Lo scandalo dei Paradise Papers rischia di mostrare ancora una volta come i ricchi possano legalmente evitare di pagare le tasse. Sarebbe invece il momento di cambiare le regole.
L'Espresso Emiliano Brancaccio
Rischia di rivelarsi un’amara consolazione quella di scorrere i nomi dei titolari di conti segreti riportati nei Paradise Papers . La nuova inchiesta del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi ha il merito di aprire un’altra breccia nel muro di omertà che circonda le pratiche con cui aziende e privati cittadini nascondono capitali nei paradisi fiscali per sfuggire ai prelievi tributari.Tuttavia, come precedenti esperienze insegnano, è probabile che quei conti siano stati in gran parte accesi e gestiti nel rispetto delle norme: con l’aiuto di consulenti specializzati nel cosiddetto “tax avoidance”, è oggi possibile nascondere al fisco ingenti capitali senza per forza oltrepassare i limiti della legge. Anche stavolta potremmo dunque ritrovarci a contare un numero di imputazioni e di condanne relativamente modesto, per non dire risibile, rispetto all’enorme quantità di soggetti coinvolti nelle operazioni e alla gigantesca quantità di miliardi sottratti alle autorità fiscali.
L’impunità dei potenziali elusori citati nei Paradise Papers non deve meravigliare. Da più di un trentennio le legislazioni fiscali sono orientate a favorire la concorrenza tra gli Stati in materia di abbattimento delle imposte a carico dei ricchi. Tra i liberisti che salutano con entusiasmo questa tendenza c’è pure chi è arrivato a sdoganare gli stessi paradisi fiscali, considerandoli una garanzia di libertà dei privati contro l’ingordigia tributaria delle autorità pubbliche. Qualche anno fa un economista italiano che insegna negli Stati Uniti teorizzò che il benessere collettivo tanto più migliora quanto più i governi incontrino difficoltà nel reperire informazioni sui redditi dei contribuenti, magari perché questi si avvalgono di conti anonimi situati in qualche isola dei Caraibi. Questa concezione dei paradisi fiscali come opere di bene già da sola suscita inquietudine. Il guaio è che oggi risulta persino superata: come gli esiti delle recenti inchieste dimostrano, anche quando le informazioni sui conti segreti siano rese di pubblico dominio i loro titolari rischiano ben poche ritorsioni.
Temo dunque sia insufficiente l’appello di Thomas Piketty e di altri trecento economisti che hanno invocato un accordo globale sulla circolazione delle informazioni tributarie per neutralizzare i paradisi fiscali. Anche ammettendo che un’intesa del genere sia raggiungibile, il problema è che la pubblicità delle informazioni da sola non basta. Bisognerebbe piuttosto riconoscere che i paradisi fiscali sono soltanto la manifestazione più sfacciata di un sistema di regole colabrodo che è ormai interamente votato ad alimentare una sfrenata competizione al ribasso sulla tassazione dei ricchi. Questo sistema, è bene ricordarlo, affonda le sue radici nelle politiche di liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitali. L’utilizzo dei conti cifrati, delle società di comodo e delle altre diavolerie dell’elusione tributaria è solo una delle spiacevoli conseguenze della progressiva scomparsa di vincoli legali all’indiscriminato spostamento di capitali da un luogo all’altro del mondo.
Sarebbe interessante se dall’indignazione suscitata dai Paradise Papers scaturissero iniziative politiche per reintrodurre limiti alla libertà di movimento dei capitali verso i paradisi fiscali e verso i paesi conniventi con essi. In quel caso potremo dirci sulla strada verso una comprensione generale del problema e magari verso una sua risoluzione.
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