martedì 7 agosto 2018

Classe Operaia. I veri invisibili delle campagne: multinazionali e grande distribuzione.

La fiera dell’ipocrisia scatta quando proprio non è possibile fare spallucce in pubblico. Davanti a 12 morti – che si aggiungono ai quattro di due giorni prima a pochi chilometri di distanza – neanche Salvini ha azzardato una delle sue solite battute fesse.

L’ipocrisia “dem” è alla pari con il cinismo leghista, comunque. 
A meno di non credere davvero che il caporalato sia davvero “imbattibile” e che, quindi, chi ha governato per anni non possa esser responsabile per l’intangibilità di un fenomeno pluridecennale di cui si sa sostanzialmente tutto: chi lo gestisce, territorio per territorio; con quali modalità opera (sempre le stesse); i punti di raccolta dei braccianti, le coordinate dei terreni agricoli sui cui vengono portati, il salario – diciamo così – corrisposto, il “prezzo del biglietto” per esservi portati, ecc.
Questi sono però solo i dettagli di una filiera complessa, lunghissima, che porta il raccolto – qualsiasi tipo di raccolto, ormai – dal campo all’industria di trasformazione, lungo i “condotti” della logistica su gomma, fino alla grande distribuzione (i mercatini rionali si riforniscono in genere presso produttori di prossimità, con relativo taglio dei costo di trasporto).
Insomma, se allo stadio della raccolta abbiamo la triade agricoltore-caporale-bracciante dobbiamo anche sapere che è su questa fase che scaricano tutte le dinamiche di prezzo.  

Qui i costi debbono essere compressi al massimo, perché il “prodotto finale” deve arrivare sui banconi e gli scaffali a un prezzo davvero minimo, “concorrenziale”. Mentre ogni soggetto della filiera pretende ovviamente la sua quota di profitto.
Il meccanismo è antico, ma con l’affermarsi della grande distribuzione come forma principale della vendita al dettaglio – combinata con la stagnazione più che decennale seguita alla crisi globale del 2008 – i margini di guadagno della parte iniziale della filiera si sono ridotti a nulla.
La ragione è semplice: la stragrande maggioranza della popolazione dell’Europa, e soprattutto quella dei paesi deboli come l’Italia, ha visto nell’ultimo decennio il reddito rimanere sempre allo stesso livello (quando va bene), oppure ridursi drasticamente con la perdita del lavoro e l’evaporazione degli ammortizzatori sociali. In termini economici la “domanda è fiacca”, dunque i prezzi finali non possono salire troppo (a meno di emergenze temporanee dovute a siccità, alluvioni, ecc). O si scarica la dinamica dei prezzi sui punti più fragili della filiera, oppure si chiude. O si impone una “retribuzione” di un euro al quintale – quanto viene dato ai braccianti pugliesi morti in queste ore – oppure si va altrove. Un centesimo al chilo…
Il “caporalato”, al dunque, è la forma necessaria della produzione affinché il prezzo della materia prima agricola resti bassissimo. Ma se è necessario a questa economia malata, allora non può essere combattuta davvero, Se non a chiacchiere, dichiarazioni, lamentazioni tristissime, ma tutte a beneficio di telecamere.
Nelle strade, invece, le varie polizie non vedono quello che tutti vedono. I gruppi di lavoratori – dell’Est o africani – si riuniscono in piazze e strade facilmente raggiungibili, davanti agli occhi di tutti; viaggiano su furgoni fatiscenti, con targa spesso straniera, in condizioni tali che una pattuglia della stradale o un vigile urbano dovrebbe fermarli a prima vista. E a quel punto “scoprirebbe” quel che tutti sanno: veicoli omologati per tre posti portano fino a quindici braccianti, seduti su panche di legno, senza cinture di sicurezza, con le gomme lisce, senza assicurazione, autisti spesso senza patente, ecc.
Insomma, una sola di queste infrazioni – a un cittadino normale – costa una contravvenzione o un sequestro del mezzo. Quei pulmini, invece, sono miracolosamente “invisibili”, ma solo alle forze dell’ordine.
La cosa è così evidente da costringere IlSole24Ore – non a caso l’organo di Confindustria, ossia delle “imprese” – a tentare una patetica difesa delle varie polizie in servizio su quei territori. “ La verità è che i controlli si fanno, ma solo nelle “ore d’ufficio” e con pochi agenti”, “al Sole 24 Ore risulta che questi servizi si riescano a organizzare solo dalle 7 alle 13 e a volte dalle 13 alle 19. Cioè quando i caporali e i loro autisti hanno già portato i braccianti nei campi”. Una valle di lacrime operative in cui “ il più delle volte si riesce a fermare solo qualche vettura sospetta. Spesso con targa bulgara, quindi di fatto immune da controlli automatici sulle infrazioni stradali: ammesso che si invii un verbale in Bulgaria, non si potrà mai pretendere che venga pagato”.
Che fine ha fatto quel “controllo del territorio” cui non sfugge nulla, occhiuto, tecnologizzato, con informatori ovunque, che in ogni angolo d’Italia si preoccupa che non vengano troppo disturbati governanti e imprenditori? Sparito. Dove si raccoglie frutta e verdura sembra non ci sia nemmeno un anziano sceriffo in grado di fermarsi ai bordi di un campo pieno di gente al lavoro e chiedere “chi ti paga?”. Senza contare che dai dati del catasto dovrebbe esser facile sapere chi è il proprietario…
Se il caporale è “invisibile”, insomma, deve restarlo perché è invisibile soprattutto il vertice della filiera: la grande distibuzione è gestita da imprese multinazionali, che possono mischiare allegramente prodotti provenienti da cento posti diversi, selezionando solo in base al prezzo e fottendosene della qualità. Si comprende che IlSole si debba preoccupare di far restare nell’ombra ciò che proprio non si deve vedere…
Anche se magari tutto è noto da anni, con reportage ricchi di informazioni, dati, ecc. Qui di seguito, per esempio, vi proponiamo quello pubblicato oltre quattro anni fa da Terre Libere. C’era già tutto…
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I veri invisibili delle campagne: multinazionali e grande distribuzione

