giovedì 16 agosto 2018

Storia, metodo e organizzazione di classe.

Il percorso della Rete dei Comunisti in tre pubblicazioni
Comunisti nell’anno zero.

Uno stimato compagno di poco più di vent’anni, qualche tempo fa, in una discussione politica all’interno di Potere al Popolo disse più o meno: “Per noi che non abbiamo la vostra età (si riveriva ai quelli dai quarant’anni in su) e non abbiamo la vostra esperienza politica, noi siamo all’anno zero”. Con questa affermazione cercava di marcare una differenza e rivendicava una novità. Quella affermazione contiene più verità di quante forse lo stesso compagno poteva sospettare. Ma denunciava anche alcuni vuoti di consapevolezza storica che devono essere colmati.
Vorrei idealmente parlare a quel compagno più giovane parlando della Rete dei Comunisti e del suo percorso storico, che con due opuscoletti di agile lettura abbiamo cercato di rendere esplicito a tutti, ossia con l’opuscolo “Approcciando la questione del metodo” (giugno 2018) e “Il lavoro teorico della Rete dei Comunisti” (aprile 2018).
Ripartiamo dall’affermazione. Innanzitutto è vero che tra la generazione dei ventenni e dei quarantenni c’è uno iato, una frattura.

Il giovane compagno non ha conosciuto l’esperienza politica “tradizionale” del partito di massa presente nelle istituzioni, nello specifico non ha conosciuto l’esperienza politica di Rifondazione Comunista. Ossia, non ha conosciuto quell’esperienza politica eclettica su cui si sono formati (o sformati) molti giovani compagni di allora, che cercavano uno spazio politico giovanile idealmente ribelle e “contro sistema”. O, meglio ancora, il giovane compagno non si è trovato a vivere quella “normalità” per cui un giovane di quel tipo trovasse “naturale” in qualche modo finire dentro Rifondazione. Oppure, su un versante completamente opposto, non si è trovato a vivere la “normale” condizione di andare a finire dentro a un centro sociale.
Insomma, queste erano le due prospettive possibili di massa di allora (si esclude la galassia delle formazioni comuniste di varia natura sparse su tutto il territorio nazionale ma di difficile decifrazione per un giovane alle prime armi, e comunque poco di massa). Anzi, spesso, al di là delle linee politiche, un giovane poteva tranquillamente finire dentro Rifondazione e passare poi a un centro sociale, sia come militante che come frequentatore di un ambiente politico “percepito” come vicino per quanto critico. Il tutto senza soluzione di continuità percepita (i “rafanielli” – cioè, come venivano scherniti, i “finti comunisti” di RC, – erano più imprevedibili del previsto).
Quelle due opzioni politiche di massa oggi non ci sono più (pur rimanendo in piedi sia quello stesso partito – più mille altri nella forma simili – che gli stessi centri sociali, ormai sempre più vittime di sgombero e le cui file si sono, ahinoi, assottigliate), ma avevano generalmente in comune una cosa: per quanto ognuno a suo modo, entrambi parlavano di comunismo.
Il giovane compagno che ci parlava, ci diceva anche indirettamente che era diventato comunista contro tutto e contro tutti, anche contro i nostri vent’anni di allora, e nonostante la fine di quei contenitori politici, in quanto contenitori di massa. Quel compagno, assieme a tanti altri, è una mosca bianca nella misura in cui si dichiara comunista, sia per età che per fase storica. Eppure per lui non è così. Per lui è normale essere comunista. O meglio, è diventato normale esserlo. Certo dimenticando o non sospettando, non percependo, che una volta c’era un popolo comunista, una cultura e un’identità che oggi – sembra assurdo dirlo, ma esistono le prove – sopravvivono, in forme completamente avulse dalla realtà, addirittura anche in alcune sezioni periferiche e popolari del Partito Democratico.
Oggi invece, un compagno che vuole diventare un militante ha diverse opzioni organizzative immediate, ma di cabotaggio ridotto: il centro sociale dopo il tempo dei centri sociali, il collettivo studentesco o politico (entrambi con diffusione esclusiva sul territorio locale), la piccola organizzazione comunista, fortemente identitaria (sia detto qui in senso assolutamente neutro, solo a titolo descrittivo), con i propri simboli, magari con riferimenti ai classici precisi, un forte senso di appartenenza. Non sono pochi i compagni e le compagne che sono passate da una parte all’altra.
In ogni caso, almeno di non essere sonoramente smentito, è difficile trovare giovani disposti ad entrare in massa in un’organizzazione politica tradizionale.
