i 37 miliardi sono dei prestiti che vanno restituiti e che, avendo bassi tassi di interesse, al massimo ci permetterebbero di risparmiare 6 miliardi di conti pubblici, a fronte di un buco di 200 mdi di PIL.
Una cosa è certa: l’Italia non può attendere con sciocco ottimismo l’arrivo della pioggia di finanziamenti europei, che tra l’altro potrebbero arrivare a babbo morto, nel 2021, quando l’economia nazionale potrebbe essere già fallita. Il governo italiano dovrebbe avere il coraggio di trovare subito nuove soluzioni nazionali: deve reperire al più presto possibile nuove risorse monetarie per affrontare la crisi.
In questo senso l’emissione di Titoli di Sconto Fiscale convertibili in euro – così come spiegato più in dettaglio nel mio blog su Micromega on line – da assegnare a famiglie, enti pubblici e imprese, costituisce la soluzione migliore per creare risorse monetarie aggiuntive per almeno 90 miliardi in tre anni: i Titoli di Sconto Fiscale, una volta convertiti in euro dagli assegnatari nei mercati finanziari, aumenterebbero fin da subito la domanda aggregata (consumi, investimenti e spesa pubblica) e l’inflazione. Alla maturità dei titoli, al quarto anno, la crescita del PIL nominale coprirebbe il deficit potenziale dovuto all’emissione dei TSF. La crescita del PIL nominale sarà immediata e forte: occorre sottolineare che solo grazie alla crescita economica si potrà uscire da questa crisi, diminuendo così anche il rapporto debito/PIL.
Il piano di Rinascita della UE inverte finalmente il trasferimento di ricchezza dal sud al nord ma non regala nulla all’Italia
Finora la libertà assoluta di movimento dei capitali dentro l’eurozona ha facilitato il trasferimento della ricchezza dai paesi periferici a quelli del centro e nord Europa, grazie alla fuga dei capitali che corrono verso i cosiddetti “porti sicuri” (decine di miliardi sono fuggiti dall’Italia anche negli ultimi mesi) e grazie all’impossibilità di svalutare dei paesi più deboli. La moneta unica ha favorito le divaricazioni tra paesi ricchi, i creditori, e i paesi meno competitivi, i debitori. In questi anni la politica monetaria espansiva della BCE ha tenuto insieme l’impossibile ma, con il crollo economico dovuto al coronavirus, l’espansione monetaria non può più bastare.
Occorreva una manovra fiscale che possa tentare di salvare l’eurozona dalla rottura in mille pezzi. Senza iniziative anticrisi tutta l’Unione rischia di precipitare definitivamente nella frantumazione e nel caos. I governi rischiano di essere sovvertiti a favore delle destre protestatarie e ultranazionaliste. La Germania è stata obbligata a muoversi prima di arrivare alla rottura dell’eurozona, che assolutamente non le conviene.
In questa prospettiva deve essere collocato il Recovery Plan europeo. Macron, Angela Merkel e Ursula von der Leyen hanno preparato un piano di salvataggio di centinaia di miliardi di euro, un piano che però non comporterà nessun trasferimento fiscale dalla Germania verso gli altri Paesi più poveri. Sarà infatti finanziato dal mercato e coperto da una nuova fiscalità comune a livello europeo che prevede tasse sull’emissione di carbonio, sulla plastica, e (finalmente!) una tassa per i giganti del web in proporzione ai loro ricavi fatturati nei singoli paesi europei.
È vero che il progetto della von der Leyen per la prima volta prevede finanziamenti a fondo perduto a favore dei Paesi europei più colpiti dal coronavirus; è assolutamente positivo che questi finanziamenti vengano assegnati in base alle necessità dei singoli paesi e non sulla base di criteri esclusivamente finanziari o politici. Ma la filosofia di fondo della UE non cambia di una virgola. Niente eurobond e nessuna condivisione del rischio.
Nessuno sborserà un solo euro in più per questo nuovo programma di solidarietà, perché, come scritto sopra, il piano da 750 miliardi verrà finanziato sul mercato (e auspicabilmente dalla BCE) sulla base di nuove entrate fiscali comuni. L’opposizione dei quattro ricchi paesi cosiddetti “frugali” è perciò puramente opportunistica e politica. Non è perciò per nulla scontato che passi facilmente il concetto che i paesi più colpiti, come Italia e Spagna, devono essere finanziati più degli altri.
Non c’è dubbio che i piani della von der Leyen verranno ridimensionati a causa dell’opposizione di Olanda, Svezia, Danimarca e Austria. Occorrerà quindi vedere quale sarà il risultato finale della negoziazione tra i 27 paesi dell’Unione Europea prima di dare giudizi sensati. Infatti il programma Next Generation è inserito nel bilancio settennale 2021-2027 della UE e questo bilancio dovrà essere approvato all’unanimità da tutti i paesi, compresi quelli ultranazionalisti dell’est Europa.
