venerdì 10 agosto 2018

Cosa sappiamo del moltiplicatore keynesiano

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keynes sparagno
Riportiamo due ottimi articoli recenti di Francesco Saraceno sul dibattito relativo ai moltiplicatori fiscali. Il primo, tratto da LuissOpen, analizza la letteratura recente relativa all’entità dei moltiplicatori fiscali. Il secondo, tratta dal sito della Rivista “Il Mulino” è una critica ad un recente articolo di Cottarelli e Galli pubblicato dal Corriere della Sera.

Che cosa ci dice il dibattito tra economisti sull’impatto di un piano di investimenti pubblici

Una prima riflessione di Francesco Saraceno, autore di “La scienza inutile” (LUISS University Press 2018), sul piano di investimenti del Governo e sull’importanza di analizzare sia cicli economici che la capacità degli investimenti di mobilitare risorse fin qui inutilizzate e di generare spesa aggiuntiva per consumi e per investimenti privati. In questo contesto, sono da evitare gli “opposti fondamentalismi” che rifiutano di considerare la complessità dell’economia
Anche se i suoi contorni sono ancora poco definiti, iniziano a circolare indiscrezioni sulla dimensione del nuovo piano di investimenti pubblici a cui lavora il governo italiano. Il ministro dell’economia starebbe preparando un piano da 50 miliardi di euro (poco meno del 3% del PIL italiano) che nei prossimi anni dovrebbe garantire un aumento più o meno equivalente del PIL.

