Augusto Sainati Professore universitario e critico cinematografico
Ci sono anni che valgono il doppio o il triplo tanto sono memorabili. Anni affollati, come diceva Giorgio Gaber, anni rari come certe figurine. Il ’77
è stato uno di questi, forse – con il 1968, il 1989 e il 1992 – è stato
uno dei quattro anni che più si sono impressi nell’immaginario
collettivo, segnandone il destino. Ma, a differenza degli altri tre
anni, il ’77 visto dall’Italia è stato certamente l’anno più denso di
emozioni e di avvenimenti, in grado di sintetizzare più e meglio di tutti gli altri passato e futuro, umori e tensioni, contraddizioni e aspettative. Un film presentato in questi giorni al Torino Film Festival – ’77 no commercial use,
di Luis Fulvio – mette in fila le immagini difficili e in certo senso
anarchiche del ’77, presentandole come immagini “fuori sacco”.
Il titolo No commercial use allude non solo al fatto che sono immagini senza diritti,
che quindi non possono circolare in forma commerciale, ma anche al
fatto che sono immagini “senza diritto”, senza regola, che non
pretendono di “raccontare quell’anno” secondo un’ottica da tv
commerciale (“un anno della nostra storia”), ma tentano semmai di
costituire una sorta di valvola di sfogo. Sono immagini che provengono
dagli archivi Rai, da quelli di Fuori orario, da
molti altri archivi e da alcune fonti che all’epoca si sarebbero dette
di “controinformazione”, oltre che da qualche film di quell’anno.
Non è un come eravamo nostalgico,
ma un film che ci può aiutare a capire meglio anche l’oggi: perché il
’77 produsse tanti eventi, molti anche tragici, e restò un emblema? La
risposta la dà forse Franco Basaglia, il padre della futura legge 180 sui manicomi, che in quegli anni si spese molto per il suo progetto. Dice Basaglia in un frammento: “Si è creato un movimento che si mette dalla parte di chi non ha
e non dalla parte di chi ha” (ah, se la sinistra di oggi facesse tesoro
di quella lezione). Nel ’77 questa spinta ideale si avvertì fortissima e
non si tradusse tanto o soltanto in una prospettiva politica, quanto
piuttosto in una forma sociale.
Chi non aveva in quel tempo erano i giovani,
assetatissimi di futuro, di sapere, di chiavi critiche con cui
controleggere il presente, e dunque pronti ad assaltare le sedi del
vecchio potere prima di tutto culturale. Chi non aveva erano le donne,
che in quel giro di anni rivendicavano il diritto a essere padrone del
loro corpo, fino ad allora gestito da un punto di vista “maschile”; chi
non aveva era chi voleva decidere della propria sessualità in totale libertà.
Ed ecco allora da un lato Roberto Rossellini che pochi giorni prima di morire afferma da Cannes che bisogna fare una rivoluzione culturale, e che il cinema non è lo specchio della crisi, ma serve ad accelerarla. Dall’altro lato ecco Cicciolina
che irrompe nell’universo dei media passando dalle prime radio libere, e
dà a sua volta corpo – letteralmente – al desiderio di liberazione che
percorre una società ancora in larga misura sessuofobica. E, quasi a
sintetizzare rivoluzione culturale e rivoluzione corporale, il fenomeno
dei punk, che esplode proprio nel ’77, e che è l’icona di un corpo quasi
sacrificale, che si vuole negare per rifondarsi. E poi un giovane Nanni Moretti che difende le sue scelte, Sergio Citti che gira un film ingiustamente dimenticato, ma tipico dell’epoca come Casotto, il grande cinema del passato che si spegne con le morti di Charlie Chaplin, Howard Hawks e Henri Langlois.
Il ‘77 fu anche l’anno che certificò il
divario tra i sindacati e l’universo giovanile: Luciano Lama contestato
all’università difendeva al Tg2 il legalitarismo del sindacato,
ma non spendeva parole per cercare di capire che cosa sosteneva
l’opposizione degli studenti alla sua presenza. Nel ’77 è in atto
insomma una decomposizione del corpo sociale, una dissoluzione di un
mondo incalzato da un nuovo mondo, che i movimenti e i partiti della
sinistra non capiscono, con l’unica eccezione dei Radicali.
Così ogni giorno di quell’anno denso è un
giorno in qualche modo simbolico: i raduni dei ragazzi, le
manifestazioni di piazza, le uccisioni di studenti e poliziotti, i
ferimenti (all’epoca si diceva le gambizzazioni) di giornalisti, le
irruzioni in diretta nelle sedi delle radio. “Meglio attivi oggi che radioattivi
domani”, recitava uno striscione di una manifestazione contro il
nucleare. Il film di Luis Fulvio intreccia mille e mille documenti
preziosi e sorprendenti per la loro freschezza, li incastra giocando su
un montaggio volutamente scomposto, che sovrappone fonti sonore e
musicali diverse, fonti fotografiche e cinematografiche, televisive e
radiofoniche, talvolta perfino in maniera fastidiosa. Ma il
fastidio è necessario per rendere conto di un’epoca straripante di idee,
sollecitazioni, spinte contrastanti. Un’epoca segnata da un’energia,
magari confusa e in certi casi male o molto male indirizzata, ma
straordinariamente viva e mai più ritrovata. Di quell’energia l’oggi
flaccido che viviamo avrebbe un gran bisogno.
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