La dura battaglia in corso sul piano Next Generation EU da 750 miliardi di euro –prima proposto da Emmanuel Macron, poi faticosamente accettato anche da Angela Merkel, presentato dalla presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen al Parlamento Europeo, e duramente contrastato dai governi di Olanda, Danimarca, Svezia e Austria e dai Paesi dell’est – dimostra che gli stati nazionali sono divisi e lacerati, che la vecchia Unione Europea è morta, e che ormai (per fortuna) la prospettiva degli Stati Uniti d’Europa, cioè di uno stato federato europeo a guida tedesca fondato sull’austerità e sul pareggio di bilancio, è impossibile ed è completamente sepolta.
Gli Stati Uniti d’Europa sono un’illusione pericolosa: meglio una Confederazione di stati sovrani
La UE è ormai chiaramente diventata una arena in cui i diversi stati con differenti interessi strategici si combattono apertamente tra di loro sul terreno economico e politico: Berlino e Parigi impongono la loro leadership, i Paesi ricchi e avari del nord (Olanda, Svezia, Lussemburgo, Austria) vogliono “sottomettere” quelli del sud, e quelli dell’est di stampo autoritario si allontanano dalle democrazie dell’ovest -. L’Unione Europea è a pezzi. Solo politiche e istituzioni confederali possono salvare una Unione lacerata e divisa su tutto.
Nonostante che Sergio Fabbrini[1] celebri il piano Next Generation come l’inizio del bilancio fiscale degli Stati Uniti d’Europa, la vera novità è che le battaglie in corso nell’Unione Europea dimostrano che nessuno vuole una federazione di stati e un vero bilancio comune di tipo federale, che richiederebbe che tutti i cittadini europei dovrebbero pagare, oltre le tasse nazionali, anche quelle per l’Europa. Ma questo non lo vogliono né i cittadini tedeschi, né gli olandesi, né gli italiani.
Probabilmente la cosa migliore è che l’Unione Europea cominci a funzionare come una Confederazione, cioè come una unione di stati nazionali che vogliono rimanere pienamente sovrani e che decidono di volta in volta iniziative comuni per il loro reciproco vantaggio. E per salvare un minimo di coesione di fronte alle maggiori potenze concorrenti, gli USA, la Cina e la Russia.
Il progetto Next Generation significa che, come ha scritto Sergio Fabbrini sul Sole 24 Ore, finalmente ci avviamo a diventare gli Stati Uniti d’Europa? Per Fabbrini “promuovere l’eguaglianza tra Paesi asimmetrici (basti pensare alla Germania con più di 83 milioni di abitanti e Malta con meno di 500mila) richiede un metodo federale. Ecco perché occorrono programmi di ribilanciamento tra Stati, come “Next Generation EU”, in quanto sostenuti da una fiscalità indipendente da quegli stessi Stati”. L’Unione di Ursula von der Leyen ha quindi cominciato a farsi carico dei debiti degli stati europei come fece Alexander Hamilton, ministro del Tesoro statunitense nel diciottesimo secolo? Il Next Generation è un decisivo passo in avanti verso una fiscalità federale come è avvenuto negli USA dopo la Guerra di Indipendenza contro il colonialismo britannico? No assolutamente!
Come dimostrano gli scontri attuali tra i paesi europei, non esistono le condizioni per una Federazione Europea tra 29 stati con diverse storie nazionali, con differenti istituzioni politiche, con differenti lingue e con interessi strategici divergenti. Anche in questa crisi vincono innanzitutto le politiche di difesa e di interesse nazionale. Ogni Paese europeo cerca di proteggere le sue industrie e la sua finanza con nazionalizzazioni, golden power e altri simili strumenti. Ogni Paese ha capito che nella crisi occorre contare soprattutto sulle proprie forze, e che poi bisogna anche trovare cooperazione e solidarietà all’esterno.
Del resto né Germania né Francia rinunceranno mai alla loro sovranità per consegnarla a organismi sovranazionali come la Commissione UE. La recente sentenza della Corte Costituzionale tedesca è stata chiarissima a riguardo: la Corte ha messo il guinzaglio alla Banca Centrale Europea imponendole di rimanere strettamente nei sui limiti statutari, di non fare una politica economica che possa danneggiare in qualche modo la finanza e l’economia della Germania. La Corte Costituzionale si ritiene al di sopra della Corte di Giustizia Europea (tra l’altro, a mio parere, giustamente, in quanto quest’ultima non è espressione di organismi democratici). Ma così la sentenza tedesca elimina ogni possibilità di federazione europea.
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Gli Stati Uniti d’Europa sarebbero una gabbia centralistica non democratica con sede a Berlino e una filiale a Parigi.
È invece auspicabile che i paesi europei trovino delle forme flessibili e confederali di cooperazione pur mantenendo la loro sovranità nazionale: in questo modo in ogni paese i popoli e la società civile potrebbero comunque esercitare forme reali e conflittuali di democrazia rappresentativa e diretta.
[1]
Professore ordinario di Scienza Politica e Relazioni Internazionali e
Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche presso la LUISS Guido
Carli, dove ha fondato e diretto la School of Government dal 2010 al
2018.
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