sabato 25 agosto 2018

Potere al popolo, la via di sinistra al populismo: ecco come il movimento vuole crescere .

Nei sondaggi supera Grasso, D’Alema 
e Fratoianni. Attira 
i giovani su lavoro 
e sfratti. Ma per molti resta un oggetto sconosciuto: 
chi sono, cosa vogliono. E come si dividono.

Potere al popolo, la via di sinistra al populismo: ecco come il movimento vuole crescere Popolo. Non classe «categoria rigorosa ma lontana dal sentire comune, dalla comunicazione di oggi». Non proletariato, «le persone non ci si riconoscono più». Neppure sinistra, «termine reso evanescente da chi ha tradito princìpi come il lavoro, la redistribuzione della ricchezza, i bisogni delle persone».

Così Matteo Giardiello, un esame alla laurea in Relazioni internazionali all’Orientale di Napoli, tecnico di teatro, una delle voci di Potere al popolo. Se non è tabula rasa, poco ci manca: tocca ricredersi, se si ha in mente l’ennesima riedizione della recita d’una estrema sinistra ontologicamente polverizzata come nello sketch in cui Guzzanti-Bertinotti invitava la gauche a dividersi fino a diventare invisibili per attaccare il potere al modo letale delle zanzare.


No, questi vogliono fare l’esatto contrario. Inventarsi un soggetto politico tutto nuovo, lo battezzino partito o movimento. Altra cosa sia dalle vecchie formazioni che in quell’area si disputano lo zero virgola, benché dentro abbiano Sinistra anticapitalista, Rete dei comunisti e con qualche distinguo Rifondazione, sia dai centri sociali, da cui pure nascono all’ex Ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli. Senza sessantottardi mal di pancia extraparlamentari, si sono presentati alle politiche del 4 marzo e ora si attrezzano per le europee 2019 e le annesse amministrative in cinque regioni e svariati capoluoghi, per dar battaglia a destra, Lega, Pd, ovvio, ma anche a quei Cinque stelle, giudicati ormai «un soggetto di destra», che alcuni di loro avevano votato e dove qualcuno aveva pure militato.

Crescono nei sondaggi: Swg li dà al 2,5 per cento, ormai sopra Liberi e uguali. Aprono sedi ovunque, al momento un po’ più di duecento. Legano gruppi e collettivi e rimettono in pista persone che la militanza l’avevano abbandonata sfiduciate e deluse.

Hanno lanciato una campagna di adesioni, nominato una cinquina di garanti come la storica no-Tav Nicoletta Dosio e l’anglista fiorentina Ornella De Zordo, arruolato l’ex-leader della Fiom Giorgio Cremaschi e legato a loro il politicamente vagabondo sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Primo appuntamento, il campeggio di Potere al popolo a Marina di Grosseto dal 23 al 26 agosto, poi ai primi di ottobre un’assemblea plenaria eleggerà gli organi dirigenti: «Pensiamo a un coordinamento nazionale di una cinquantina di persone, un responsabile per ogni settore, un portavoce, gruppi di comunicazione».

Condizione di “stato nascente”: si vedrà se questa nebulosa in rotazione si condenserà in un pianeta politico con tutti i crismi o si disperderà in una nuvola gassosa. Alcuni nodi andranno però sciolti quanto prima: Rifondazione è organicamente dentro Potere al popolo ma mantiene le sue strutture e sedi autonome perché, argomentano, «la nostra è una storia importante, non è giusto liquidarla» e «in un movimento composito va tenuta salda un’area che si rifaccia esplicitamente al comunismo e al marxismo». Una corrente bell’e pronta, frazionismo preventivo, entrismo d’antan? Il refrain è che la questione non l’hanno ancora affrontata, ma per le europee dovranno decidere a che greco giocare: Rifondazione è propensa a restare sul carro di Tsipras e della sua lista, gli altri sono già sull’arca di Varoufakis, che da Tsipras si è staccato in patria e prepara la sua lista europea insieme a Podemos e alla banda Mélenchon di France Insoumise. Che sono i naturali riferimenti dell’avventura iniziata dieci mesi fa.