Ovviamente al momento non si tratta di cifre precise, ma è impossibile non interrogarsi sulla pertinenza del piano, e sulla sua capacità di autofinanzirsi almeno in parte, cruciale per evitare un conflitto con l’Europa che nessuno vorrebbe.
La capacità del piano di generare crescita è misurata dal moltiplicatore, definito come l’aumento di PIL che segue un aumento di spesa pubblica (in questo caso per investimento pubblico).
In La scienza inutile, ho recentemente passato in rassegna il dibattito recente sulla dimensione dei moltiplicatori della spesa pubblica, un dibattito innescato da un lavoro del 2012 Fondo Monetario Internazionale sull’impatto dei piani di consolidamento fiscale messi in atto in Grecia e nelle altre economie in crisi dell’eurozona. Prima della recessione si stimava che i moltiplicatori fossero piuttosto piccoli, pari a circa 0,5 (il che rende lo stimolo fiscale poco efficace e, al contrario, l’austerità poco costosa in termini di mancata crescita). I lavori del Fondo, i cui risultati sono stati recentemente confermati da Jordà e Taylor in un quadro più sistematico, si accordano su valori più elevati, soprattutto in caso di crisi. Questo vuol dire che l’austerità è stata più dolorosa, e allo stesso tempo ha fallito nel riportare alla sostenibilità dei conti pubblici (il denominatore del rapporto tra debito e PIL, più di quanto non sia calato il numeratore, vale a dire il debito; quindi il rapporto tra i due durante il periodo di austerità è aumentato).
Riporto qui alcuni brani tratti da La scienza inutile.
Negli ultimi anni la stima della dimensione dei moltiplicatori è il terreno di gioco (o di scontro) sul quale si sono confrontati gli economisti interessati a riesaminare la questione dell’efficacia della politica fiscale. I lavori in questo senso si sono moltiplicati, con un’attenzione particolare al moltiplicatore dell’investimento pubblico per il quale si può supporre che l’effetto keynesiano a breve termine sia accompagnato da un impatto positivo a lungo termine sulla crescita potenziale.
Come spesso avviene in economia, i lavori empirici sulla dimensione dei moltiplicatori in ‘tempo normale’ sono lungi dal far emergere un consenso. Le meta-analisi di Gechert e Will (2012) e Gechert (2015) riescono a trarre qualche conclusione generale da un’abbondante letteratura: in primo luogo, il valore dei moltiplicatori della spesa pubblica è vicino a 1. La stima di 0,5 su cui si basavano i programmi di consolidamento fiscale nella zona euro sarebbe quindi stata eccessivamente prudente anche in tempi normali, e a maggior ragione è stata errata in un periodo di crisi. In secondo luogo, conformemente alla logica keynesiana classica, i moltiplicatori della spesa sono più alti di quelli di tasse e trasferimenti (non tutto l’aumento del reddito conseguente ad una riduzione fiscale verrà consumato; la parte risparmiata non alimenterà la crescita; si pensi alle polemiche sugli ottanta euro del governo Renzi). Infine, i moltiplicatori dell’investimento pubblico sono anche più elevati dei moltiplicatori della spesa globale (di circa mezzo punto, il che li porta a valori intorno a 1,5). Tuttavia, queste conclusioni generali si basano su valori medi tra i diversi studi considerati, che nascondono grandi disparità. Questo non è veramente sorprendente, visto che il valore del moltiplicatore dipende, anche teoricamente, da un certo numero di fattori che possono alterarlo in modo significativo: intanto il grado di apertura dell’economia, che determina quanta della spesa aggiuntiva verrà indirizzata su beni di produzione nazionale, spingendo il PIL, e quanta invece su beni importati, con benefici sul PIL dei paesi partner. Poi, la distanza del sistema economico dall’equilibrio naturale, il divario di produzione (l’output gap). Riguardo a quest’ultimo il dibattito sull’efficacia della politica macroeconomica omette spesso che la teoria keynesiana si applica in caso di rallentamento dell’economia, ossia quando l’equilibrio di mercato lascia risorse inutilizzate che la spesa pubblica può riattivare. Di contro, se il sistema economico si trova in piena occupazione, il valore del moltiplicatore sarà uguale a zero nella teoria keynesiana come nella teoria neoclassica; ogni euro di spesa aggiuntiva del governo dovrà comportare un euro di spesa in meno da parte del settore privato, e lo “spiazzamento” sarà totale. Quando l’economia è in piena occupazione un rilancio della domanda non può rilanciare l’attività. Sarebbe capzioso pretendere che Keynes sostenesse il contrario.
I tentativi di stima di un valore del moltiplicatore variabile nel tempo, che dipende quindi dalla posizione ciclica dell’economia, non sono numerosi. Creel et al. (2011) utilizzano un modello strutturale dell’economia francese e trovano che come previsto dalla teoria keynesiana quando il divario tra prodotto effettivo e potenziale è negativo e importante il valore del moltiplicatore è ben più elevato di quando il sistema economico si trova a prossimità dell’equilibrio di piena occupazione. Glocker et al. (2017) confermano che anche per il Regno Unito il moltiplicatore è più elevato in periodi di crisi, mentre Berg (2015), stimando un modello simile per la Germania, trova che la posizione ciclica ha un impatto limitato, ma conferma che i moltiplicatori cambiano nel tempo e sono più elevati quando gli agenti sono pessimisti, o quando il governo non ha difficoltà a finanziarsi (per cui la sostenibilità del debito non è in dubbio).
Questi pochi esempi mostrano come la stima dei moltiplicatori sia complessa e soggetta a molti fattori imponderabili, e portano a concludere che sia stato un errore capitale imporre programmi di austerità fondati su stime semplicistiche dell’effetto che il consolidamento fiscale avrebbe avuto sull’economia. Specularmente, ci allertano sui rischi di politiche meccaniciste e anch’esse semplicistiche, che reagiscono ad ogni rallentamento economico in modo pavloviano, con un’espansione fiscale.
Da questa rassegna, necessariamente incompleta, si può dedurre che per quantificare l’impatto del piano di investimenti del governo, una volta che se ne conosceranno i dettagli, occorrerà un’accurata analisi della posizione ciclica dell’economia, della capacita degli investimenti di mobilitare risorse fin qui inutilizzate, e di generare spesa aggiuntiva per consumi e per investimenti privati. Quello che è sicuro è che immaginare un effetto salvifico (con valori del moltiplicatore di 3 o 4!) cozza con l’evidenza empirica, come sembra mancare di giustificazioni solide la recente presa di posizione di Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli che si dicono certi di un effetto nullo o quasi, ipotizzando implicitamente che gli investimenti pubblici non abbiano impatto sulla crescita, e che il deficit abbia (limitati) effetti solo nel breve periodo. In entrambi i casi ci si rifiuta di prendere in considerazione la complessità dell’economia, e si piega la realtà a fini politici. Questi “opposti fondamentalismi” non giovano alla qualità del dibattito pubblico.