A quel compagno dell’anno zero il modello organizzativo comunista della Rete dei Comunisti risulterà invece inintelligibile, sia per la sua storia che per tradizione politica e culturale. Se si ha in mente il collettivo, il centro sociale o l’organizzazione identitaria, la RdC difficilmente verrà percepita come in sé attraente o come, più semplicemente, comprensibile.
Da una storia anomala: radicamento sociale e di classe
Partiamo da un dato storico: le compagne e i compagni che hanno dato vita alla RdC provengono da esperienze diverse, ma nessuno dalla realtà del PCI o del PRC. Vengono quasi tutti dalle realtà di lotta extraparlamentare e dal sindacalismo di base. La maggior parte proviene dall’OPR (Organizzazione Proletaria Romana), con forte radicamento sociale e politico nel territorio metropolitano e periferico romano. Per approfondire questi aspetti si consiglia la lettura snella di Una storia anomala. Dall’Organizzazione Proletaria Romana alla Rete dei Comunisti (2014), vol. 1 “Il conflitto di classe negli anni ‘70”.
Da quell’esperienza rimangono in vigore: un forte radicamento di classe (sia sociale che sindacale) e l’esigenza di una rappresentanza politica autonoma dei settori di classe organizzati, elementi sempre legati e mai dissociati, come purtroppo avverrà sempre più negli anni ’90 in poi.
I mutamenti intercorsi, invece, che hanno caratterizzato il contesto storico e, dunque, pratico-teorico in cui è avvenuta la nascita della Rete dei Comunisti sono: la fine del blocco socialista, il progressivo affievolirsi di un orizzonte socialista, il rifiuto alquanto acritico (sia dal punto di vista storico, politico e teorico) dell’eredità del movimento operaio internazionale (con la conseguente balcanizzazione teorica vissuta sia da Rifondazione comunista che dall’universo dei centri sociali) e, soprattutto, la fine dell’unità di quei tre fronti che avevano fatto la fortuna del PCI, ossi il fronte sindacale, politico e strategico, per cui un operaio era iscritto a un sindacato comunista, si sentiva rappresentato da un partito comunista e credeva in un orizzonte comunista.
La divaricazione dei tre fronti e l’esito “populista”.
Dalla fine degli anni ‘80 tutto questo non c’è più. Le varie organizzazioni sindacali, politiche e/o comuniste hanno lavorato solo su uno di questi fronti, a volte tentando indebite riunificazioni: il sindacato immediatamente politico, l’organizzazione comunista immediatamente sociale, l’organizzazione politica immediatamente rappresentativa di interessi di classe frammentati, spesso contraddittori e non organizzati.
Chi agli inizi degli anni ’90 pensava di fare come un tempo si è trovato cacciato in un angolo, al di là dell’eroica resistenza individuale o di gruppo, stretto tra il franare dell’opzione socialista e l’avanzare della propaganda liberista e della ristrutturazione produttiva. Il risultato fu che la riorganizzazione produttiva, cioè la sua destrutturazione organizzativa, territoriale e contrattuale ha letteralmente frammentato il soggetto di classe, il quale ha smesso progressivamente (specie nelle nuove generazioni) di considerarsi non solo comunista ma semplicemente vicino a un orizzonte diverso da quello capitalista, e ha pure smesso di lottare, dando vita a quella passività sociale che progressivamente si è imposta e che oggi ha dato vita a quelle forme di reazione (tutta politica, altro che antipolitica!) correntemente definita “populista”.
Ma ha anche disorientato le organizzazioni, le quali, nel tentativo di porre un argine al tutto, si sono spesso irrigidite su un aspetto solo della lotta dei tre fronti o addirittura non cogliendo nello specifico i mutamenti strutturali che il processo di valorizzazione capitalistica subiva nel mondo, sovrapponendo alla realtà o soluzioni immaginifiche (“fantasie prive di immaginazione” le avrebbe definite Marx) o perpetuando modelli interpretativi e, conseguentemente, organizzativi ormai destituiti di efficacia.
Risalire la china con metodo.
Il rischio di irrigidimento era per tutti presente (come forse è avvenuto, nelle forme, anche nei centri sociali e nelle organizzazioni più orientate alla salvaguardia dell’identità comunista), così come le soluzioni immaginifiche hanno intaccato più o meno tutte le organizzazioni o i soggetti che cercavano il nuovo a tutti i costi e si sono nutriti di “post-qualcosa”.
Sappiamo che una certa presunzione ci spinge a scrivere queste righe ed è certo difficile scacciare in chi legge queste parole un possibile sentimento di fastidio. Ma questo è una dato ineliminabile in ogni scelta politica che si scommette (non pascalianamente, però) essere valida.
