lunedì 15 giugno 2020

Alle origini della crisi della democrazia italiana: l’elezione diretta dei sindaci.

Trent’anni di culto del maggioritario hanno imposto l’idea che l’unica valida forma di legittimazione del potere sia l’investitura diretta del Capo da parte cittadini, basata sulla contrapposizione binaria tra la purezza del popolo e la corruzione del sistema. Al contrario, è l’elezione diretta dei sindaci una parte cruciale del male che non riusciamo a curare.




micromega Tomaso Montanari e Francesco Pallante
1. – Trent’anni di culto del maggioritario hanno ridotto gli orizzonti del dibattito pubblico sulla democrazia a quelli di un criceto che corre sulla ruota fissata alla gabbia: per quanto possa agitarsi, non avanza di un millimetro.

A tornare ciclicamente è l’idea che l’unica valida forma di legittimazione del potere sia l’investitura diretta del Capo da parte cittadini, titolari di un diritto di scelta, naturale e originario, di cui gli apparati cercano di impossessarsi manovrando nell’oscuro del palazzo. È un’idea elementare e potente, basata sulla contrapposizione binaria tra la purezza del popolo e la corruzione del sistema. Di qua il bene: il popolo; di là il male: i partiti.
E a sostegno del bene, come in ogni favola che si rispetti, l’eroe: il leader, amato come un padre dai suoi figli, che agisce senza timore contro il male in cui, altrimenti, si annida il potere.

Commentando la strabordante vittoria dei Sì al referendum elettorale (di fatto) propositivo del 1993, Mario Segni non poteva dirlo più chiaramente: «oggi l’Italia è cambiata. La vittoria del Sì mette fine a una fase della vita del Paese, e ne apre un’altra. Finisce la democrazia impotente, la democrazia incompiuta. Comincia la democrazia dell’alternanza, la democrazia dove i partiti conteranno di meno e i cittadini conteranno molto di più». Sulla medesima lunghezza d’onda – anche se enfatizzando un po’ i toni – Silvio Berlusconi, forte del successo alle elezioni dell’anno successivo, le prime con sistema maggioritario, affermò che «c’è del divino nel cittadino che sceglie il suo leader», attribuendosi l’appellativo di «Unto del Signore».

Per primi, però, erano venuti i sindaci. E per quanto faccia male, considerata l’enorme speranza dal basso riposta su queste figure, bisogna riconoscere che la loro elezione diretta è una parte cruciale del male che non riusciamo a curare.

Rompendo con l’impostazione parlamentarista sino a quel momento dominante a tutti i livelli istituzionali, la legge n. 81 del 1993 introdusse nei comuni una forma di governo iper-presidenzialista, che accentrava nella persona del sindaco, scelto direttamente dai cittadini, ogni decisione riguardante la vita collettiva. Fu un evento epocale. Improvvisamente, i partiti si ritrovarono svuotati di ogni ruolo, così come gli organi istituzionali loro espressione: la giunta e il consiglio comunale. Non soltanto le opposizioni furono relegate in posizione totalmente sterile, ma le stesse forze di maggioranza, per non dire degli assessori nominati e revocati a piacere dal sindaco, subirono la medesima sorte. Contravvenendo alla regola aurea del costituzionalismo, si diede vita a un sistema senza contrappesi, interamente incentrato su un uomo solo al comando. Un’autocrazia elettiva, sia pure a termine.

Quanto profondamente questa scelta abbia inciso sulla politica italiana è dimostrato non solo dalla rapida ascesa del medesimo modello a livello statale (leggi n. 276 e n. 277 del 1993, oltre alle riforme costituzionali del 2006 e del 2016 fermate solo per via referendaria) e regionale (legge n. 43 del 1995, con le elezioni dirette dei cosiddetti ‘governatori’ a partire dal 2000), ma, soprattutto, dalla sua penetrazione nel modo diffuso di pensare, sia dei commentatori qualificati, sia delle persone comuni. Si potrebbero riportare numerosi esempi. Tra i più recenti: Romano Prodi («una legge elettorale non è fatta per fotografare il Paese, ma per dargli una maggioranza di governo possibilmente stabile»), Matteo Salvini («chi vince governa e chi perde non rompe le palle»), Matteo Renzi («portiamo l’unico modello istituzionale che funziona, quello dei sindaci, a livello nazionale»). Per non dire dei sondaggi, che continuano a registrare il desiderio di «uomo forte» annidato nel corpo elettorale (da ultimo, Ilvo Diamanti su «la Repubblica» del 31 maggio 2020).

