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giovedì 30 agosto 2018
Senza gli immigrati saremmo perduti I mestieri che gli italiani non fanno più
�Gli immigrati sono poco pi� del 6 per cento della popolazione e producono circa il 10 per cento del pil. Di fatto, ci pagano la pensione�. (Franco Pittau, coordinatore del Rapporto Caritas Migrantes). Sfruttati, maltrattati, criminalizzati. E tuttavia indispensabili. E’ in libreria Grazie. Ecco perché senza gli immigrati saremmo perduti di Riccardo Staglianò (Chiarelettere, pagine 232, euro 14,60). Dai raccoglitori di mele senegalesi della Val di Non, ai conciatori di pelli nigeriani del Veneto. Dai facchini indiani di Reggio Emilia, ai sikh che allevano le bufale in Campania. Dai pescatori tunisini di Mazara del Vallo, ai camionisti albanesi e romeni. Dalle cave, alle corsie degli ospedali, alla cura dei nostri vecchi e dei nostri bambini. Gli immigrati non vengono a rubarci il lavoro ma a fare i mestieri che noi rifiutiamo. Basta raccontare una giornata di lavoro in Italia per verificare che cosa realmente succede. Da nord a sud. Pubblichiamo l’introduzione del libro
di Riccardo Staglianò
Non è un bel periodo per essere immigrati in Italia. Sono i primi a pagare il prezzo della crisi, lasciati a casa da un giorno all'altro senza alcuna formalità. Ma anche quando lavorano guadagnano in media un terzo in meno di noi. E poi sono ossessionati dal permesso di soggiorno che, anche quando tutti i documenti sono in regola, arriva in tempi così imprevedibili da sfiorare l'arbitrio. Per non dire che quando scade si trasformano in clandestini, condizione su cui abbiamo inventato un reato, ovvero dei pariah, ricattabili in tutto. Essendo nel torto per definizione non chiedono di essere pagati decentemente, né vanno a curarsi quando stanno male e rinunciano a ogni minimo sindacale di umanità. Insomma, si respira una brutta aria e non si scorgono segni di miglioramento.
L'ideologia più ottusa intossica il discorso pubblico. Un esempio particolarmente rivelatore di questo clima adulterato riguarda l'ultimo Ambrogino d'Oro, ovvero il più prestigioso riconoscimento milanese a chi si è distinto per valore e civismo. Quest'anno è stato dato, tra gli altri, al Nucleo di tutela trasporto pubblico dell'Atm, Azienda Trasporti Milanesi. Quelle squadre di super-controllori con licenza di sequestro che per un breve periodo hanno rastrellato e rinchiuso in una specie di bus-prigione i presunti clandestini beccati senza biglietto. «Esponendoli alla curiosità dei passanti come animali allo zoo», nelle parole sconcertate dello stesso consigliere comunale del Pdl Aldo Brandirali. Ecco, mi sono detto, se siamo arrivati a un punto in cui invece di inorridire si premia in pompa magna un caso di cattiveria così gratuita la situazione è davvero grave.
Significa che la fabbrica della paura ha lavorato a pieno regime e l'intorbidimento delle acque ha superato una soglia critica. Un punto, insomma, in cui è diventato urgente mettere in fila i fatti. Perché l'incomunicabilità tra sinistra e destra su questo tema deriva proprio dall'utilizzo di due registri incompatibili. La prima fa appello all'empatia, la capacità di mettersi nei panni altrui. La seconda invece parla di identità nazionale a rischio, di posti di lavoro usurpati, di criminalità d'importazione. Ma l'empatia, come il coraggio di Don Abbondio, se uno non ce l'ha non se la può dare. Mentre la paura è una dotazione di serie di ogni essere umano e non risparmia neppure i progressisti, soprattutto quando si trovano in difficoltà. Se poi la congiuntura è calamitosa, come quella che viviamo, con il naufragio della classe media, la scomparsa del posto fisso e le infinite altre precarizzazioni tipiche della «società del rischio», l'upgrade della paura in terrore non deve sorprendere. Quando sei nel panico non capisci più niente e tutto si confonde. Al punto che il bus-ludibrio milanese non si rivela per l'obbrobrio che è ma come trovata meritevole di medaglie.
