La vittoria del 4 dicembre e la
Costituzione come bene comune
Con il referendum del 4 dicembre 2016 quasi il 60 per cento degli
italiani ha rigettato una riforma costituzionale che modificava
caratteri fondamentali della nostra democrazia parlamentare. Un
risultato per nulla scontato, vista la sperequazione di mezzi fra le
forze in campo a sostegno del Sì e del No. Una vittoria favorita dal
protrarsi della campagna referendaria che ha permesso ai Comitati del
No di spiegare che quella riforma, presentata come “moderna” e
“innovativa”, avrebbe, in realtà, minato alla base le forme
della sovranità, l’equilibrio fra i poteri, gli spazi di libertà
e di partecipazione dei cittadini. In definitiva, il grado di
democraticità dell’ordinamento.
Un corpo elettorale sfiduciato e intollerante nei confronti
del dibattito politico degli ultimi anni ha determinato un’inversione
di tendenza rispetto ai dati diffusi dai sondaggisti, riscoprendo
nella difesa della Costituzione del ’48 le ragioni di una rinnovata
passione civile e democratica. Non è un caso che, in epoca di
massimo astensionismo elettorale, si sia registrata la più alta
affluenza al voto fra le consultazioni referendarie sulla
Costituzione, pari al 65,47 per cento degli aventi diritto. Una
partecipazione così alta va ben oltre la capacità di mobilitazione
politica delle opposizioni. Ciò che ha portato alle urne molti
cittadini estranei agli schieramenti politici e, in particolare, i
più giovani è stata la riscoperta della Costituzione come bene
comune e fondamento della società.
Non sta nella Costituzione – nonostante le affermazioni della
propaganda governativa – la causa della crisi economica, sociale e
politica ormai strutturale, perseguita da poteri economici e da
strategie finanziarie sovranazionali per condizionare i bilanci e le
scelte di politica economica e sociale degli Stati. Al contrario, la
Costituzione, il suo progetto solidarista, di uguaglianza e di pari
dignità fra i cittadini, il welfare, l’intervento dello Stato
nell’economia, la separazione fra i poteri, l’autonomia dei corpi
intermedi, la preminenza degli organi rappresentativi su quelli
esecutivi sono l’ultimo baluardo contro il neoliberismo globale che
ha imposto, di fatto, l’egemonia dei mercati sulle democrazie,
delle manovre speculative sui bilanci pubblici, dei profitti di pochi
sui diritti dei più.
All’indomani del referendum c’è un dato politico da cui
muovere. La Costituzione, questa Costituzione, sostenuta in modo così
rilevante dal voto di donne e uomini, aspetta da quasi 70 anni di
essere attuata in molti suoi punti essenziali. È, dunque, arrivato
il momento di dar seguito a questo dato politico: la maggioranza
degli italiani continua a riconoscersi nella Costituzione e vorrebbe
vederla finalmente attuata.
Intendiamoci. La Costituzione non è perfetta né intoccabile, e
non c’è in essa un programma politico univoco, capace di
imbrigliare i diversi governi e blindare l’indirizzo politico. Ma
se è vero che racchiude in sé la sintesi di diverse concezioni
politiche e ideologiche, è altrettanto vero che essa disegna un
orizzonte di principi e di diritti fondamentali comuni e
inderogabili, che devono essere alla base di ogni programma di
governo, pur di diverso orientamento. La sintesi di questo orizzonte
è semplice: la modernità non richiede il taglio dei diritti, la
mortificazione delle istituzioni rappresentative, la preminenza di
poteri monocratici sulle assemblee plurali e rappresentative, il
condizionamento da parte degli esecutivi dei poteri di controllo e di
garanzia. Al contrario, emergono in maniera sempre più pressante
l’insufficienza della democrazia rappresentativa (o meramente
rappresentativa) e, con essa, la necessità di un effettivo controllo
dei rappresentati nei confronti dei rappresentanti, di strumenti
attraverso i quali i cittadini possano esprimersi direttamente su
scelte politiche e amministrative specifiche, di corpi intermedi
trasparenti e democratici che partecipino alla formazione degli
indirizzi politici.