Gli schiavi e i caporali. Gli africani “poverini”. Le tendopoli e l’accoglienza. Una retorica paternalista che nasconde i veri invisibili della campagne. I migranti sono ripresi, fotografati, raccontati. Le multinazionali no. Eppure quello del Sud Europa è un vero modo di produzione: sfruttamento estremo, migranti ricattabili. E costi bassi
Sembra di leggere sempre lo stesso articolo. Gli schiavi, i disperati, i caporali e i clandestini. La questione del lavoro migrante in agricoltura è affrontata da anni sempre allo stesso modo. Pietismo e complottismo.
Da Rosarno a Foggia, da Latina a Cassibile. Testi, rapporti e video mortalmente noiosi. Che raccontano una rete paramafiosa di “cattivi” che sfrutta e trasporta “i nuovi schiavi” da una campagna all’altra. Povere vittime “a una dimensione” senza volontà e capacità di rivalsa.
Una visione falsa che nasconde una realtà difficile da raccontare, specie per i media a corto di risorse pubblicitarie. Esistono davvero gli invisibili delle campagne. Sono le multinazionali del pomodoro e del succo di frutta. Sono i padroni dei vini pregiati. Sono gli intermediari mafiosi padroni di aziende.
Commercianti, mafiosi, supermercati e multinazionali
I commercianti della grande distribuzione. Le agenzie internazionali di fornitura della manodopera. Personaggi appartenenti all’economia ufficiale che non hanno timore di contaminarsi con gli abissi dello sfruttamento e spesso della criminalità. Quello che conta è l’economicità del prodotto. L’assenza di sindacato. Il basso costo del lavoro.
Quando è strutturale
Quando lo sfruttamento è strutturale si chiama modo di produzione. E non servono i progetti “a valle”, gli interventi umanitari, le interviste ai braccianti dalla faccina triste, le foto in bianco e nero con le casette di cartone e le chiazze di fango. Perché alla lunga tutto questo fa parte del circo, la facciata che copre e giustifica il sistema.
Da Sud a Nord, il sistema si estende. Ormai anche il Piemonte si va “rosarnizzando”. Dopo la raccolta della frutta, anche gli imprenditori del vino scoprono che può essere vantaggioso usare un bulgaro a basso costo. E non certo per la crisi.
È una questione di conti aziendali
Ma per una questione di conti aziendali: se posso risparmiare, e quindi guadagnare di più, lo faccio. Il disagio che produco lo scarico sulla Protezione Civile, gli enti locali, le associazioni caritatevoli. Il senso comune dice che gli africani vivevano così, nelle baracche, “anche al paese loro”.
Chi racconta di lavoratori che abitavano prima in appartamento a Vicenza e poi nelle tende fredde del Ministero dell’Interno? Chi dei braccianti prima accampati in Piemonte e poi in una normale casa in Calabria?
Fuori dalla vista
Mitsubishi è una notissima multinazionale giapponese che ha acquistato la più importante fabbrica di pomodoro pugliese tramite una società finanziaria di Londra. I produttori dei vini d’Asti guadagnano anche cento euro a bottiglia. Tra loro c’è un russo noto come “il re della vodka”. Il sindaco di Canelli ha offerto una doccia con l’acqua fredda ai bulgari che dormivano accampati.
