di Marta Fana - Simone Fana
Di ritorno dalla California, Renzi si imbatte nella difesa del lavoro, come principio sui cui la Repubblica italiana si fonda, con questa argomentazione respinge l’idea del reddito di cittadinanza che al contrario del lavoro è, secondo lui, incostituzionale. Un atteggiamento che rasenta il paradosso, ma anche una non banale dose di approssimazione su argomenti chiave: il lavoro, il reddito, l’autodeterminazione individuale e collettiva, la libertà.
Paradossalmente Renzi parla di lavoro come diritto costituzionalmente garantito nonostante le riforme adottate dal suo governo in materia di lavoro e occupazione siano ben distanti dai principi fondamentali della Carta.
Il lavoro e la costituzione.
A partire dalle periferie del mercato del lavoro, quello gratuito, in appalto o a voucher in cui sono negati i diritti previsti dall’art 36 della Costituzione in base al quale “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. […] Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. La frantumazione del mondo del lavoro perseguita, volontariamente, per mezzo delle riforme di flessibilizzazione e liberalizzazione disinnesca altri ben più profondi principi costituzionali.
Parliamo dell’articolo 3 che dota la Repubblica dell’obiettivo dell’eguaglianza sostanziale, o giustizia sociale che dir si voglia, e si adopera per eliminare tutti quegli ostacoli che impediscono “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione economica” oltre che politica e sociale. Dove però l’organizzazione economica a cui i padri costituenti facevano riferimento è antitetica a quella che poggia sullo sfruttamento e più in generale sulle tendenze del capitalismo contemporaneo. Così la precarizzazione dei lavoratori non è solo un fattore di instabilità economica, ma, attraverso la mercificazione del rapporto di lavoro, disinnesca la capacità dei lavoratori, organizzati o meno, di incidere sulle scelte aziendali, sull’organizzazione del lavoro in termini di salari, tempi di lavoro ma anche investimenti quindi di partecipare allo sviluppo economico del Paese. Un paradigma che investe non solo le periferie e i bassifondi del mercato del lavoro, ma anche quello che un tempo ne poteva essere considerato il centro, cioè un rapporto di lavoro stabile portatore pieno di diritti.
Il divorzio tra costituzione e diritto del lavoro vive anche in altri provvedimenti cardine del Jobs Act, ad esempio il demansionamento in base al quale il lavoratore può essere relegato a mansioni inferiori mediante una decisione unilaterale del datore di lavoro purché supportata da una «modifica degli assetti organizzativi aziendali». In questo caso, ad essere manomesso è l’articolo 35 della Carta Costituzionale secondo cui “la Repubblica cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”. Decisione unilaterale che non riguarda solo il demansionamento ma investe molti aspetti del rapporto di lavoro a partire dal diritto di licenziamento anche senza giusta causa e soprattutto senza diritto al reintegro per il lavoratore. In sintesi, da un lato, alle imprese è attribuita piena discrezionalità su tutti i fronti: quanto e quale lavoro, quale produzione e quali processi produttivi. Dall’altro lato, l’impresa non è più tenuta ad essere responsabile della tenuta democratica del Paese, contrariamente a quanto sancisce l’articolo 2 della Costituzione: “La Repubblica richiede […] l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Il lavoro di cittadinanza
Se questa è la prospettiva perseguita dalle riforme promosse dai governi e approvate dai Parlamenti che si sono succeduti negli ultimi decenni, tra cui quello presieduto da Matteo Renzi, l’evocazione di un “lavoro di cittadinanza” apre a valutazioni inquietanti. Infatti, il divorzio tra Costituzione e diritto del lavoro si è tramutato non soltanto in una deflazione salariale senza precedenti, la quale erode progressivamente la quota salari sul totale del reddito nazionale aumentando le diseguaglianze socio-economiche, ma ha permesso che la competitività del tessuto imprenditoriale fosse fondata sul costo del lavoro e non invece sulla qualità dei prodotti e dei processi produttivi. Ad oggi, come mostra il rapporto European Job Monitor 2016 dell’Eurofound, le posizioni lavorative create tra il 2011 e il 2015 si concentrano nel venti percento dei lavori retribuiti peggio. Una dinamica che persiste e che riguarda ormi tutte le forme di lavoro. Se in parte questa tendenza è legata a un’occupazione in settori scarsamente qualificati e qualificanti per il lavoro, come il turismo, il commercio al dettaglio, la logistica, dall’altro rimane intatta la deflazione salariale anche all’interno di comparti industriali i quali tuttavia scontano lo scarso investimento in innovazione di cui si è appena detto.
