Il percorso della Rete dei Comunisti in tre pubblicazioni
Comunisti nell’anno zero.
Uno
stimato compagno di poco più di vent’anni, qualche tempo fa, in una
discussione politica all’interno di Potere al Popolo disse più o meno:
“Per noi che non abbiamo la vostra età (si riveriva ai quelli dai
quarant’anni in su) e non abbiamo la vostra esperienza politica, noi
siamo all’anno zero”. Con questa affermazione cercava di marcare una
differenza e rivendicava una novità. Quella affermazione contiene più
verità di quante forse lo stesso compagno poteva sospettare. Ma
denunciava anche alcuni vuoti di consapevolezza storica che devono
essere colmati.
Vorrei
idealmente parlare a quel compagno più giovane parlando della Rete dei
Comunisti e del suo percorso storico, che con due opuscoletti di agile
lettura abbiamo cercato di rendere esplicito a tutti, ossia con
l’opuscolo “Approcciando la questione del metodo” (giugno 2018) e “Il lavoro teorico della Rete dei Comunisti” (aprile 2018).
Ripartiamo
dall’affermazione. Innanzitutto è vero che tra la generazione dei
ventenni e dei quarantenni c’è uno iato, una frattura.
Il
giovane compagno non ha conosciuto l’esperienza politica “tradizionale”
del partito di massa presente nelle istituzioni, nello specifico non ha
conosciuto l’esperienza politica di Rifondazione Comunista. Ossia, non
ha conosciuto quell’esperienza politica eclettica su cui si sono formati
(o sformati) molti giovani compagni di allora, che cercavano uno spazio
politico giovanile idealmente ribelle e “contro sistema”. O, meglio
ancora, il giovane compagno non si è trovato a vivere quella “normalità”
per cui un giovane di quel tipo trovasse “naturale” in qualche modo
finire dentro Rifondazione. Oppure, su un versante completamente
opposto, non si è trovato a vivere la “normale” condizione di andare a
finire dentro a un centro sociale.
Insomma,
queste erano le due prospettive possibili di massa di allora (si
esclude la galassia delle formazioni comuniste di varia natura sparse su
tutto il territorio nazionale ma di difficile decifrazione per un
giovane alle prime armi, e comunque poco di massa). Anzi, spesso, al di
là delle linee politiche, un giovane poteva tranquillamente finire
dentro Rifondazione e passare poi a un centro sociale, sia come
militante che come frequentatore di un ambiente politico “percepito”
come vicino per quanto critico. Il tutto senza soluzione di continuità
percepita (i “rafanielli” – cioè, come venivano scherniti, i “finti
comunisti” di RC, – erano più imprevedibili del previsto).
Quelle
due opzioni politiche di massa oggi non ci sono più (pur rimanendo in
piedi sia quello stesso partito – più mille altri nella forma
simili – che gli stessi centri sociali, ormai sempre più vittime di
sgombero e le cui file si sono, ahinoi, assottigliate), ma avevano
generalmente in comune una cosa: per quanto ognuno a suo modo, entrambi
parlavano di comunismo.
Il
giovane compagno che ci parlava, ci diceva anche indirettamente che era
diventato comunista contro tutto e contro tutti, anche contro i nostri
vent’anni di allora, e nonostante la fine di quei contenitori politici,
in quanto contenitori di massa. Quel compagno, assieme a tanti altri, è
una mosca bianca nella misura in cui si dichiara comunista, sia per età
che per fase storica. Eppure per lui non è così. Per lui è normale
essere comunista. O meglio, è diventato normale esserlo. Certo
dimenticando o non sospettando, non percependo, che una volta c’era un
popolo comunista, una cultura e un’identità che oggi – sembra assurdo
dirlo, ma esistono le prove – sopravvivono, in forme completamente
avulse dalla realtà, addirittura anche in alcune sezioni periferiche e
popolari del Partito Democratico.
Oggi
invece, un compagno che vuole diventare un militante ha diverse opzioni
organizzative immediate, ma di cabotaggio ridotto: il centro sociale
dopo il tempo dei centri sociali, il collettivo studentesco o politico
(entrambi con diffusione esclusiva sul territorio locale), la piccola
organizzazione comunista, fortemente identitaria (sia detto qui in senso
assolutamente neutro, solo a titolo descrittivo), con i propri simboli,
magari con riferimenti ai classici precisi, un forte senso di
appartenenza. Non sono pochi i compagni e le compagne che sono passate
da una parte all’altra.
In
ogni caso, almeno di non essere sonoramente smentito, è difficile
trovare giovani disposti ad entrare in massa in un’organizzazione
politica tradizionale.
A
quel compagno dell’anno zero il modello organizzativo comunista della
Rete dei Comunisti risulterà invece inintelligibile, sia per la sua
storia che per tradizione politica e culturale. Se si ha in mente il
collettivo, il centro sociale o l’organizzazione identitaria, la RdC
difficilmente verrà percepita come in sé attraente o come, più
semplicemente, comprensibile.