Per questo, non possiamo non evidenziare che da questi pericoli, nel suo piccolo, la Rete dei comunisti ha sempre cercato di fuggire, facendo prima di tutto ricorso a un principio che ha permesso ai comunisti, nella loro storia, di essere efficaci e vincenti. Questo principio, riscontrabile in ogni sorta di marxismo definito originale (ma anche di un semplice pensiero politico incisivo), riguarda l’analisi dei processi generali e, da lì, la specificazione delle situazioni particolari. È questo quello che per noi è il metodo e che trascende i limiti del marxismo in senso stretto. Il metodo per noi è prima di tutto l’analisi della realtà secondo i suoi stessi principi, non secondo schemi interpretativi calati dall’alto. Metodo che esclude anche ogni soluzione “politicista”, cioè basata solo sul contingente e localmente delimitato quadro politico. Non confondere tattica con strategia, la fase (transitoria) con la tendenza generale, mutamenti superficiali con i cambiamenti epocali (quali nessun “post-” è riuscito a descrivere).
Per intenderci, non si poteva parlare di “fine del lavoro”, fine degli operai, fine delle organizzazioni tradizionali a favore di scelte “orizzontalistiche” (panacea di tutti i mali!), fine dell’imperialismo per l’adozione del concetto di “impero”, fine della teoria del valore e della centralità della produzione, ecc. (soluzioni immaginifiche, per l’appunto).
Si doveva invece partire dall’analisi del sempre vigente modo di produzione capitalistico (MPC), verificarne la sua organizzazione specifica e la sua configurazione geografica (i “capitalismi” sono infatti la storia effettuale e la geografia del MPC), verificarne le tendenze e le possibili configurazioni (la caduta tendenziale del saggio di profitto, la conseguente competizione globale, il nuovo assetto degli imperialismi, la nascita dell’UE come polo imperialista in costruzione, ecc.), descrivere la nuova condizione di classe con l’inchiesta (sociale, sindacale e metropolitana), ragionare sulle forme organizzative adeguate (la politica dei tre fronti), riflettere sulle possibili (perché praticabili in tempi non biblici) fuoriuscite dai capitalismi per dare vita a forme di transizioni al socialismo (per noi è stata ed è ancora valida l’ipotesi di un’ALBA a casa nostra), avviando processi rivoluzionari e popolari di trasformazione economica e politica.
Un’organizzazione “una e trina”.
Ecco, come questo fulmineo quadro descrittivo ha cercato di sintetizzare, la Rete dei Comunisti ha inteso lavorare, in una quadro generale del MPC effettivamente mutato al livello mondiale, praticando un lavoro sui tre fronti (orizzonte comunista, orizzonte politico, orizzonte sociale-sindacale) che tenesse conto dei processi storici ed economici sopraggiunti, ma che lavorasse al mantenimento di un discorso comunista adeguato all’altezza dei nostri tempi e dei nostri compiti e rivisitasse (senza revisionismo in senso becero, ma neanche senza rigidità) la cassetta degli attrezzi teorici; che, in seguito all’inchiesta di classe, praticasse forme nuove di lotta sociale ma sempre radicate nella classe (dal sindacalismo di base a quello modernamente confederale e metropolitano, per giungere alla formalizzazione della Federazione del Sociale); che si preoccupasse di creare una rappresentanza politica di classe (piattaforme unitarie) su rivendicazione sociali che negli anni non hanno mai smesso di esistere, per quanto frammentari, il tutto in completa autonomia dal Centro-sinistra e dal compatibilismo politico e sindacale.
Il tipo di organizzazione messo in piedi dalla Rete dei Comunisti ha, cioè, cercato (nei suoi limiti numerico-quantitativo-qualitativi) di affrontare i cambiamenti intercorsi, di dare vita all’organizzazione di classe e al conflitto di classe, a mantenere in piedi un’opzione comunista, creando quella forma storica e perciò contingente di militante che abbiamo definito “quadro con funzione di massa”, un quadro che crea organizzazione in prima persona stando a contatto con i settori di classe di riferimento, che riflette su come adeguare l’organizzazione alla nuova realtà (storiche, produttive, di coscienza, ecc.), che si interroga sui cambiamenti in corso. Per questo motivo lo studio (gramscianamente inteso) è sempre parte del nostro lavoro di organizzazione, e non soltanto come parte di un gruppo ristretto separato dalla “pratica”.
L’organizzazione è “una e trina” e il militante ha (o dovrebbe avere) sempre questo atteggiamento e questa forma mentis tripartita ma unitaria, sapendo che la tendenza all’unione dei tre fronti è data non da spinte volontaristiche, ma da processi oggettivi reali, ma sapendo anche che senza quella volontà e determinazione di costruzione di organizzazione, di conflitto e di prospettiva, il riavvicinamento dei tre fronti non ha possibilità di configurarsi immediatamente e spontaneamente come rivoluzionario.

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