2. – Un’ulteriore straordinaria testimonianza viene ora dal ciclo di interviste effettuato dalla rivista «MicroMega», nel mese di giugno del 2020, ad alcuni tra i più importanti sindaci italiani: Luigi De Magistris (Napoli), Antonio Decaro (Bari), Dario Nardella (Firenze), Chiara Appendino (Torino), Leoluca Orlando (Palermo), Federico Pizzarotti (Parma). Al di là della logica intrinsecamente contraddittoria che anima le dichiarazioni dei protagonisti – criticare il leaderismo dei presidenti delle regioni alimentando il loro leaderismo di sindaci delle grandi città – colpisce l’assoluta autoreferenzialità dei loro ragionamenti: come se gli scompensi della forma di governo comunale fossero trasmigrati dall’istituzione alla persona, in una sorta di ricomposizione, in uno soltanto, dei «due corpi del re».

Proprio l’annullamento dell’istituzione nella persona è il tratto più evidente dell’autorappresentazione che i sindaci offrono di sé. Il comune, per loro, semplicemente non esiste: il comune è il sindaco. Emerge con evidenza dalle parole di Appendino: «io ho ereditato un bilancio con un disavanzo», «la Corte dei Conti mi disse», «io ho scelto la seconda strada», «ho fatto un percorso di risanamento che mi ha portato», «lo dico io che mi sono presa la responsabilità politica», «voglio poter mettere a sistema quelle risorse». Io, io, io: una cantilena ininterrotta. Meno infantile nella forma, ma analoga nella sostanza, è l’argomentazione di De Magistris: «se i comuni cadranno come birilli non ci sarà nessuna ricostruzione» e, dunque, «serve restituire centralità [non ai comuni, si badi, ma] ai sindaci». Sulla stessa linea Nardella, per il quale, a fronte delle difficoltà che minacciano la ricostruzione, «l’unica strada per non precipitare è che a gestire la situazione siano i sindaci». Così ancora Appendino: finito il lockdown, «siamo in un’altra fase che richiede il nostro protagonismo», tanto più – aggiunge Pizzarotti – che «quando siamo stati chiamati in causa, come accaduto con la questione del buono spesa, ci siamo fatti trovare pronti». In effetti, conferma Orlando, «se l’iter dipende da un sindaco, i soldi arrivano e vengono utilizzati», sicché la soluzione è semplice: «dovrebbero semplicemente lasciarci fare». A che servono regole, procedure, funzionari, quando basta e avanza la volontà del sindaco? Anche perché, conclude sul punto Decaro, «come si gestisce una piazza, una spiaggia, un mercato, un cimitero lo sappiamo noi». Dal «Presidente operaio», di berlusconiana memoria, al «Sindaco vigile-bagnino-verduriere-becchino».

In ballo, peraltro, non c’è solo la ripresa economica. La crisi – si preoccupano i sindaci – ha messo a rischio la tenuta sociale e democratica del Paese e, anche in questo campo, nessuno più di loro è idoneo a fare da argine al pericolo. «Siamo la base per la “convivenza democratica”», spiega sempre Decaro, «se la situazione non è esplosa è stato solo per il nostro lavoro e il nostro impegno». «Siamo noi a parlare con le famiglie – aggiunge il sindaco di Bari – e lo facciamo faccia a faccia, tutti giorni». D’altronde, «la gente mi chiama “Antonio” [in effetti, è il suo nome, n.d.a.], non sindaco», durante le settimane di chiusura «ho girato tutta la città per cercare di mantenere il più possibile il rapporto con la “mia” comunità», ho agito «da fratello maggiore, non da pubblica autorità». Anche il sindaco di Napoli vive in stretto rapporto con la cittadinanza, di cui conosce tutto: «le preoccupazioni, le ansie, le felicità, i sogni». Si direbbe, tuttavia, che la cosa un po’ lo intimorisca: «a differenza di un premier, di un ministro o di un presidente di regione, il cittadino sa dove abita Luigi De Magistris». Potrebbe forse fare come Orlando, che sembra alternare alla carota il bastone: «ogni mattina mi sveglio e per prima cosa valuto se tornare a gridare».

Ma c’è poco da scherzare. «I sindaci – spiega Nardella – sono la più alta dimostrazione del funzionamento della democrazia». Ciononostante, aggiunge De Magistris, «anziché rafforzare le autonomie del Paese, questo governo sta annichilendo la democrazia partecipativa»: approfittando della crisi, «stanno sopprimendo i comuni». Un allarme che trova conferma nelle parole di Decaro: «stiamo assistendo al tentativo di delegittimazione istituzionale del ruolo dei sindaci», ma «il futuro dell’Italia passa inevitabilmente dalle città» perché, «se saltano i comuni, salta l’Italia».

Il crescendo argomentativo è vertiginoso: il comune è il sindaco; il sindaco conosce il territorio e agisce con efficienza; la conoscenza e l’efficienza del sindaco consentono la ricostruzione e, conseguentemente, assicurano la tenuta sociale e democratica del Paese. Altro che «lo Stato sono io»: al confronto, Luigi XIV era un dilettante. Il comune, la ricostruzione, la coesione sociale, la democrazia, l’Italia? Sono io, sempre e soltanto io: il sindaco.