La sfida che abbiamo davanti – ne siamo ben consapevoli – non
riguarda solo il merito, ma anche il metodo democratico, che supera,
peraltro in una prospettiva di completamento (e non di ribaltamento),
gli strumenti di democrazia diretta e partecipativa previsti in
Costituzione e mai adeguatamente attuati. Il caso più eclatante è
quello delle leggi di iniziativa popolare, costantemente frustrate e
rese “inoffensive” dalla mancanza di un obbligo di
calendarizzazione a data certa nell’agenda dei lavori parlamentari,
agevolmente prevedibile, senza toccare la Costituzione, con una
semplice modifica dei regolamenti parlamentari. Lo stesso discorso
vale per i referendum abrogativi, per la cui reale e più ampia
fruibilità basterebbe modificare la legge istitutiva del 1970,
consentendo la raccolta e l’autenticazione delle firme per via
telematica, anticipando il giudizio di ammissibilità della Corte,
inserendo nei regolamenti parlamentari l’obbligo di dare seguito in
tempi certi alle decisioni di natura abrogativa che l’esito
favorevole di un referendum determina1. Ancora, per quanto attiene la
partecipazione democratica nei sindacati, nei partiti e nei movimenti
politici, occorre dare finalmente attuazione agli artt. 39 e 49 della
Costituzione, senza peraltro dimenticare che per una effettiva
partecipazione politica, prima ancora di individuare uno statuto
democratico dei partiti, è necessario riconoscere specifici diritti
di partecipazione e controllo da parte di ogni iscritto sulle
decisioni del proprio partito e corrispondenti forme organizzative
aperte che prevedano la garanzia della separazione fra cariche
politiche, organi di controllo e rappresentanti nelle istituzioni.
Di più, molte sono le sfide che pongono una società globalizzata
e le rivoluzioni informatica, tecnologica e bio-tecnologica in atto,
che meriterebbero l’implementazione dell’elenco dei diritti
riconosciuti e tutelati dalla Carta e il ripensamento di alcune forme
di espressione e di istituti democratici. Tutto ciò, però, al fine
di elevare le garanzie per i cittadini e le modalità di esercizio
della sovranità popolare, non per ridurne la portata e l’ampiezza,
in nome di una “semplificazione” e “velocizzazione”
dell’azione di governo che – come avvenuto per le ultime riforme
– nascondono fini surrettizi e ulteriori di accentramento di poteri
e depotenziamento della democrazia, più che di miglioramento della
vita delle persone e dell’organizzazione dello Stato.
È proprio l’esigenza di ripensare il nostro ordinamento su
livelli più avanzati di tutela dei diritti politici, modelli
democratici ed equilibri fra vecchi e nuovi poteri, che suggerisce di
adottare, in materia elettorale, un sistema proporzionale – già
sottinteso dal Costituente, seppur non esplicitato nella Carta – in
modo da garantire non solo un equilibrio democratico fra
rappresentanza e governabilità, ma anche la diretta espressione
degli eletti dal corpo elettorale. C’è un’esigenza ulteriore che
sostiene la scelta proporzionale: solo un parlamento veramente e
autorevolmente rappresentativo può affrontare una stagione di
riforme democratiche capaci di far uscire il Paese dalla crisi. Solo
riforme ampiamente condivise – e non esposte allo spoils system
delle leggi cui assistiamo al cambio di ogni maggioranza – possono
garantire quella stabilità delle regole democratiche che il “mito
della governabilità”, ostinatamente perseguito (e neppure
realizzato!) in questi anni con i modelli maggioritari, non è stato
in grado di realizzare.
Ma per far questo non serve stravolgere la Costituzione. Serve
attuarla e implementarla, anche rivedendo alcune recenti riforme
ispirate da quel «neo-funzionalismo»2 delle norme costituzionali ai
mercati che ha caratterizzato gli ultimi governi di centro-destra e
centro-sinistra. A partire dalla modifica dell’art. 81 Cost. e
dall’inserimento del pareggio di bilancio, che solo recentemente la
giurisprudenza della Corte costituzionale (con la sentenza n. 275 del
2016) ha riportato nell’alveo di un’interpretazione orientata
all’inviolabilità e alla preminente tutela dei diritti
fondamentali. O dalla riforma del Titolo V della Costituzione, che ha
sacrificato il principio solidarista e l’equilibrato ed equo
sviluppo del Mezzogiorno alle sirene leghiste, con risultati
fallimentari e con l’ampliamento della forbice fra territori più
ricchi e territori più poveri. Dimenticando che il Paese non va
avanti se non torna a essere unito nella reale fruibilità dei
diritti, nelle uguali opportunità di crescita, nelle politiche
sociali ed economiche, prima ancora che nell’organizzazione
pubblica e istituzionale.
Ripartire dalla sovranità
popolare
Il rilancio dei diritti costituzionali passa attraverso il rilancio
della sovranità e della partecipazione democratica: si tratta di un
binomio inscindibile. La crisi in cui versa la politica e il
ripetersi di formule logore e inadeguate a invertire la rotta,
perseguite da governi piegati a logiche neoliberiste, dimostrano che
è necessario un nuovo inizio. Un inizio che riparta, appunto,
dall’attuazione della Costituzione3.