IN PRINCIPIO ERA UN FESTIVAL
Potere al popolo! all’ex-Opg Je so’ pazzo di Napoli, quattro giorni nel settembre scorso, con L’Orchestra multietnica, Maldestro che è stato pure a Sanremo, la braciata e il Teatro popolare, un’interminabile assemblea con una quarantina di collettivi e centri sociali venuti da ogni dove e tavoli che manco alla renziana Leopolda su lavoro, migranti, scuola, ambiente, mutualismo. Così, quando un mese dopo al Teatro Brancaccio di Roma fallisce pietosamente l’ultimo tentativo di cucire insieme le residue animucce d’estrema sinistra, loro dell’ex-Opg mettono in rete un video: pare una recita all’oratorio con gruppone sul palco e le due ragazze Rosa Sica e Chiara Capretti che lanciano un appello, linguaggio semplice, diretto, persino ingenuo: «Abbiamo improvvisamente realizzato che a marzo si andrà a votare e se nessuna forza politica rappresenta i bisogni della maggioranza del popolo perché non provare a farlo noi?». E poi a che serve la politica se non a «ricostruire comunità, farci uscire dalla solitudine, ritrovare l’entusiasmo che le cose possono cambiare da subito»? In chiusa, né Lenin né il Che ma uno Shakespeare da Attimo fuggente: “Oh gentiluomini, il tempo della vita è breve! Se viviamo è per camminare sulla testa dei Re”.

Tocca le corde giuste. Funziona. Si scatenano commenti, proposte, adesioni, diteci quando e dove. In mille arrivano il 18 novembre a Roma al Teatro Italia, e un mese dopo all’Ambra Jovinelli nasce ufficialmente la nuova formazione: il nome è già pronto, quello del festival con tanto di punto esclamativo, l’obbiettivo è presentarsi alle elezioni, il programma «verrà discusso in ogni singola assemblea territoriale», versione definitiva a gennaio. Non è che tutto fila liscio: c’è maretta sull’opposizione al 41 bis, e sul no all’Unione europea si arriva a un compromesso generico, mica puoi scimmiottare la Lega.

È a quell’assemblea fondativa che emerge come portavoce Viola Carofalo: scelta, raccontano, anche perché assomma in sé i parametri chiave dell’esser donna, precaria e del sud, i galloni la ricercatrice se li guadagnerà sul campo, nelle piazze e in tv, con quei suoi modi composti ma netti, chiarezza d’eloquio e una vena d’ironia. Leader per caso, lo diventa per meriti: non la facesse saltare sulla sedia, vien da dire come ai tempi un Bettino Craxi.


Specie al Nord c’è, buon per loro, la struttura di Rifondazione a raccogliere le firme, e pazienza se qualcuno storce il naso per una propaganda elettorale poco ortodossa, meme bizzarri su Instagram, cultura di massa e sprazzi Dada. Il 4 marzo raggranellano 370 mila voti, 1,19 per cento, quasi il 3 a Napoli dove uno dei loro candidati è Geppino Aragni di Dema, la formazione di De Magistris che con l’ex-Opg flirta da tempo. Non esaltante, ma il brand è appena nato, «per l’intera campagna elettorale abbiamo speso appena 38 mila euro e, spazi riservati Rai a parte, sommando tutte le reti Viola è comparsa per soli 35 minuti». A urne chiuse, invece di finire in frantumi come l’appiccicaticcio agglomerato di Liberi e uguali, li ritroviamo ben determinati a diventare il Podemos italiano.

PRAGMATICI E SOGNATORI
«Non siamo un partito di opinione. Ogni assemblea locale è non solo sede politica ma luogo di attività sociali». Napoli, ex Ospedale psichiatrico giudiziario chiuso nel 2008 e occupato nel 2015, il cinquecentesco monastero di Sant’Eframo, la chiesa sconsacrata dove ora alloggiano una ventina di senzatetto, tre grandi chiostri e i lunghi padiglioni a stecca dove dal ’25 rinchiudevano i pazzi criminali: qui è il quartier generale di Potere al popolo.

Nella bassa stanza accanto ai cortili dell’ora d’aria, ogni lunedì dalle otto di sera a mezzanotte una novantina di persone fanno il punto sulle attività in corso, stendono piani e programmi, affrontano le decisioni pratiche, ieri del centro sociale, oggi anche del nuovo movimento popolare nazionale. Per storie personali e collettive, nessuno di loro si perde in diatribe teoriche veterosinistre né in fantasie sulla post-democrazia digitale à la Casaleggio. Ti mostrano invece che cosa fanno, questo è ciò che siamo, così intendiamo la politica, l’impegno, nella mischia, nel quotidiano, in mezzo alle vertenze, usando con pragmatismo tutti gli strumenti.