La produzione di Rosarno è da sempre orientata verso l’arancia da succo. Una piccola parte finirà nelle bevande che chiamiamo “soft drinks”. Per legge basta mettere una percentuale minima di succo, il resto è roba chimica.
Il succo d’arancia viene tagliato per compiacere le industrie
E l’arancia calabrese – troppo amara per gli standard industriali –  è spesso tagliata illegalmente con quello che proviene dal Brasile. I produttori locali, anziché aprire vertenze con i loro sfruttatori, hanno preferito negli anni – in genere – usare la forza lavoro a basso costo dei migranti e incassare i soldi dell’Unione europea, spesso ottenuti con le truffe.
La crisi non è arrivata con l’abbassamento dei prezzi – da sempre miseri – ma col meccanismo Ue del disaccoppiamento che vincola i soldi al terreno e non alla produzione, rendendo difficili gli imbrogli.
I nomi dei responsabili sono facili da individuare: Coca Cola-Fanta, Nestlé San Pellegrino, San Benedetto. L’oligopolio del succo d’arancia che comprava dalle industrie di trasformazione del territorio. Zone spesso dominate dalle aziende dei clan (trasporto su gomma, forniture di cassette, persino stazioni di rifornimento…). Ma nessuno ha avuto niente da dire fino alla rivolta degli africani. Il sistema era perfetto e ognuno aveva il suo guadagno.
Congruità
Durante il periodo di Natale in tutti i supermercati italiani arrivano le clementine della Piana di Sibari, un orrendo girone dantesco dove migliaia di uomini e donne dell’Est vivono in condizioni di violenza e sfruttamento estreme. Le paghe sono talmente basse che neppure gli africani lavorano qui. I casi di brutalità ai danni di ragazze sono degni del Messico. «Non ci riforniamo a Rosarno ma a Corigliano», disse Coop con una difesa che peggiorava la sua situazione di azienda attenta al sociale.
Anche a Vittoria sono migliaia le donne dell’Est sottoposte a violenza sessuale e ricatti. Tutto l’anno. Chi associa alla più grande produzione industriale di ortofrutta il numero sempre crescente di aborti clandestini? Eppure i prodotti delle serre siciliane finiscono in tutta Europa. Non c’è più margine che non sia collegato al centro.
Produzione industriale e aborti clandestini
Come sempre, non esiste la povertà, ma la ricchezza mal distribuita. «Se andate ad Abidjan, Costa d’Avorio, trovate grattacieli e bidonvilles. Non c’è più l’Africa che immaginate», ci spiega il sindacalista camerunense Yvan Sagnet.
Africani o bulgari non sono poveri per natura ma perché elementi deboli di un sistema che si riproduce sempre uguale nella fascia Sud dell’Europa, dalla Spagna alla Grecia. Lo sfruttamento nei campi è un modo di produzione.
Le soluzioni, se ci fosse una volontà politica, sarebbero semplici. Gli indici di congruità mettono in correlazione le giornate versate all’Inps (i dati sono ormai pubblici) con la quantità di prodotto raccolto. Non risolvono tutto, ma almeno cancellano le situazioni paradossali. Ad esempio: se dichiaro che un rumeno ha raccolto 10 tonnellate di pomodoro in 5 giornate di lavoro, evidentemente, c’è un controllo da fare. Subito.
Da Terre Libere, 2014

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