A ben vedere nell’attuale condizione del tessuto produttivo, il lavoro di cittadinanza non può che tradursi nella distribuzione di un dovere al lavoro senza il riconoscimento di alcuna dignità per i lavoratori. Tanto nel settore privato quanto in quello pubblico che oggi promuove lavoro di scarsa qualità e con sempre minori diritti, come dimostra l’uso intensivo dei voucher e del ricorso al lavoro gratuito, ormai sempre meno mascherato da volontariato, da parte delle amministrazioni pubbliche.
Le dichiarazioni dell’ex Presidente del Consiglio ed ex Segretario del Partito Democratico, Matteo Renzi, vanno allora collocate più in un attacco alla proposta di reddito di cittadinanza del M5S che in una rinnovata, benché confusa, idea della centralità del lavoro e della sua dignità come fattore di riassorbimento delle crescenti diseguaglianze. L’enfasi posta sui meccanismi di redistribuzione del reddito e della ricchezza come risposta all’aumento delle diseguaglianze sembra raccogliere ampio consenso in larghi strati delle forze politiche e dell’opinione pubblica. Una discussione che a ben vedere non appassiona, invece, l’ex capo del governo, più attento a non urtare gli umori del blocco sociale che lo ha sostenuto e con cui continua ad interloquire, da Confindustria alle grandi banche d’affari.
Reddito come redistribuzione non si occupa del chi come e cosa produrre
Nel frattempo, da destra a sinistra emergono opinioni comuni sulla necessità di introdurre misure che allevino le disparità interne al mercato del lavoro e che riducano i differenziali tra la parte più ricca della popolazione e ampie fasce di società condannate ad un regime di bassi salari e disoccupazione. Nella molteplicità delle posizioni sul tema è possibile distinguere due impostazioni: da una parte chi rivendica l’introduzione di misure di sostegno al reddito che rispondano ai periodi di disoccupazione e non lavoro e quindi inserite in una riforma degli ammortizzatori sociali; dall’altra chi attribuisce al diritto al reddito una funzione di emancipazione individuale non legata al “lavoro”, quindi reddito come diritto universale di base: come architrave di un nuovo patto sociale e costituzionale.
È indubbio che l’introduzione di una misura universalistica di sostegno al reddito è necessaria e consentirebbe di dare una risposta immediata alla vulnerabilità sociale di intere fasce di lavoro povero e di persone prive di occupazione, oltre a rappresentare uno strumento di difesa contro il ricatto di lavoro sottopagati e privi di tutele.
Senza entrare nel merito delle due opzioni, è utile sottolineare come entrambe tendano a separare la questione “redistributiva” dalla dimensione più propriamente distributiva, legata quindi al controllo dei processi di produzione e alle implicazioni che queste assumono nel determinare l’ammontare di reddito prodotto e la sua allocazione primaria. Un tema che appare invece centrale nel leggere le trasformazioni che attraversano gli assetti produttivi – il cosa e come si produce – e le dinamiche di accumulazione capitalistica – dove va il reddito prodotto tra salari e profitti.
Detto altrimenti, entrambe le impostazioni esulano dall’includere nella propria analisi domande sul chi, come e cosa produrre, relegando il tema del controllo degli investimenti e più in generale il problema dell’organizzazione del lavoro e degli assetti proprietari a fatto secondario. I processi di privatizzazione e il trasferimento al mercato degli oligopoli privati di interi settori strategici, dal trasporto all’energia, dalle telecomunicazioni e al settore del credito perdono di importanza, quando non addirittura estromessi dalla discussione.
