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La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del
dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e
nazionalizzazione. In premessa: nel caso italiano, appare difficile
negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici.
Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli
pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e,
molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A
partire dagli anni Novanta si è assistito a un rilevante passo indietro
dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un
fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più
tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa
si ha nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni Ottanta) e,
quando lo ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il
ritiro dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore
pubblico italiano, in particolare per numero di addetti. L’intero
settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il
più sottodimensionato d’Europa.
L’ultima rilevazione Ocse ci informa che, mentre nel nostro paese la
pubblica amministrazione assorbe circa 3.400 lavoratori, in Francia e nel Regno Unito, paesi con una popolazione e un Pil pro-capite di entità simile alla nostra, se ne contano rispettivamente 6.200 e 5800. Negli Stati Uniti – paese tradizionalmente guardato come una vera economia
di mercato – il numero di dipendenti pubblici è di circa il 25%
superiore al nostro. Si può aggiungere che, in Italia, l’occupazione nel
settore pubblico riguarda prevalentemente individui con elevata
scolarizzazione.
In più, la convinzione che i dipendenti pubblici siano
ben retribuiti e godano di eccesso di protezioni è palesemente smentita
sul piano empirico. L’Istat registra un aumento della retribuzione
oraria netta del 21% su base annua per i lavoratori del settore privato,
a fronte di incrementi pressoché nulli nel settore pubblico. E si
calcola che la gran parte dei contratti a tempo determinato sono
somministrati dalla pubblica amministrazione. Dunque, i dipendenti
pubblici, in media, guadagnano meno dei loro colleghi del settore
privato e sono più frequentemente assunti con contratti precari.
Per quanto riguarda la produttività del lavoro
nel settore pubblico, pure a fronte delle rilevanti difficoltà di
misurazione, e pur volendo accettare la tesi che questa è più bassa
rispetto al settore privato, occorre ricordare che l’operatore pubblico
svolge, di norma, le proprie funzioni in quelle che William Baumol
definiva “attività stagnanti”, ovvero attività nelle quali (si pensi ai
servizi alla persona) risulta impossibile generare avanzamento tecnico
e, dunque, incrementi di produttività. In tal senso, se anche si ritiene
che il ‘merito’ del singolo lavoratore sia misurabile e che lo sia
anche nei servizi nel settore pubblico, da ciò non si può immediatamente
dedurre che questa conclusione discende dal basso rendimento degli
occupati, potendo più realisticamente dipendere dalla bassa
accumulazione di capitale. Si calcola anche che il tasso di assenteismo
dei lavoratori del settore pubblico italiano è in linea con la media
europea. I fautori delle privatizzazioni sostengono che l’operatore
privato è sempre più efficiente dell’operatore pubblico. Lo Stato deve
limitarsi a creare le condizioni necessarie affinché l’esercizio della
libertà d’impresa avvenga nel rispetto delle norme e dei contratti
vigenti.
Nella fattispecie della società Autostrade, si propone (così
Confindustria) l’istituzione di una commissione che esamini le
concessioni e vigili sullo svolgimento del servizio. Non si ammette
quello che si considera il ritorno ai “carrozzoni di Stato”. Per contro,
i fautori delle nazionalizzazioni ritengono che possa essere solo lo
Stato a svolgere funzioni di interesse generale e, nel caso della
società Autostrade, propongono (in linea con il governo) la revoca della
concessione. Quest’ultima posizione è condivisibile, se non altro per
come è stato gestito il processo di privatizzazione in Italia, con una
puntualizzazione, che riguarda la selezione dei nostri manager pubblici.
Si tratta di una questione pressoché ignorata, ma rilevante. Su fonte
ministero dell’economia e delle finanze, risulta che l’Italia ha pochi dirigenti pubblici, molto meno dei principali paesi europei. Risulta
anche che sono mediamente più anziani. Soprattutto risulta assente una
scuola di alta formazione, come esiste in altri paesi europei (si pensi
al caso francese).
Vi è di più. La lunga stagione delle privatizzazioni – durata almeno
un ventennio in Italia, nella sostanziale assenza di voci critiche –
coincise con la cosiddetta svolta neoliberista e con la convinzione che
oltre a generare maggiore efficienza, la cessione di asset pubblici a
privati fosse necessaria per aumentare il gettito fiscale e generare
avanzi primari. Le privatizzazioni – intenzionalmente o meno – servivano
anche ad accrescere le diseguaglianze distributive, sia per l’aumento
delle tariffe, sia perché – e per conseguenza – l’accesso a servizi
privati è più difficile per i percettori di redditi bassi. Si riteneva
che l’aumento delle diseguaglianze fosse un motore di crescita
attraverso i cosiddetti effetti di sgocciolamento: i ricchi, in quanto
più produttivi (per ipotesi), contribuiscono maggiormente alla crescita
economica, rendendo successivamente possibili misure di trasferimento a
vantaggio dei più poveri. La redistribuzione a vantaggio dei più ricchi
si è verificata, lo sgocciolamento no.
La convinzione per la quale le privatizzazioni servono ad aumentare
le entrate fiscali e a generare crescita è molto problematica e, nei
fatti, sembra essere falsa. Ciò a ragione del fatto che, per
definizione, esse implicano – come si è verificato in Italia – una
riduzione delle dimensioni del settore pubblico. Come certificato
dall’Inps, il primo effetto (ovvio e prevedibile) derivante dalla
riduzione del numero di dipendenti pubblici è proprio la riduzione delle
entrate fiscali. Il privato può più facilmente evadere o eludere. Il
secondo (altrettanto prevedibile) risultato consiste nell’accentuazione
della caduta della domanda interna, per il tramite dei minori consumi
derivanti dalla decurtazione dei redditi nel pubblico impiego. Il terzo
risultato è il peggioramento della qualità dei servizi offerti, come
conseguenza (anch’essa ovvia) della riduzione del numero di occupati.
(Guglielmo Forges Davanzati, “Alcuni effetti indesiderati delle privatizzazioni in Italia”, da “Megachip” del 21 agosto 2018).
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giovedì 30 agosto 2018
Tutti più poveri, grazie alle privatizzazioni imposte all’Italia
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