Federica ha 29 anni, insegna inglese, è la referente della loro Camera popolare del lavoro, sportello legale «per vertenze sindacali che diventano lotte politiche», è partita da una denuncia delle giovani guide senza contratto di Napoli sotterranea e ha montato una campagna contro il lavoro nero estesa a tutta la città, coinvolgendo gli ispettori del lavoro: controllo popolare, lo chiamano. Lo stesso che Ermanna, Salvatore e il Gruppo migranti praticano nelle strutture d’accoglienza, con visite a sorpresa, assemblee, denunce contro chi lucra.

All’ambulatorio popolare, ogni pomeriggio dal lunedì al giovedì, con medici volontari e primari in pensione, arrivano non solo gli esclusi «ma anche commercianti e piccola borghesia disorientata da burocrazia e tagli alla sanità», racconta Novella, 32 anni, come molte qua studentessa, precaria, attivista.

«Non siamo un partito d’opinione» significa anche che non hanno nessuna intenzione di accodarsi «alla politica dei clic dei Cinque stelle», dice Beniamino Simioli. Lui, sulla base di LiquidFeedback del Partito pirata tedesco, sta approntando la nuova piattaforma digitale per le adesioni a Potere al popolo, il dibattito in Rete, in voto online, ancora non si sa se anonimo o palese, e un minimo di finanziamento, sui 10 euro a testa. Al momento, per la cronaca, la loro newsletter gira ancora su Gmail. Con i Cinque stelle non se la giocheranno solo su web e clic. Avendo rastrellato il grosso della protesta, sono loro la prima riserva di voti da riportare a sinistra. Tanto più ora che governano con la Lega. E tanto meglio nelle città dove da quasi un lustro già sono inciampati nella realpolitik dell’amministrazione.

CACCIA AL VOTO 5 STELLE
«Non disdegno un sano populismo di sinistra, combattivo e determinato quanto serve»: così Giovanni Ceraolo, 36 anni, laurea in Scienza della finanza, tattoo “Je ne regrette rien”, facchino precario al Teatro Goldoni di Livorno, funzionario e nel coordinamento nazionale del sindacato di base Usb, il 4 marzo capolista alla Camera. Ha solide basi, Potere al popolo, qui a Livorno, città dove tutto succede prima, dalla nascita del Pci nel 1921 alla sconfitta del Pd quattr’anni fa ad opera del grillino Filippo Nogarin, al ballottaggio appoggiato dall’estrema sinistra con grandi speranze. Presto deluse. E sono cominciate le defezioni. Fuori il consigliere comunale Giuseppe Grillotti, «dopo l’improvvisa giravolta di Nogarin sul piano regolatore portuale, un mostro di cemento da 1,4 milioni di metri quadri, e il concordato sulla partecipata dei rifiuti, operazione gestita dal Lanzalone che verrà arrestato per lo stadio di Roma». Ira funesta di Arianna Benedetti, educatrice in cooperativa sociale, ora che i pentastellati le vogliono smantellare gli Orti urbani «per restituire i terreni alla Clc, ultima storica cooperativa rossa. Come può ancora votare gente così, uno di sinistra?»

La sede provvisoria è lussuosa, fra stucchi e affreschi nel salone al piano nobile dell’ottocentesco Palazzo Maurogordato, ex-Enel, occupato tre anni fa, venti famiglie ben sistemate nei due ultimi piani. In assemblea incontri insegnanti alla primaria, la metalmeccanica senza più lavoro dopo che metà industrie hanno chiuso o delocalizzato, l’ex-libraia riciclata come operatrice socio-sanitaria, la studentessa con la t-shirt curda Kobane, il docente al tecnico che non aveva mai fatto politica, il Francesco Renda segretario di Rifondazione.

