martedì 28 agosto 2018

Banca d’Italia-Tesoro: il divorzio più caro della storia d’Italia

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In soli quindici anni dal suo avvio è costato agli italiani oltre mille miliardi di euro, per poi continuare a gravare sulla nostra economia fino a soffocarla: è il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, avvenuto nel 1981 per volere dell’allora ministro Beniamino Andreatta.
Con un atto quasi univoco, cioè una semplice corrispondenza epistolare con l’allora Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, Andreatta mise fine alla possibilità del governo di finanziare monetariamente il disavanzo. Venne infatti rimosso l’obbligo vigente da parte di Palazzo Koch di acquistare i Titoli di Stato emessi sul mercato primario (cioè quelli collocati mensilmente dal Tesoro), che aveva consentito fino ad allora al nostro Paese di tenere sotto controllo il debito pubblico.
Perso questo strumento di sovranità monetaria, anticipando quanto sarebbe avvenuto successivamente con l’ingresso nell’Unione Monetaria, l’Italia per finanziare la propria spesa dovette iniziare ad attingere ai mercati finanziari privati, con tassi d’interesse di tutt’altra entità rispetto a quelli garantiti in precedenza.

Gli effetti furono immediati: sempre ragionando in euro i 142 miliardi di debito del 1981 (58% del Pil) dopo tre anni erano raddoppiati; dopo quattro, triplicati (429 miliardi), superando quota 1000 nel 1994, pari al 121% del Pil.
Ma cosa spinse Andreatta a questa scellerata decisione? Come raccontò lui stesso dieci anni dopo in una lettera pubblicata sul Sole 24 Ore, questo stravolgimento strutturale era necessario per salvaguardare i rapporti tra Unione Europea e Italia. Ad essere in pericolo era infatti la partecipazione del nostro Paese all’interno dello Sme, ossia l’accordo precursore del sistema Euro, basato sulla parità di cambio prefissata tra i Paesi europei aderenti, seppur con una possibilità di fluttuazione minima: “L’imperativo – spiegò l’ex ministro – era cambiare il regime della politica economica e lo dovevo fare in una compagine ministeriale in cui non avevo alleati, ma colleghi ossessionati dall’ ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi tassi di interesse reali e da un cambio debole”. Pare dunque evidente che sia Andreatta che Ciampi abbiano agito non nel rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, bensì eseguendo ordini sovranazionali di indicibile matrice.
Il nemico da abbattere, nell’ottica di Andreatta, era quindi l’inflazione e gli stessi strumenti economici adatti a contenerla: dalla flessibilità di cambio, che con gli accordi europei sarebbe stata definitivamente abolita, ai meccanismi di adeguamento salariale, come la scala mobile, il cui rafforzamento è definito dallo stesso Andreatta come “demenziale”. Peccato che il titolare di via XX Settembre ignorasse i benefici evidenti e riconosciuti dal mondo economico che un tasso di inflazione elevato riflette sul debito pubblico, in quanto capace di ridurne il valore in termini reali!
Ad aggravare la situazione ci pensarono i nostri politici nel 1992 quando decisero di aderire al Trattato di Maastricht, che imponeva alla nostra economia il rispetto di parametri- capestro, tra i quali proprio la contrazione del debito pubblico. Questo diverrà lo spauracchio in grado di giustificare le politiche dissennate di privatizzazioni e svendita a capitali privati e stranieri di asset pubblici strategici, avvenuta proprio in quei decenni: tutto ciò rappresenta – occorre sottolinearlo – un tradimento della Costituzione.
Il colpo di grazia sarà l’introduzione dell’Euro: senza una banca centrale che funga da prestatrice illimitata di ultima istanza – la BCE per suo statuto, non lo è -, l’Italia si è sottomessa ai diktat di Bruxelles, che impongono autisticamente una folle politica di austerity fatta di tagli alle voci di spesa pubblica più sensibili (sanità, istruzione e pensioni), aumento della tassazione e inasprimento dei sistemi di accertamento fiscale. Ma le lacrime e il sangue degli italiani non possono bastare a risanare un debito pubblico che, tramite la capitalizzazione degli interessi, erode l’attivo di bilancio e deprime ogni possibilità di ritorno alla crescita.
Malgrado la fama di paese amante della spesa sconsiderata, che vive al disopra delle proprie possibilità, sin dagli inizi degli anni Novanta l’Italia continua a generare avanzo primario. Critiche e accuse deviano l’opinione pubblica dal vero problema -costituito dalla moneta unica, dal divorzio Bankitalia-Tesoro e dai parametri europei – proponendo uno specchietto per le allodole costruito sulla triade “casta/cricca/corruzione”. Così gli economisti di regime omettono di dire che il deficit annuale sul quale l’Italia viene costantemente bacchettata dai burocrati di Bruxelles è dovuto agli interessi passivi, e nulla c’entrano la spesa pubblica (inferiore a quella francese, ad esempio) e la corruzione.

(Ilaria Bifarini e Giuseppe Palma su La Verità, febbraio 2017)

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