Lo scopo immodesto di questo libro è di contribuire a superare le secche in cui si dibatte la politica in tema di immigrazione. Non proverò neanche a convincere qualcuno cui non viene già spontaneo che un nero, un giallo, un olivastro va trattato bene in quanto essere umano. Non parlerò quindi tanto al cuore del lettore, quanto al suo portafogli. E per farlo descriverò, molto prosaicamente, come e quanto gli immigrati contribuiscono al nostro attuale tenore di vita. Quali lavori fanno che noi non vogliamo più fare. Per arrivare a immaginare come staremmo se di colpo non ci fossero più. O soltanto si fermassero in uno sciopero generale.
Tre argomenti del perché gli immigrati sono indispensabili e danno molto più di quanto prendono. E allora qualche fatto. Il primo argomento è demografico. Nell'estate del 2007 economisti e specialisti da tutto il mondo si sono incontrati al Munich Economic Summit e hanno ribadito, senza tanti giri di parole, che l'Europa è in riserva di giovani. O fa entrare più immigrati (oltre ad alzare l'età pensionabile, ridurre il welfare, etc) oppure la sua popolazione, che vive sempre più a lungo e si riproduce sempre meno, farà saltare i sistemi previdenziali e le finanze publiche al più tardi nel 2050.
Tra tutti i paesi membri l'Italia era e resta quella messa peggio, perché lo scarto tra popolazione attiva e anziani è già il più alto. Se anche agli altri servono lavoratori stranieri, per noi questo bisogno è più urgente. D'altronde il medesimo allarme viene lanciato ormai a intervalli regolari, con toni sempre più drammatici con il passare del tempo. Nel '94 era stato il nostro Cnr a parlare di «rischio estinzione» se non avessimo allargato i cancelli per gli immigrati, passando dai 50 mila all'anno di allora ad almeno 300 mila. Anche su questo punto specifico, il divario decisivo non è tra destra e sinistra ma tra negazionisti e occhiapertisti. Sentite cosa dice l'ex ministro dell'Interno berlusconiano Giuseppe Pisanu su La Civiltà Cattolica: «Siamo in pieno declino demografico e quindi anche economico e politico. Soltanto gli immigrati potranno salvarci. I numeri ci dicono che il futuro benessere degli italiani dipenderà dalla capacità di attrarre e integrare 300 mila lavoratori stranieri all'anno». Il decreto flussi, quello che fissa la quantità di manodopera estera di cui abbiamo bisogno, nel 2008 ne prevedeva invece 170 mila. Ai quali vanno aggiunti i clandestini. Al primo gennaio 2009, stando all'ultimo Rapporto sulle migrazioni della Fondazione Ismu, erano 422 mila, diminuiti di oltre un terzo rispetto all'anno prima (il totale dei regolari raggiungerebbe quota 4,8 milioni di persone). Ma quella di clandestino è una qualità che non esiste in natura. Sono leggi difettose a renderli tali e a consegnarli al lavoro nero che è consustanziale a quell'etichetta. Norme che vanno cambiate per trasformarli in lavoratori in regola che pagano le tasse. Noi invece, incuranti di tutti gli sos, ci siamo inventati in rapida successione i respingimenti e il reato di clandestinità.
Il secondo argomento è di natura fiscale. «Non possiamo permetterci tutta questa gente che pesa sui conti pubblici» è una delle frasi più gettonate nelle conversazioni politiche da bar. Le cose stanno in modo piuttosto diverso. Secondo le stime Caritas Migrantes, infatti, quando gli immigrati regolari erano ancora 4 milioni pagavano tasse per 5,8 miliardi di euro e usufruivano di servizi pubblici pari a circa 700 milioni di euro. L'approssimazione è necessaria per quanto riguarda la seconda voce. Quel che è certo, infatti, è che i comuni hanno speso nel 2005 136 milioni di euro per servizi dedicati agli immigrati. Per il resto, spiega il coordinatore del rapporto Franco Pittau, «gli immigrati sono poco più del 6 per cento della popolazione e producono circa il 10 per cento del Pil. Anche assumendo, per stare larghi ed evitare critiche, che fossero il triplo, l'ammontare delle risorse spese dallo Stato per loro arriverebbe alla cifra che abbiamo ipotizzato». Se non si sbagliano, e da tempo sono la fonte più autorevole in materia di immigrazione, dando 5,8 e prendendo 0,7, il saldo attivo per il nostro paese sarebbe di poco superiore a 5 miliardi di euro. Per calare dalla metafisica dei numeri alla realtà della politica, basti pensare che la famigerata abolizione dell'Ici, per certi commentatori vero ingrediente magico nella vittoria del centrodestra, ne è costata «soltanto» 2. Quindi, di fatto, «ci» pagano la pensione. La pagano a noi, compresi i sessantenni folcloristicamente xenofobi che strepitano dal calduccio del loro salotto, perché loro sono più giovani (31 anni di media contro i nostri 45) e, a fronte di due milioni di lavoratori stranieri che versano contributi all'Inps, solo 6 mila ne percepiscono una. E anche perché, dal momento che in molti rientreranno in patria a un certo punto, grazie a una legge punitiva quando ciò succederà perderanno una parte cospicua dei soldi accantonati.