I popoli si danno le Costituzioni perché esse vengano attuate,
prendano vita nella società che disegnano, ispirino le leggi che da
essa promanano. Perché ciò accada non è sufficiente una volontà
costituente, che ne sostenga il momento della scrittura, è
necessario che questa volontà permanga nella fase, lunga e delicata,
dell’attuazione in cui la forza dei principi rischia di degradare
dal carattere cogente e imperativo, che è loro proprio, a una
funzione puramente programmatica ed esortativa. È per questo
che, a partire dall’approvazione delle Carte, inizia un “percorso
costituente” non meno importante del momento della redazione, in
cui i principi e le norme di rango costituzionale sono chiamati a
svolgere il ruolo per cui sono stati pensati e positivizzati:
costruire quella società nell’ordinamento giuridico, negli
equilibri istituzionali, nei modelli economici, nella vita reale
delle persone. E se è vero che nella Costituzione esistono diverse
tracce a cui attingere per realizzare un programma di governo, è
altrettanto vero che alcuni pilastri, espressi soprattutto (ma non
solo) nei principi e nei diritti fondamentali, definiscono un
progetto di società che non può essere eluso, scavalcato, tradito.
C’è un nocciolo duro di principi, libertà, diritti e doveri dei
singoli e delle istituzioni che non può essere raggirato o rimosso,
né da un assetto economico che si muove in direzione contraria a
quella costituzionale, né da una politica debole, complice o
incapace di darle attuazione. La politica, le istituzioni servono a
realizzare quella promessa e quel programma democratico. A tale
compito vanno richiamate, liberandole dal pensiero unico imposto
dall’avanzata del neoliberismo su scala globale, che ha piegato il
diritto e i diritti alle ragioni di una oligarchia finanziaria
sovraordinata agli Stati, che ha imposto un modello di sviluppo
rapace e autoritario, che non tollera limiti e regole alla sua
espansione e sete di profitti, che vede nelle Costituzioni
democratiche un ostacolo da eliminare, o da rendere altrimenti
inoffensive.
Una Repubblica democratica
fondata sul lavoro, sulla dignità, sull’uguaglianza
Nei decenni passati la Costituzione, quando non apertamente
contestata e delegittimata, è stata ridotta a un testo da celebrare
negli anniversari, ma sostanzialmente ininfluente nelle dinamiche
reali della società, in una sorta di vuota retorica costituzionale.
Occorre ribaltare il tavolo. E andare anche oltre. Dobbiamo
pretendere che la Costituzione viva, che non ci siano più spazi per
una “programmaticità” eventuale e futura, ma solo per
un’attuazione completa e ambiziosa. Abbiamo un orizzonte
“costituente” da realizzare che parta dai diritti fondamentali,
dalla proporzionata ripartizione dei doveri, dalla democrazia
costituzionale per raggiungere un fine ulteriore, quello della
costruzione di una società giusta ed equa, una società di diritti,
in cui ognuno possa perseguire il proprio diritto alla felicità,
come individuo e come popolo.
Così la Costituzione e la sua attuazione diventano la base di un
programma politico, a partire dai fondamentali, indicati nei
suoi primi articoli. Sovranità, dignità delle persone, diritti
inviolabili, lavoro, uguaglianza e pari dignità sociale, pluralismo,
divieto di discriminazioni, ruolo dello Stato nella rimozione degli
ostacoli al pieno sviluppo della persona umana.
Iniziamo con il lavoro, il primo dei diritti citati fin dall’art.
1 Cost., accanto alla sovranità popolare e alla forma repubblicana e
democratica dello Stato.
Nessun popolo, nessun cittadino può essere libero se non ha a
disposizione i mezzi per garantire a se stesso e ai suoi cari
un’esistenza libera e dignitosa (artt. 1, 4, 36 Cost.). In una
società in cui il lavoro è diventato una merce, spesso di scambio
per barattare la propria sopravvivenza con il voto o con altri
diritti, l’idea stessa di democrazia è compromessa. Occorre
ripartire da qui e dall’art. 3, cuore e architrave del nostro
modello costituzionale, che, nel sancire il principio di uguaglianza
e pari dignità sociale di tutti i cittadini, affida allo Stato il
compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese». Questo assunto muove da una
considerazione e da un principio cogente: il mercato da solo non
basta, anzi, non può essere per sua natura soggetto propulsore di un
lavoro e di uno sviluppo orientati alla dignità, alla equa
remunerazione, all’uguaglianza di condizioni fra i lavoratori. Il
mercato mira a creare profitti. Lo Stato crea democrazia, che in
un’accezione sostanziale significa garantire diritti, sviluppo,
equa ripartizione dei doveri.