Ma, com’è stato possibile arrivare al punto da mettere a rischio i comuni e, con loro, l’Italia intera? Onestamente, Nardella ammette che anche i primi cittadini hanno qualche responsabilità: «come sindaci abbiamo mostrato un grande senso di responsabilità», «abbiamo subito detto allo Stato “ci fidiamo di voi” cedendo una quota di sovranità al governo». «Volevamo evitare il caos», precisa Pizzarotti. L’ordinamento giuridico, le fonti del diritto non contano nulla: come se lo Stato non avesse adottato atti normativi rivolti alla gestione della pandemia. No. È tutta, soltanto, una questione di disponibilità personale. Confermano i colleghi: «abbiamo mostrato una grande responsabilità, accettando un depotenziamento sostanziale e formale dei nostri poteri» (De Magistris); «abbiamo ceduto ogni potere allo Stato, perfino quello di garantire la salute pubblica» (Decaro); «abbiamo rinunciato al nostro potere di ordinanza» (Appendino); meglio: «abbiamo accettato di essere privati del potere di ordinanza» (Orlando). Retrospettivamente, un peccato di ingenuità. Ma chi avrebbe potuto pensare che ad approfittarne, con la complicità del governo, sarebbero stati i nemici giurati dei sindaci: i presidenti di regione? «Di certo non ci aspettavamo che il governo ci sostituisse con i presidenti di regione», geme Decaro. A loro, conferma De Magistris, «di fatto hanno consegnato i nostri poteri». «Le regioni – rincara il sindaco di Bari – si dovrebbero occupare della pianificazione generale, invece stanno occupando il nostro campo, gestendo attività proprie dei comuni». La reazione di Nardella si consuma, ancora una volta, sul piano personale: «mi sono dovuto ricredere anche io su molte convinzioni in relazione all’autonomismo regionale». Terribile. Come faranno le regioni ora che hanno perduto la fiducia del sindaco di Firenze?

Urge correre ai ripari. I sindaci non possono essere trattati come «amministratori di condominio» (De Magistris) e neppure come «vicesceriffi» (Decaro) o «notai» (Nardella). I sindaci – argomentano all’unisono i primi cittadini di Napoli, Bari e Firenze – meritano rispetto perché vengono «eletti direttamente dal popolo», sono «l’istituzione più prossima ai cittadini», «il terminale più esposto dello Stato», «le uniche figure “costituzionali” chiamate a indossare la fascia tricolore (anche se, precisa De Magistris, «sono pronto a togliermi la fascia tricolore e a indossare quella napoletana»). Sono, sempre i sindaci, la «vera essenza della democrazia diretta», ma anche coloro che «incarnano il valore della democrazia rappresentativa» (Nardella). Che siano uni e bini? Soprattutto, come già ricordato, i sindaci sono l’incarnazione della città: come spiega Orlando, «ovviamente io parlo a nome del mio partito, che è Palermo». Ovviamente.

Stando così le cose, è chiaro che ai sindaci vanno al più presto «restituiti» i loro poteri, perché «la fase due deve essere gestita dai sindaci», mentre «qui qualcuno sta giocando con la democrazia» (De Magistris). «Vogliamo indietro il nostro ruolo», tuona Decaro, «chiediamo risorse ma soprattutto che ci vengano restituiti i nostri poteri»: «sappiamo come far riprendere la nostra economia: il problema è che non abbiamo il potere, più che il denaro, per farlo». Sono cose che «il governo deve capire, o sarà lo scontro», sibila Nardella. Per poi subito rilanciare: «se c’è un insegnamento da trarre dalla pandemia è che non è più rimandabile consegnare ai sindaci più poteri, in proporzione alla loro rappresentatività democratica, e dare più forza alle città metropolitane […] anche su temi come le opere pubbliche e le infrastrutture». E che dire della sanità, visto che all’origine di tutto c’è un’emergenza sanitaria? «I sindaci – è sempre il primo cittadino di Firenze che parla – […] sono autorità sanitarie locali e hanno il potere più forte che esiste in campo sanitario, il Trattamento sanitario obbligatorio. Eppure, nella governance del sistema sanitario, non tocchiamo palla». Ma per quale motivo autovincolarsi a sanità e infrastrutture? «I comuni – chiosa Orlando, si direbbe non senza una punta di rimpianto – hanno due limiti, non battono moneta e non hanno un esercito». Perché allora rinunciare a tutto il resto? Il più moderato sembrerebbe Pizzarotti: «in questo momento non chiederei più poteri. Chiedo, però, di poter fare il sindaco». Per poi, tuttavia, aggiungere che, «se un sindaco non ha strumenti e risorse per superare un’emergenza ridisegnando la propria città, è tutto inutile»: di qui, richieste in tema di viabilità, commercio, fiscalità, welfare, persino immigrazione. D’altronde, «cosa ci vuole a rivedere il sistema per fare in modo che un sindaco sia più vicino ai propri cittadini? Tre strumenti e il problema sarebbe potenzialmente risolto: norme, risorse, personale». Possibile non ci avesse ancora pensato nessuno? Fortuna che ci sono i sindaci!

