Più che la marcia su Roma, fu la marcia indietro di Vittorio Emanuele
III, il re collaborazionista. Il roboante Mussolini continuò a
chiamarla così, e con tal titolo a farla entrare nei libri di Storia; ma
quel 28 ottobre 1922 fu un’altra cosa, tremenda ma per lui molto più
facile.
Maria R. Calderoni
È il giorno in cui Il Duce accettò il grazioso invito del
piccolo re a recarsi al Quirinale: <Sua Maestà la attende>.
Mussolini era ancora a Milano, nella sede del “Popolo d’Italia”, ma
si mette in treno quella notte stessa del 28 ottobre e, arrivato a Roma
in mattinata, si reca immediatamente da sua maestà. Già, sono successi
fatti importantissimi, tali da sembrare inverosimili fino a poche ore
prima.
Da due anni, in Italia imperversa la violenza fascista. Case del
popolo, sedi sindacali, sezioni di partito, giornali sono devastati da
incursioni delle camicie nere; ed è stata addirittura già costituita la
Milizia fascista, cioè un vero e proprio esercito privato agli ordini di
un partito. Morti, feriti, sommosse, scontri in molte città, in
Lombardia, Emilia Romagna, Umbria, Toscana, Campania, ovunque
E il 24 ottobre; a Napoli, dove ha lì convocato i quadrunviri,
Mussolini decide di accelerare l’insurrezione contro i sovversivi
<che minacciano il Paese>, e di lanciare quella occupazione della
capitale, detta appunto Marcia su Roma. Mobilitati 20-23 mila fascisti
che dovrebbero piombare sulla città il 28 ottobre. Ma non in marcia,
bensì in treno.
È un momento terribile e cruciale. Il presidente del Consiglio Facta
(soprannominato “nutro fiducia”, espressione da lui usata spesso nel suo
intercalare) propone di decidere lo stato d’assedio. Con un decreto.
Che per aver valore deve essere firmato dal re. E Facta al re lo porta.
Ma lui, il Vittorio Emanuele III, non lo degna di uno sguardo, anzi lo
infila in un cassetto della scrivania, e senza altre parole dice no, lui
non firma. Assolutamente no.
Mussolini vince! E per di più, proprio lui, il capo delle squadracce
che stanno devastando l’Italia e che dovrebbe essere arrestato, è
chiamato a far parte del nuovo governo. Gli offrono qualche ministero,
in cambio le sue milizie devono stare buone, smettere, per dire, di
manganellare, aggredire, fare irruzioni, devastare, incendiare.
Ma lui, il Mussolini dice di no. Qualche ministero?Troppo poco. Facta
si è dimesso, il decreto sullo stato d’assedio non è stato firmato, e
il Duce si sente fortissimo. E di lì a pochi giorni – esattamente il 17
novembre 1922, quando ormai ha ricevuto l’incarico di formare il nuovo
esecutivo – alla Camera potrà pronunciare la storica frase: <Potevo
fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli…>.Appunto,
in quegli ultimi giorni di ottobre il Mussolini si sente ormai padrone
della scena e ordina: o io presidente del Consiglio o milizie fasciste
pronte all’assalto di Roma.
È un bluff; e se il provvedimento sullo stato d’assedio fosse
passato, per i fascisti poteva finire male. Infatti, il decreto dà al
generale Pugliese, comandante della piazza di Roma, l’ordine di
soffocare ogni tentativo insurrezionale e di assumere tutti i poteri
militari. Un Consiglio dei ministri era stato convocato d’urgenza alle
sei del mattino e la decisione presa era appunto quella di un’azione
diretta; così vengono inviati all’esercito ordini scritti di fermare i
fascisti con ogni mezzo a disposizione e persino di arrestare a Perugia i
cosiddetti quadrunviri lì riuniti.
Poi, alle nove del mattino, il colpo di scena: il re non firma, ha fatto proprio il motto fascistico, “me ne frego”.
È esattamente in questo momento, che la marcia su Roma ha vinto.
Scrive Denis Mack Smith (“Storia d’Italia 1861-1969″, Laterza): <Il
rifiuto non solo fu una violazione della prassi costituzionale, ma
determinò anche il successo dell’insurrezione>. E <fu forse questa
la prima volta in ventidue anni che il re rifiutò di agire secondo il
parere dei suoi ministri>.
Un rifiuto che ebbe <conseguenze disastrose>. Scrive sempre
Mack Smith. <In primo luogo, esso convinse le autorità locali che il
governo non avrebbe fatto nulla per fermare il fascismo, ed esse
modificarono quindi il loro atteggiamento in conformità con la nuova
situazione. In secondo luogo, diede a Mussolini la certezza che il re,
avendo ceduto una volta alle sue minacce, avrebbe ceduto anche in
seguito, in quanto con il suo atto egli si era reso complice del
fascismo e non gli restava altra alternativa che l’abdicazione>.
Ma no, anzi. II re era con lui.
Mussolini era arrivato in vagone letto a Roma e nel frattempo, quella
notte tra il 28 e 29 ottobre, alcune “colonne” di fascisti, anche loro
giunte via ferrovia, erano stanziate a una settantina di chilometri
dalla capitale. L’esercito sarebbe stato facilmente in grado <di
disperdere questa schiera>. Ma non avvenne niente; anzi, <il duce
arrivò a Roma prima dei suoi uomini, e circondato da poche camicie nere
sporche di fango, si diresse a palazzo fra inni fascisti e brandir di
manganelli>.
Sempre Mack Smith: <La marcia su Roma non fu così che un viaggio
in treno seguito da una striminzita dimostrazione, in conseguenza di un
espresso invito del sovrano>.
Ed eccolo il Mussolini – nel suo primo discorso da presidente del
Consiglio (17 novembre 1922) – ricordare arrogantemente che il governo
si era costituito prescindendo del tutto dal parlamento e che quindi lui
non aveva alcuna responsabilità nei suoi confronti. E ricordare
altresì, caso mai l’avessero dimenticato, che il suo movimento
<rappresentava non già trecentomila funzionari di partito, ma
trecentomila moschetti>.
Votazione; e, incredibilmente, da Camera e Senato fiducia concessa a Mussolini, ivi compresi pieni poteri per dodici mesi.
Conclude Mack Smith: <A un livello così basso era discesa l’Italia liberale alla vigilia del suo tramonto>.
28 ottobre 1922, Marcia su Roma.
29 aprile 1945, Piazzale Loreto.
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