Insomma, bisogna ripartire dallo Stato e dalla funzione affidata
dalla Costituzione ai pubblici poteri per la realizzazione di una
democrazia compiuta nei diritti, prima che nelle forme e negli
equilibri istituzionali. Tanto più in costanza di una crisi che ha
drasticamente ridotto le opportunità di lavoro, decapitato i diritti
dei lavoratori e cancellato più di una generazione, di giovani e
meno giovani, dal mondo del lavoro. Il diritto e l’accesso al
lavoro, la dignità e la tutela dei lavoratori, un reddito minimo
garantito, l’avviamento dei giovani, la formazione continua, la
riqualificazione e ricollocazione di chi il lavoro lo ha perso devono
essere la priorità delle politiche pubbliche. E se parliamo del
diritto al lavoro, così come delineato dalla Costituzione, dobbiamo
immaginare non un lavoro qualsiasi, ma un lavoro che valorizzi
qualità e talenti dei singoli, che garantisca un’esistenza libera
e dignitosa per sé e per la propria famiglia, e sia, quindi,
equamente remunerato, in rapporto al tempo e senza discriminazioni di
genere4.
Questo chiede la Costituzione. Ma non basta. In un Paese in cui la
disoccupazione ha raggiunto livelli record, lo Stato deve farsi
promotore di politiche permanenti per la creazione di nuovi posti di
lavoro e, in particolare, di lavori che i privati non hanno interesse
o convenienza a creare. Si pensi alle potenzialità della ricerca,
pura e applicata: uno dei settori più promettenti per l’incremento
diretto e indiretto della ricchezza e del benessere di un Paese,
costantemente mortificato da tagli miopi e crescenti. E, ancora, alle
innumerevoli possibilità di interventi nel settore della tutela e
valorizzazione dei beni artistici e culturali, della protezione
dell’ambiente, della tutela e messa in sicurezza del territorio. O
all’implementazione del personale dei servizi socio-assistenziali,
oggi inadeguati, se non assenti, in intere aree e settori e,
comunque, dotati di risorse e finanziamenti insufficienti,
soprattutto nelle Regioni più povere e con minore capacità fiscale.
Sono solo alcuni esempi di un lungo elenco.
In ultimo, occorre rivedere i tempi del lavoro e la durata massima
della giornata lavorativa che la Costituzione richiede sia stabilita
per legge. Non è democratica una società in cui chi ha un lavoro a
tempo indeterminato, è spesso costretto a tenerselo rinunciando ai
propri diritti e senza distinzione fra lavoro ordinario e
straordinario, mentre molti (se non i più) non conoscono altro che
precariato, o lavoro nero, o lavoro povero. Come dice un vecchio
adagio, non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere. E la vita,
pubblica e privata, richiede tempo: tempo da dedicare agli affetti,
alla famiglia, alla propria formazione e informazione, alla vita
sociale, alla partecipazione pubblica e politica. Il tempo è una
funzione della partecipazione, proporzionale al grado di
democraticità di un sistema e della possibilità di vivere una vita
soddisfacente, non piegata alle esigenze della produzione e della
massificazione sociale. Non è estremismo, né utopia, soprattutto in
una situazione economica in cui, anche sotto il profilo economico
generale, per lavorare tutti, occorre lavorare di meno.
Diritti sociali e ruolo dello
Stato
Se dignità e lavoro sono il perno della Costituzione e di una
politica con essa coerente, il discorso non può che estendersi, sia
pur solo per cenni, agli altri diritti sociali e ai connessi obblighi
dello Stato, cui compete un ruolo attivo nell’allocazione delle
risorse, nella predisposizione delle strutture, nella programmazione
degli interventi, nella organizzazione e agevolazione di processi di
sviluppo. Perché solo così possono essere superate quelle
“dis-eguaglianze”, quelle “in-giustizie”, quegli ostacoli al
«pieno sviluppo delle persona umana» che, accanto al riconoscimento
e alla tutela dei diritti inviolabili e all’adempimento dei doveri
di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2), sono i primi
obiettivi che la Costituzione affida ai pubblici poteri.