3. – È evidente, nelle parole dei sei primi cittadini, il condizionamento derivante dall’investitura popolare diretta. Ma un conto è la soddisfazione di chi, come Decaro, può vantarsi di essere «stato rieletto al primo turno con il 60 per cento dei consensi», un altro l’occultamento della realtà che porta Nardella ad affermare che i sindaci sono «le sole cariche elette direttamente dai cittadini»: come se consiglieri comunali e regionali, presidenti di regione e parlamentari arrivassero da un’altra galassia.

Il problema, come accennato all’inizio, è lo squilibrio della forma di governo comunale. Una forma di governo che è ben oltre il presidenzialismo, perché diversamente da quest’ultimo, non separa rigorosamente funzioni e destino dei due organi elettivi (sindaco e consiglio comunale). Il regime presidenziale esclude che il presidente possa sciogliere il parlamento, così come esclude che il parlamento possa sfiduciare il presidente. È questo che dà equilibrio al sistema statunitense. Tutt’altro avviene nei comuni, dove il consiglio che volesse sfiduciare il sindaco verrebbe esso stesso travolto, per automatico scioglimento, dalla propria iniziativa. E, di converso, il sindaco che si dimettesse trascinerebbe con sé anche il consiglio comunale. Inevitabile conseguenza è la riduzione del consiglio comunale – l’organo rappresentativo delle diversità presenti sul territorio comunale – a mero strumento nelle mani del sindaco: senza che vi siano sostanziali differenze tra maggioranza e opposizione. Un organo, di fatto, inutile: sede di ratifica di decisioni prese dal sindaco (dal sindaco, si badi, non dalla giunta: come giàricordato, gli assessori sono meri collaboratori del primo cittadino, che gode, nei loro confronti, di un incontrastabile potere di nomina e revoca).

Arduo considerare realmente democratico un sistema di questo genere. Si dirà: «ma sono i cittadini che hanno il potere di scegliere il sindaco!». Vero. Ma qual è, esattamente, la sostanza di questo potere? Incoronare il capo una volta ogni cinque anni. Dopodiché, si riduce a nulla. Una democrazia a singhiozzo, nella migliore delle ipotesi, che si consuma nel momento stesso in cui la si esercita: un giorno per lustro. È di questo che dobbiamo accontentarci? E per avere in cambio che cosa? Tanti Re Sole in minore convinti di essere l’incarnazione delle “loro” città? Tra i tantissimi danni, irreparabili, che sono scaturiti da questo ‘assolutismo dei sindaci’ bisognerà un giorno calcolare le dimensioni dell’erosione (in certi casi, della distruzione) dello spazio pubblico delle città italiane. Messi con le spalle al muro dai tagli alle finanze degli enti locali (guarda caso inaugurati in perfetta concomitanza all’elezione diretta dei sindaci) e indotti in tentazione dal cosiddetto federalismo demaniale, i primi cittadini hanno alienato immobili di ogni tipo e rango, gettando i proventi nei bilanci ordinari e di fatto decidendo in vertiginosa solitudine non solo per i loro elettori, ma anche per molte generazioni precedenti (che quella ricchezza pubblica, ora sperperata, avevano faticosamente costruito) e per molte successive (che non avranno spazi pubblici in cui costruire e sperimentare democrazia). Non è certo complottismo, ma pura lettura storica, constatare come l’elezione diretta dei sindaci sia stata funzionale a legittimare la più colossale operazione di privatizzazione del trentennio ultraliberista in cui siamo ancora immersi senza luce in fondo al tunnel.

Alla fine, è proprio un sindaco (e come avrebbe potuto essere altrimenti? Fanno tutto i sindaci!) a gettare un po’ di luce sull’insostenibilità della loro posizione. «Vorrei farvi leggere – è Orlando che parla – le discussioni che ho con i miei colleghi sulla chat “dei sindaci metropolitani”. Decine e decine di messaggi ogni giorno, siamo in contatto in tempo reale su qualsiasi questione. Se la leggeste, chiamereste uno psicologo per farci seguire». Ecco. Forse sarebbe il caso di non lasciar cadere quella che, seppur dal sen sfuggita, ha tutta l’aria di essere una richiesta di aiuto.


(15 giugno 2020)

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