Ne emerge una prospettiva comune in cui il piano delle lotte nei luoghi di lavoro è scisso dalle scelte politiche. Viene separato cioè il terreno della rivendicazione di potere nell’allocazione dei fattori della produzione, capitale e lavoro (salari e profitti), dalla riforma dello stato e dei suoi rapporti con il mercato (a chi spettano le decisione sul chi e come e quanto produrre). La redistribuzione del reddito diventa speculare all’ideologia della “fine del lavoro” che, prefigurando la scomparsa del lavoro vivo attraverso l’introduzione della tecnologia, finisce per sciogliere la portata dello scontro tra capitale e lavoro in una dimensione esclusivamente riproduttiva, cioè di gestione del tempo liberato dal lavoro tra consumo e vita privata. Ma così facendo si finisce per ignorare gli assetti che a monte producono le diseguaglianze di potere, tra chi vende la propria forza lavoro e chi ne acquista la proprietà, tra chi decide cosa produrre e chi solo il diritto di consumare.
Un discorso che appare altresì miope al cospetto della realtà italiana. Quando si parla della fine del lavoro in Italia, bisogna guardare in faccia la realtà: l’assenza di domanda di lavoro dovuta alla sottoutilizzazione degli impianti nel presente e futuro prossimo e allo stesso tempo a un impoverimento della produzione stessa. Situazione che deriva dal crollo della capacità produttiva italiana, oltre il 20% nell’ultimo decennio, accompagnato da un crollo del 30% degli investimenti, mai recuperato e non dall’automazione sfrenata dei processi produttivi.
Consumo come unica fonte di autonomia
Nel momento in cui il reddito viene elevato a strumento necessario e sufficiente per l’emancipazione, l’unico terreno di liberazione appare quello del consumo. Naturale conseguenza è la netta separazione tra chi detiene il capitale e comanda la produzione e chi consuma. Scompare l’idea che possa esistere una soggettività collettiva, la classe sociale, che si forma nel conflitto produttivo e prova a rovesciarne gli attuali assetti proprietari e di organizzazione sociale.
In quest’ottica, l’emancipazione attraverso il consumo, in un modello capitalistico dominato dalla proprietà privata, è presto esaurita. A maggior ragione in un contesto in cui i bisogni sono eterodiretti a vantaggio dei produttori attraverso gli oligarchi della grande distribuzione. Considerazioni che si traducono sul piano dell'organizzazione sociale in fenomeni di individualizzazione e frammentazione dei soggetti più vulnerabili, agendo in controtendenza rispetto a processi di ricomposizione sociale e di lotta politica.
Lo sanno bene quegli imprenditori, come Bill Gates, che oggi si dicono disposti a tassare i robot per risarcire i lavoratori espulsi dai processi produttivi a causa della tecnologia. Siamo di fronte a un compromesso necessario per i capitalisti che necessariamente devono garantire a loro stessi prima ancora che al resto della popolazione, la possibilità di consumo, cioè di sbocco per le proprie merci, materiali e immateriali che siano.
Rimanendo sul piano strettamente italiano, l’impoverimento della struttura produttiva e il crollo degli investimenti hanno aggravato un altro fondamentale aspetto relativo alla produzione: la dipendenza tecnologica dall’estero. L’Italia non soltanto è importatrice netta di materie prime, ma oggi anche di tecnologia su un ampio spettro di settori. Questa forma di subalternità produttiva non può essere scissa dalla capacità anche solo redistributiva – di usare la tassa sui robot per finanziare reddito – in un contesto globalizzato e di piena mobilità dei capitali.