Da una storia anomala: radicamento sociale e di classe
Partiamo
da un dato storico: le compagne e i compagni che hanno dato vita alla
RdC provengono da esperienze diverse, ma nessuno dalla realtà del PCI o
del PRC. Vengono quasi tutti dalle realtà di lotta extraparlamentare e
dal sindacalismo di base. La maggior parte proviene dall’OPR
(Organizzazione Proletaria Romana), con forte radicamento sociale e
politico nel territorio metropolitano e periferico romano. Per
approfondire questi aspetti si consiglia la lettura snella di Una storia anomala. Dall’Organizzazione Proletaria Romana alla Rete dei Comunisti (2014), vol. 1 “Il conflitto di classe negli anni ‘70”.
Da
quell’esperienza rimangono in vigore: un forte radicamento di classe
(sia sociale che sindacale) e l’esigenza di una rappresentanza politica
autonoma dei settori di classe organizzati, elementi sempre legati e mai
dissociati, come purtroppo avverrà sempre più negli anni ’90 in poi.
I
mutamenti intercorsi, invece, che hanno caratterizzato il contesto
storico e, dunque, pratico-teorico in cui è avvenuta la nascita della
Rete dei Comunisti sono: la fine del blocco socialista, il progressivo
affievolirsi di un orizzonte socialista, il rifiuto alquanto acritico
(sia dal punto di vista storico, politico e teorico) dell’eredità del
movimento operaio internazionale (con la conseguente balcanizzazione
teorica vissuta sia da Rifondazione comunista che dall’universo dei
centri sociali) e, soprattutto, la fine dell’unità di quei tre fronti
che avevano fatto la fortuna del PCI, ossi il fronte sindacale, politico
e strategico, per cui un operaio era iscritto a un sindacato comunista,
si sentiva rappresentato da un partito comunista e credeva in un
orizzonte comunista.
La divaricazione dei tre fronti e l’esito “populista”.
Dalla
fine degli anni ‘80 tutto questo non c’è più. Le varie organizzazioni
sindacali, politiche e/o comuniste hanno lavorato solo su uno di questi
fronti, a volte tentando indebite riunificazioni: il sindacato immediatamente politico, l’organizzazione comunista immediatamente sociale, l’organizzazione politica immediatamente rappresentativa di interessi di classe frammentati, spesso contraddittori e non organizzati.
Chi
agli inizi degli anni ’90 pensava di fare come un tempo si è trovato
cacciato in un angolo, al di là dell’eroica resistenza individuale o di
gruppo, stretto tra il franare dell’opzione socialista e l’avanzare
della propaganda liberista e della ristrutturazione produttiva. Il
risultato fu che la riorganizzazione produttiva, cioè la sua
destrutturazione organizzativa, territoriale e contrattuale ha
letteralmente frammentato il soggetto di classe, il quale ha smesso
progressivamente (specie nelle nuove generazioni) di considerarsi non
solo comunista ma semplicemente vicino a un orizzonte diverso da quello
capitalista, e ha pure smesso di lottare, dando vita a quella passività
sociale che progressivamente si è imposta e che oggi ha dato vita a
quelle forme di reazione (tutta politica, altro che antipolitica!)
correntemente definita “populista”.
Ma ha
anche disorientato le organizzazioni, le quali, nel tentativo di porre
un argine al tutto, si sono spesso irrigidite su un aspetto solo della
lotta dei tre fronti o addirittura non cogliendo nello specifico i
mutamenti strutturali che il processo di valorizzazione capitalistica
subiva nel mondo, sovrapponendo alla realtà o soluzioni immaginifiche
(“fantasie prive di immaginazione” le avrebbe definite Marx) o
perpetuando modelli interpretativi e, conseguentemente, organizzativi
ormai destituiti di efficacia.
Risalire la china con metodo.
Il rischio di irrigidimento era per tutti presente (come forse è avvenuto, nelle forme,
anche nei centri sociali e nelle organizzazioni più orientate alla
salvaguardia dell’identità comunista), così come le soluzioni
immaginifiche hanno intaccato più o meno tutte le organizzazioni o i
soggetti che cercavano il nuovo a tutti i costi e si sono nutriti di
“post-qualcosa”.
Sappiamo
che una certa presunzione ci spinge a scrivere queste righe ed è certo
difficile scacciare in chi legge queste parole un possibile sentimento
di fastidio. Ma questo è una dato ineliminabile in ogni scelta politica
che si scommette (non pascalianamente, però) essere valida.
