La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e nazionalizzazione.
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micromega Guglielmo Forges Davanzati*
In premessa: nel caso italiano, appare difficile
negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici.
Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli
pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e,
molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A
partire dagli anni novanta si è assistito a un rilevante passo indietro
dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un
fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più
tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa si ha
nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni ottanta) e, quando lo
ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il ritiro
dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore pubblico
italiano, in particolare per numero di addetti.
L’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è
nei fatti il più sottodimensionato d’Europa. L’ultima rilevazione OCSE
ci informa che, mentre nel nostro Paese la pubblica amministrazione
assorbe circa 3.400 lavoratori, in Francia e nel Regno Unito, Paesi con
una popolazione e un Pil pro-capite di entità simile alla nostra, se ne
contano rispettivamente 6.200 e 5800. Negli Stati Uniti – Paese
tradizionalmente guardato come una vera economia di mercato – il numero
di dipendenti pubblici è di circa il 25% superiore al nostro. Si può
aggiungere che, in Italia, l’occupazione nel settore pubblico riguarda
prevalentemente individui con elevata scolarizzazione. In più, la
convinzione che i dipendenti pubblici siano ben retribuiti e godano di
eccesso di protezioni è palesemente smentita sul piano empirico.
L’ISTAT registra un aumento della retribuzione oraria netta del 21%
su base annua per i lavoratori del settore privato, a fronte di
incrementi pressoché nulli nel settore pubblico. E si calcola che la
gran parte dei contratti a tempo determinato sono somministrati dalla
pubblica amministrazione. Dunque, i dipendenti pubblici, in media,
guadagnano meno dei loro colleghi del settore privato e sono più
frequentemente assunti con contratti precari. Per quanto riguarda la
produttività del lavoro nel settore pubblico, pure a fronte delle
rilevanti difficoltà di misurazione, e pur volendo accettare la tesi che
questa è più bassa rispetto al settore privato, occorre ricordare che
l’operatore pubblico svolge, di norma, le proprie funzioni in quelle che
William Baumol definiva “attività stagnanti”, ovvero attività nelle
quali (si pensi ai servizi alla persona) risulta impossibile generare
avanzamento tecnico e, dunque, incrementi di produttività. In tal senso,
se anche si ritiene che il ‘merito’ del singolo lavoratore sia
misurabile e che lo sia anche nei servizi nel settore pubblico, da ciò
non si può immediatamente dedurre che questa conclusione discende dal
basso rendimento degli occupati, potendo più realisticamente dipendere
dalla bassa accumulazione di capitale. Si calcola anche che il tasso di
assenteismo dei lavoratori del settore pubblico italiano è in linea con
la media europea.
I fautori delle privatizzazioni sostengono che l’operatore privato è
sempre più efficiente dell’operatore pubblico. Lo Stato deve limitarsi a
creare le condizioni necessarie affinché l’esercizio della libertà
d’impresa avvenga nel rispetto delle norme e dei contratti vigenti.
Nella fattispecie del della società autostrade, si propone (così
Confindustria) l’istituzione di una commissione che esamini le
concessioni e vigili sullo svolgimento del servizio. Non si ammette
quello che si considera il ritorno ai “carrozzoni di Stato”.
Per contro, i fautori delle nazionalizzazioni ritengono che possa
essere solo lo Stato a svolgere funzioni di interesse generale e, nel
caso della società autostrade, propongono (in linea con il Governo) la
revoca della concessione.
Quest’ultima posizione è condivisibile, se non altro per come è
stato gestito il processo di privatizzazione in Italia, con una
puntualizzazione, che riguarda la selezione dei manager pubblici in
Italia. Si tratta di una questione pressoché ignorata, ma rilevante. Su
fonte Ministero dell’Economia e delle Finanze, risulta che l’Italia ha
pochi dirigenti pubblici, molto meno dei principali Paesi europei.
Risulta anche che sono mediamente più anziani. Soprattutto risulta
assente una scuola di alta formazione, come esiste in altri Paesi
europei (si pensi al caso francese).
Vi è di più. La lunga stagione delle privatizzazioni – durata
almeno un ventennio in Italia, nella sostanziale assenza di voci
critiche – coincise con la c.d. svolta neoliberista e con la convinzione
che oltre a generare maggiore efficienza, la cessione di asset pubblici
a privati fosse necessaria per aumentare il gettito fiscale e generare
avanzi primari. Le privatizzazioni – intenzionalmente o meno – servivano
anche ad accrescere le diseguaglianze distributive, sia per l’aumento
delle tariffe, sia perché – e per conseguenza – l’accesso a servizi
privati è più difficile per i percettori di redditi bassi. Si riteneva
che l’aumento delle diseguaglianze fosse un motore di crescita
attraverso i c.d. effetti di sgocciolamento: i ricchi, in quanto più
produttivi (per ipotesi), contribuiscono maggiormente alla crescita
economica, rendendo successivamente possibili misure di trasferimento a
vantaggio dei più poveri. La redistribuzione a vantaggio dei più ricchi
si è verificata, lo sgocciolamento no.
* da "Nuovo Quotidiano di Puglia", 22 agosto 2018
(22 agosto 2018)
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