Disoccupazione tecnologica: liberazione dal lavoro o distribuzione del lavoro e controllo proprietà’
A John Maynard Keynes si deve la definizione di disoccupazione tecnologica, intesa come processo che avrebbe stravolto il rapporto tra macchine e lavoro umano, nella direzione della riduzione dei posti di lavoro attraverso l’intensificazione del progresso tecnologico. L’intuizione di Keynes acquista, nella fase attuale del capitalismo globalizzato, particolare interesse, attirando la curiosità del mondo accademico e delle forze politiche. Un primo elemento che andrebbe approfondito rispetto al rapporto tra processi di automazione e aumento dei livelli di disoccupazione riguarda la trasformazione settoriale del mercato del lavoro e la polarizzazione sempre più profonda tra lavoro dequalificato e lavoro ad alto contenuto di competenze. In questo senso, guardando al contesto italiano, risulta evidente che l’innovazione tecnologica in ampi settori dalla grande distribuzione al delivery non abbiano affatto ridotto la domanda di lavoro da parte delle imprese, ma abbia invece allargato le differenze interne al mercato del lavoro, spingendo sempre più verso una domanda di lavoro a bassi salari e privi delle tutele sindacali minime. Il mutamento pare quindi più legato alla composizione e alla qualità della domanda di lavoro piuttosto che alla dimensione numerica e quantitativa.
Non si spiegherebbe diversamente il ricorso massiccio a forme di lavoro, già richiamate in precedenza, ad alta intensità di sfruttamento, come testimoniato dall’impennata dei voucher, dei tirocini, del lavoro in appalto e del lavoro gratuito. Nel contesto del nostro paese questi elementi assumono ancora più pregnanza, tenuto conto dei bassi tassi di investimento pubblico e privato in ricerca e sviluppo, allargando la domanda di lavoro in settori a basso valore aggiunto.
La tendenza alla compressione dei diritti del lavoro spiega l’emergere di contraddizioni sempre più ampie tra processi di automazione e composizione della forza lavoro, evidenziando una non linearità tra robotizzazione e perdita dei posti di lavoro. Lungi dal richiedere meno lavoro, l’introduzione di macchinari ad alto contenuto tecnologico sembra dar ragione a Marx, che vedeva nell’introduzione delle macchine un’intensificazione del comando sui tempi di lavoro e sulle condizioni normative e salariali del lavoro. Il tema che sembra ineludibile diventa quindi quello del controllo e del governo dei processi di innovazione tecnologica, nella direzione di una diversa combinazione dei fattori produttivi. Anche qui, il conflitto sull’organizzazione del lavoro e quindi sull’allocazione degli investimenti, diventa il terreno necessario per imprimere una direzione alternativa ai processi di accumulazione. Ed è in questo quadro che misure di redistribuzione dell’orario di lavoro possono svolgere una funzione di controllo sulla domanda di lavoro, riducendo lo spazio dell’impresa nell’utilizzo di forza lavoro a basso costo e priva di tutele giuridiche e sindacali.
Contro la tendenza delle imprese ad utilizzare contratti di lavoro precari ed alta intensità di sfruttamento, oramai indipendentemente dalle fluttuazioni del ciclo economico, la riduzione dell’orario consente di determinare un vincolo sull’organizzazione del lavoro – quanto e in quanti si lavora – e sulla combinazione dei fattori produttivi – quali investimenti. Una prospettiva diametralmente opposta rispetto ad una tendenza manifestatasi prima con il decreto Poletti e poi con il Jobs Act che hanno assicurato all’impresa piena disponibilità nel controllo della forza lavoro. L’introduzione di politiche di redistribuzione del tempo di lavoro consentirebbero inoltre di gestire nell’ottica dei lavoratori e delle lavoratrici il governo dei processi tecnologici, i quali senza un processo decisionale collettivo, che coinvolga quindi anche i lavoratori, diventano terreno fertile per i vecchi e nuovi capitani d’industria, interessati unicamente ad aumentare i profitti a discapito dei salari.
Solo riunendo le ragioni di un protagonismo nella sfera della produzione con le rivendicazioni di un tempo liberato dal dominio del mercato è possibile aprire una prospettiva alternativa ad un modello di società che continua ad escludere larghi strati sociali dal pieno godimento di diritti civili, politici e sociali.
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