Semplificare troppo non aiuta

da Rivista “Il Mulino”
Qualche giorno fa Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli hanno scritto per il “Corriere della Sera” un interessante editoriale volto a confutare la tesi che per ridurre il rapporto tra debito e Pil italiano, e quindi rendere più sostenibili le finanze pubbliche, occorrerebbe concentrarsi sulla crescita piuttosto che sulla riduzione del debito da perseguire con significativi avanzi di bilancio primari (vale a dire al netto degli interessi).
Cottarelli e Galli rispondono in particolare a Giorgio La Malfa, che aveva invocato un programma di investimenti pubblici strumentale ad un cambiamento di “filosofia”: invece di concentrarsi sugli obiettivi di finanza pubblica definiti dai trattati europei, La Malfa proponeva di stabilire un obiettivo di crescita che consenta (tra l’altro) di stabilizzare il rapporto tra debito e PIL, e mettere in campo le politiche adatte per conseguire l’obiettivo.
Cottarelli e Galli contestano la tesi per cui un programma di investimenti pubblici sarebbe in grado di migliorare in modo permanente le finanze pubbliche tramite il suo effetto sul Pil. Che la proposta di La Malfa sia opinabile non è sorprendente. È circa un secolo che gli economisti si accapigliano riguardo all’impatto della spesa pubblica sull’attività economica, e di converso sull’effetto che la crescita economica ha (principalmente tramite le entrate fiscali) sul deficit. Quanto dell’aumento dell’investimento pubblico sosterrebbe l’attività economica in Italia, e quanto finirebbe per utilizzare beni importati, spingendo il Pil dei paesi partner? E come essere sicuri che l’investimento pubblico riesca a far aumentare in modo permanente il Pil (la cosiddetta crescita potenziale), ponendo quindi le basi per una sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico? Infine, ma non in ordine di importanza, come assicurarsi che gli investimenti siano indirizzati in progetti che abbiano un rendimento economico o sociale adeguato? In questi giorni di partenze per le vacanze estive, la Salerno-Reggio Calabria ci ricorda come non sempre la quantità e la qualità dell’investimento (pubblico o privato) vadano di pari passo.
Insomma, è normale che ci sia disaccordo: non c’è nulla di meccanicistico negli effetti di un programma di investimenti pubblici. Il diavolo si nasconde nei dettagli. È quindi lodevole che ci si interroghi sui progetti che saranno messi in cantiere nei prossimi mesi, e che il dibattito pubblico contribuisca a definire i progetti del governo e (sperabilmente) a massimizzarne l’impatto economico e sociale.
Tuttavia, questa non è la strada presa da Cottarelli e Galli. Essi decidono invece di fare astrazione dagli aspetti economici dell’investimento pubblico nella congiuntura attuale, e adottano un approccio puramente contabile. La spesa in deficit, indipendentemente dal contesto in cui è effettuata, non può che far aumentare il rapporto tra debito e Pil. Questo perché agirebbe una tantum sul reddito (alterandone il livello ma non il tasso di crescita), mentre avrebbe un effetto ripetuto nel tempo sullo stock di debito. Nei giorni passati c’è stato un dibattito interessante, in rete, sulle ipotesi implicite in tale affermazione. Sembrerebbe che secondo l’interpretazione di Cottarelli e Galli il deficit aumenterebbe in modo permanente, mentre i suoi effetti sul Pil sarebbero solo temporanei. Assumendo che non ci siano effetti sul tasso di crescita dell’economia, essi di fatto escludono per ipotesi che l’aumento del denominatore contribuisca a rendere sostenibili le finanze pubbliche. Cottarelli e Galli insomma sembrano escludere per ipotesi quello che pretendono di voler dimostrare: ricordiamo che l’abbondante letteratura sulla sostenibilità del debito pubblico è centrata sulla differenza tra tasso di interesse e tasso di crescita (il debito tende ad aumentare se la differenza è positiva, e a diminuire se è negativa); se quest’ultimo è assunto invariante rispetto al deficit, è impossibile quasi per definizione che il rapporto tra debito e PIL diminuisca in seguito ad un aumento dell’investimento pubblico.
Ma questi sono dettagli. Ipotesi differenti porterebbero probabilmente (come è naturale e giusto che sia) a sfumare le affermazioni di Cottarelli e Galli, o addirittura a raggiungere conclusioni opposte. Quello che colpisce, invece, è la riproposizione dell’idea per cui qualunque intervento pubblico in economia è inutile, se non dannoso, e il corollario per cui non si può nemmeno cominciare ad affrontare la moltitudine di problemi del paese se non si abbatte in priorità il debito pubblico. Cottarelli e Galli (che in questo purtroppo sono in buona compagnia) sembrano far fatica ad integrare nel loro schema analitico il dibattito sulla politica macroeconomica che, almeno in ambienti anglosassoni è stato innescato dalla crisi. Mentre negli Stati Uniti si discute infine di come ridefinire la politica macroeconomica dopo la Grande Recessione, sul legame tra ciclo e crescita potenziale, sulla pertinenza o meno delle ipotesi sulla cosiddetta stagnazione secolare, in Europa e (soprattutto) in Italia si continua, come se nulla fosse successo, a proporre la riduzione del debito pubblico come salvifica priorità di politica economica.