L’elenco degli impegni al riguardo è fin troppo semplice:
istruzione pubblica e gratuita, salute e sanità pubblica di alto
profilo per tutti e non solo per chi può permettersi cliniche o
assicurazioni private, effettività del diritto alla casa, giustizia
rapida ed equa, tutela dell’ambiente attraverso un grande progetto
di manutenzione e risanamento del territorio. Non è il libro dei
sogni, magari in chiave elettorale; è il ribaltamento, in una
prospettiva costituzionale, della politica praticata, in modo
rigorosamente bipartisan, in questi anni. Un ribaltamento fondato
sulla convinzione che il welfare non è un lusso per i periodi di
vacche grasse, ma uno strumento strutturale di uno Stato democratico,
per realizzare quell’uguaglianza e quella solidarietà senza le
quali la democrazia non esiste. E, insieme, un ulteriore motore per
l’economia (come accaduto ovunque, in Europa, nel periodo
successivo alla seconda guerra mondiale). Certo, il welfare va
finanziato: con l’abbattimento degli sprechi e delle spese
militari, con l’abbandono delle grandi opere (tanto inutili quanto
costose), con la lotta reale all’evasione fiscale e alla
corruzione. E ancora, nel medio periodo, con l’incentivazione dei
talenti e delle idee innovative, che devono trovare terreno fertile
nello Stato, delle imprese che creano reddito e lavoro dignitoso,
dell’utilizzo delle nuove tecnologie per ottimizzare processi e
servizi, abbattere la spesa pubblica e permettere una più equa ed
efficiente allocazione delle risorse. Ma anche – occorre dirlo (e
farlo) in modo esplicito – con politiche fiscali alternative a
quelle attuali, in cui destra e sinistra si rincorrono all’insegna
dello slogan demagogico “meno tasse per tutti”. Ancora una volta
la via maestra sta nella Costituzione, il cui articolo 53 dispone:
«Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione
della loro capacità contributiva. / Il sistema tributario è
informato a criteri di progressività». La progressività nelle
imposte dirette e, con essa, un’equa tassazione sui patrimoni e
sugli investimenti finanziari, devono sostanziare una politica, da
opporre a quella corrente, nella quale chi ha di più deve
contribuire in misura maggiore alle esigenze della collettività5.
In definitiva, solo una nuova stagione di impegno, solo un nuovo
costituzionalismo dei cittadini, non più solo delle élite,
intellettuali o politiche, può dar corpo e contenuti a quella
«rivoluzione dell’uguaglianza» invocata da Stefano Rodotà6 che è
il presupposto per l’affermazione di una piena e compiuta sovranità
popolare, diffusa, plurale, partecipata e dotata degli strumenti
necessari per esercitare consapevolmente il potere decisionale e di
controllo nelle e sulle istituzioni nazionali e sovranazionali, che
l’era della globalizzazione impone7.
1 Così G. Azzariti, Dopo
il referendum costituzionale: crisi della rappresentanza e riforma
del Parlamento, in
Costituzionalismo.it,
1/2017, X.
2 G. Azzariti, Dopo
il referendum costituzionale,
cit., III.
3 S. Settis, Costituzione!
Perché attuarla è meglio che cambiarla,
Einaudi, Torino, 2016.
4 Ancora oggi il lavoro delle
donne – per limitarsi a quello visibile, che non tiene conto del
carico di assistenza familiare che, in assenza di servizi di
assistenza sociale corrispondenti ai bisogni e adeguatamente
finanziati, continua a gravare su di loro – viene remunerato fino
al 30 per cento in meno rispetto a quello di un uomo. Circa un terzo
delle donne è costretto, inoltre, a lasciare il lavoro dopo la
nascita di un figlio. Una disparità che si riverbera nel trattamento
pensionistico: circa la metà delle donne non raggiunge i 1.000 euro
di pensione e molte giovani non raggiungeranno i requisiti minimi per
accedere a un trattamento pensionistico.
5 Non v’è in ciò, a differenza
di quanto sostiene il pensiero dominante, nulla di giacobino o di
sovietico
ma una esigenza di giustizia ben presente, fino ad alcuni decenni fa,
anche nei sistemi più liberali. Un esempio per tutti: negli anni
Cinquanta, durante la presidenza di Eisenhower (repubblicano e
conservatore), negli Stati Uniti la fascia di reddito più alta
arriva a pagare un’aliquota marginale perfino più alta del 90 per
cento (Cfr. E. Grande, Guai
ai poveri. La faccia triste dell’America,
Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2017, p. 33).
6 S. Rodotà, Il
diritto ad avere diritti,
Laterza, Roma-Bari, 2013.
7 D. Gallo,
Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia,
Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2013.
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