Il terzo argomento riguarda l'occupazione. «Vengono a rubarci il lavoro», è il refrain standard. La risposta la affidiamo a quei notori comunisti e terzomondisti dell'ufficio studi della Banca d'Italia. Che nell'ultimo rapporto sulle economie regionali hanno spiegato che non c'è sovrapposizione tra le mansioni degli uni e degli altri. Non è, insomma, un gioco a somma zero. E anzi più immigrati che vanno a riempire le caselle basse della piramide professionale (operai e tecnici) aprono più opportunità per gli italiani di ascendere a incarichi gestionali e amministrativi, meno faticosi e meglio pagati. Per non dire delle donne che, esentate dalle incombenze domestiche da colf e badanti, possono finalmente aspirare a una carriera più paritaria rispetto agli uomini. «Una colossale balla» è stata la serena, riflettuta e indimostrata stroncatura dell'eurodeputato leghista Mario Borghezio. Mentre il capogruppo del Pdl Maurizio Gasparri, non si capisce bene sulla scorta di quali superiori credenziali accademiche, ha liquidato lo studio come «a bassa attendibilità». Evidentemente ignaro che, più o meno negli stessi giorni, in quell'altro covo di bolscevichi che sono gli Stati Uniti, era uscito uno studio per calcolare il medesimo impatto. «Il saldo sulle famiglie americane di politiche immigratorie più restrittive» avevano scritto gli autorevoli economisti Maureen Rimmer e Peter Dixon, «è senza dubbio negativo». I due ricercatori, che spiegavano come anche i lavoratori meno qualificati allargassero la torta economica e liberassero lavori più qualificati per gli autoctoni, quantificavano in 250 miliardi di dollari la ricaduta economica tra la più aperta delle porte e la più chiusa nei confronti dei migranti. E neanche al più pittoresco repubblicano del Texas era venuto in mente di ridicolizzarne il risultato, tanto più che il committente era il Cato Institute, un celebre think tank conservatore.
Questi argomenti hanno il vantaggio della scientificità e lo svantaggio dell'astrazione. Riguardano categorie generali (popolazione, tassazione, occupazione) che uno capisce bene con la testa ma sente meno con la pancia. E invece è importante arrivare anche lì, perché a quel punto la comprensione diventa totale e la memoria indelebile. La macroeconomia deve quindi diventare micro, la Storia declinarsi in storie. Come quelle ventiquattro che stanno per iniziare e raccontano ognuna un settore della società che, senza gli immigrati, si fermerebbe o entrerebbe in crisi. Per un'inesorabile calcolo matematico: in questi comparti gli stranieri sono il 50, 70, 90 per cento della forza lavoro totale. Ma anche quando la percentuale è minore la loro presenza è così determinante in certe mansioni che tolti loro andrebbe giù tutto.
Così in Trentino ho incontrato i senegalesi che raccolgono le mele nella Val di Non e fanno inumidire d'orgoglio, per la loro inedita dedizione, gli occhi dei montanari. In Veneto i giganti nigerini che scarnificano tappeti di carne destinati alla concia di giubbetti da vendere a Hollywood. In Emilia Romagna i maghrebini che puliscono, con paghe e tempi sempre più ridotti, gli uffici e le scuole dei nostri bambini. In Campania i sikh che fanno l'alba con le bufale e passano il resto del giorno pattinando sul loro letame per regalarci mozzarelle da esportazione. In Sicilia i pescatori tunisini senza i quali la flotta di Mazara del Vallo, che da sola fa un quarto del pescato nazionale, non prenderebbe il mare. Ma sono solo alcune delle vicende economiche e umane che compongono il libro. Ventiquattro, come si diceva, perché ognuna corrisponde a un'ora della giornata. Una giornata italiana, gentilmente offerta dagli stranieri.
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