Insomma, Cottarelli e Galli avrebbero potuto evocare la sterminata letteratura sul valore dei moltiplicatori, e sulle elasticità di spesa pubblica ed entrate tributarie rispetto al Pil. Questa letteratura non giunge a “verità incontestabili”, perché come è normale in economia, l’effetto di una qualunque politica economica dipende da fattori di domanda e di offerta, dalla posizione ciclica come dalla crescita potenziale; in una parola, dipende dal contesto in cui la politica in questione viene messa in opera. Avrebbero insomma potuto (e dovuto) accendere i riflettori sulla complessità di un esercizio come quello proposto da La Malfa, in un’economia che soffre di problemi strutturali e che, euro o non euro, evolve in un contesto di forte interdipendenza. Hanno invece scelto di presentare il loro punto di vista come un’evidenza aritmetico-contabile, che a sua volta semplifica e, riposando su ipotesi non esplicite e di cui è lecito dubitare, finisce per essere molto poco convincente.
È questo il problema principale dei difensori dello status quo. Continuano a proporre una visione dell’economia semplicistica, quasi meccanica (l’uso del termine ‘aritmetico’ da parte di Cottarelli e Galli è in questo senso rivelatore), che in quanto tale tende ad essere universalistica. Ci fu proposta l’austerità come unica possibilità ai tempi del governo Monti, perché l’economia era in crisi. E ci viene proposta oggi come unica possibilità perché l’economia si riprende, e sembra quasi che l’unica zavorra per un paese in cui i colli di bottiglia sono centinaia (pubblici e privati) sia costituita dal debito pubblico. There is No Alternative, insomma.
Questo arroccamento, questa coazione a ripetere, ha conseguenze che vanno ben al di là del nostro paese. Recentemente il Senatore Monti ha difeso i programmi di aggiustamento imposti alla Grecia dalla Troika (Commissione, Bce e Fmi), sostenendo che la recente ripresa dell’economia costituisce una prova irrefutabile della bontà delle ricette applicate. Il Senatore Monti sembra però dimenticare che tutti gli indicatori strutturali per l’economia greca sono peggiori rispetto a quelli pre-crisi. L’accumulazione di capitale ristagna dopo il crollo vertiginoso del 2008-2012; innovazione, brevetti, accumulazione di capitale umano, sono al palo. Il World Economic Forum certifica una perdita significativa di competitività rispetto ad economie simili, e il Fondo Monetario attribuisce il miglioramento dei conti con l’estero alla recessione prolungata che ha causato un crollo dei consumi e delle importazioni. Senza dimenticare che il livello del Pil è ancora lontanissimo dai livelli pre-crisi, e ai ritmi attuali si ritornerà al livello del 2008 non prima del 2025. Insomma, le politiche che ci furono vendute all’epoca come una necessaria ed amara medicina, necessaria per un recupero della competitività perduta, hanno invece peggiorato la situazione strutturale del paese; l’amara medicina ha debilitato il paziente, lasciandolo più esposto di prima a futuri shock negativi. Eppure, l’ossessione per i conti pubblici spinge alcuni a considerare l’esperimento greco un successo. È ironico che quegli stessi che criticano i tentativi di rendere le finanze pubbliche sostenibili spingendo sulla crescita (sul denominatore del rapporto tra debito e Pil), dimenticano che otto anni di austerità in Grecia non hanno stabilizzato il debito greco proprio perché hanno causato un crollo del Pil.
Fin tanto che la difesa del progetto europeo continua a farsi in un contesto analitico così angusto, arroccandosi sulla difesa di politiche sbagliate (e che alcuni, tra cui chi scrive, avevano già segnalato all’epoca come frutto dell’adesione fideistica ad una teoria inadatta a spiegare i meccanismi all’opera dietro alla Grande Recessione), hanno buon gioco i sovranisti di ogni bordo a puntare il dito sugli effetti disastrosi delle politiche di questi anni, e a pretendere che queste siano intrinsicamente connaturate al progetto europeo (e specificatamente alla moneta unica).
Difendere lo status quo, insomma, è il miglior assist a chi sostiene che il ritorno alla sovranità nazionale sia l’unico modo per cambiare la politica economica europea. Tutti gli appuntamenti elettorali degli ultimi anni, dentro e fuori dall’eurozona, stanno lì a testimoniarlo. Chi tiene al progetto europeo dovrebbe iniziare dal riconoscere gli errori del passato, e aggiornare i propri schemi analitici per evitare di ripeterli, consegnando di fatto le chiavi della politica economica ad un sovranismo che non tarderebbe (nel caso italiano occorre usare il futuro, “tarderà”) a mostrarsi altrettanto inadeguato per governare la complessità del mondo di oggi.

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