Per
questo, non possiamo non evidenziare che da questi pericoli, nel suo
piccolo, la Rete dei comunisti ha sempre cercato di fuggire, facendo
prima di tutto ricorso a un principio che ha permesso ai comunisti,
nella loro storia, di essere efficaci e vincenti. Questo principio,
riscontrabile in ogni sorta di marxismo definito originale (ma anche di
un semplice pensiero politico incisivo), riguarda l’analisi dei processi
generali e, da lì, la specificazione delle situazioni particolari. È
questo quello che per noi è il metodo e che trascende i limiti del
marxismo in senso stretto. Il metodo per noi è prima di tutto l’analisi
della realtà secondo i suoi stessi principi, non secondo schemi
interpretativi calati dall’alto. Metodo che esclude anche ogni soluzione
“politicista”, cioè basata solo sul contingente e localmente delimitato
quadro politico. Non confondere tattica con strategia, la fase
(transitoria) con la tendenza generale, mutamenti superficiali con i
cambiamenti epocali (quali nessun “post-” è riuscito a descrivere).
Per
intenderci, non si poteva parlare di “fine del lavoro”, fine degli
operai, fine delle organizzazioni tradizionali a favore di scelte
“orizzontalistiche” (panacea di tutti i mali!), fine dell’imperialismo
per l’adozione del concetto di “impero”, fine della teoria del valore e
della centralità della produzione, ecc. (soluzioni immaginifiche, per
l’appunto).
Si
doveva invece partire dall’analisi del sempre vigente modo di produzione
capitalistico (MPC), verificarne la sua organizzazione specifica e la
sua configurazione geografica (i “capitalismi” sono infatti la storia
effettuale e la geografia del MPC), verificarne le tendenze e le
possibili configurazioni (la caduta tendenziale del saggio di profitto,
la conseguente competizione globale, il nuovo assetto degli
imperialismi, la nascita dell’UE come polo imperialista in costruzione,
ecc.), descrivere la nuova condizione di classe con l’inchiesta
(sociale, sindacale e metropolitana), ragionare sulle forme
organizzative adeguate (la politica dei tre fronti), riflettere sulle
possibili (perché praticabili in tempi non biblici) fuoriuscite dai
capitalismi per dare vita a forme di transizioni al socialismo (per noi è
stata ed è ancora valida l’ipotesi di un’ALBA a casa nostra), avviando
processi rivoluzionari e popolari di trasformazione economica e
politica.
Un’organizzazione “una e trina”.
Ecco,
come questo fulmineo quadro descrittivo ha cercato di sintetizzare, la
Rete dei Comunisti ha inteso lavorare, in una quadro generale del MPC
effettivamente mutato al livello mondiale, praticando un lavoro sui tre
fronti (orizzonte comunista, orizzonte politico, orizzonte
sociale-sindacale) che tenesse conto dei processi storici ed economici
sopraggiunti, ma che lavorasse al mantenimento di un discorso comunista
adeguato all’altezza dei nostri tempi e dei nostri compiti e rivisitasse
(senza revisionismo in senso becero, ma neanche senza rigidità) la
cassetta degli attrezzi teorici; che, in seguito all’inchiesta di
classe, praticasse forme nuove di lotta sociale ma sempre radicate nella
classe (dal sindacalismo di base a quello modernamente confederale e
metropolitano, per giungere alla formalizzazione della Federazione del
Sociale); che si preoccupasse di creare una rappresentanza politica di
classe (piattaforme unitarie) su rivendicazione sociali che negli anni
non hanno mai smesso di esistere, per quanto frammentari, il tutto in
completa autonomia dal Centro-sinistra e dal compatibilismo politico e
sindacale.
Il
tipo di organizzazione messo in piedi dalla Rete dei Comunisti ha, cioè,
cercato (nei suoi limiti numerico-quantitativo-qualitativi) di
affrontare i cambiamenti intercorsi, di dare vita all’organizzazione di
classe e al conflitto di classe, a mantenere in piedi un’opzione
comunista, creando quella forma storica e perciò contingente di
militante che abbiamo definito “quadro con funzione di massa”, un quadro
che crea organizzazione in prima persona stando a contatto con i
settori di classe di riferimento, che riflette su come adeguare
l’organizzazione alla nuova realtà (storiche, produttive, di coscienza,
ecc.), che si interroga sui cambiamenti in corso. Per questo motivo lo
studio (gramscianamente inteso) è sempre parte del nostro lavoro di
organizzazione, e non soltanto come parte di un gruppo ristretto
separato dalla “pratica”.
L’organizzazione è “una e trina” e il militante ha (o dovrebbe avere) sempre questo atteggiamento e questa forma mentis
tripartita ma unitaria, sapendo che la tendenza all’unione dei tre
fronti è data non da spinte volontaristiche, ma da processi oggettivi
reali, ma sapendo anche che senza quella volontà e determinazione di
costruzione di organizzazione, di conflitto e di prospettiva, il
riavvicinamento dei tre fronti non ha possibilità di configurarsi
immediatamente e spontaneamente come rivoluzionario.
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