L’immigrazione, ti dicono, «è questione centrale ma non alla maniera umanitaria e caritatevole di certa sinistra, e comunque prima vengono il lavoro, la lotta alla precarietà anche con picchetti davanti a pseudo agenzie di lavoro interinale, la guerra agli sfratti». A primavera qua si vota per il Comune, e loro puntano ad arrivare al ballottaggio in coalizione con la lista Buongiorno Livorno, che il giro scorso prese il 16 per cento, e forse Sinistra italiana: pragmatici, aperti a tessere alleanze, senza pregiudiziali con tutto quello che c’è in una città straricca di circoli Arci, case del popolo, gruppi, collettivi, occupazioni e quant’altro. Tutto un fermento, qui come altrove la cifra di Potere al popolo. Resta da capire: con quale orizzonte, al di là del movimentismo? Con che riferimenti? Per andare a parare dove?

LA CLASSE NON È ACQUA
Ai tempi, “ribellismo” era una parolaccia: James Dean invece di Marx e Mao, piccoli borghesi allo sbando invece di operai con la loro brava coscienza di classe, l’avanguardia, il partito. E i “precari”, lavoratori a spizzichi e bocconi, erano inaffidabile Lumpenproletariat, mica l’organizzata classe che nel suo essere stesso prefigurava l’ordinata felice società comunista. Ma ora che dispersione e frammentazione segnano la struttura sociale e la vita degli individui, “ognuno a rincorrere i suoi guai, ognuno perso dentro i fatti suoi”? «I miei genitori sono operai, io faccio la cuoca, dirigo una cucina con una paga da apprendista, meno di un operaio, cosa dovrei sentirmi, classe terziaria? Ognuno di noi ha bisogni diversi, non come in fabbrica le otto ore e le pause per tutti. Ma se siamo qui è perché pensiamo che le soluzioni per te le trovi con gli altri, con voi». Lei è Giulia Della Piana, 25 anni, e questa non è Napoli né Livorno ma Alba, cuore delle Langhe, tartufo, Ferrero, vini doc, Dc forever al momento in abito Pd.

Affittata la sede dal primo settembre, per ora le riunioni si tengono da Ezio Zubbini, settantanovenne in guerra per difendere casa sua dal Comune che gliela vuole espropriare, presidente del neonato Laboratorio sociale che qui mette insieme le varie anime di Potere al popolo: il gruppo sparso di chi non militava da nessuna parte, gli storici di Rifondazione, Cinema Vekkio con Giorgio Crana detto il rosso, consigliere nazionale Arci, uno degli organizzatori del festival Collisioni sponsor la Fondazione San Paolo, contraddizioni in seno (a Potere) al popolo; gli anticapitalisti di Officine, sede in una parrocchia, contraddizioni in seno alla gerarchia ecclesiale; più, esterno al partito, il collettivo Mononoke, nome della principessa del film di Miyazaki, collettivo musicale e anarcheggiante, contraddizione con Rifondazione, Lenin e i manga non è che viaggino proprio sulla stessa onda. Bene così, unità nella diversità. In due ore di discussioni ascolti i rimandi più disparati: il Gandhi di «Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo», il “confederalismo democratico curdo”, la Shangri-la andalusa di Marinaleda, tutto di proprietà cooperativa, niente polizia, 47 euro al dì di salario che tu sia medico, spazzino o contadino. Non sarà la presa del Palazzo d’Inverno, ma oggi questo passa il convento internazionalista.

Però. Archiviata la rivoluzione, il “che fare” della rivolta in qualche modo si risolve, d’ingiustizie è pieno il mondo, di disastri il paese. Ma giubilata anche “la” classe, chi diavolo sono i soggetti delle lotte che dovrebbero ribaltare sfruttamento, neoliberismo, precarizzazione, impoverimento e logica di guerra? «I migranti, sfruttati più di chiunque altro e più consapevoli delle classi povere italiane plagiate dalla disinformazione», azzardano Elia e Federico, ma suona bislacco anche a loro affidare il mondo nuovo ai sans papiers contro gli operai che votano Lega. Gli studenti, «ma sono una classe?», dubita Maddalena. Precari e disoccupati d’ogni tipo, ipotizzano Emanuel e Anais, «perché automazione e neoliberismo hanno depauperato il lavoro e smembrato il fronte delle rivendicazioni»: ma precari e senza lavoro non hanno in comune che la società dell’incertezza.

Il «sano populismo di sinistra» ha ancora qualche corposo inciampo da superare.

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