mercoledì 1 novembre 2017

Attuare la Costituzione di Anna Falcone - estratto da Indicativo Futuro le cose da fare


La vittoria del 4 dicembre e la Costituzione come bene comune
Con il referendum del 4 dicembre 2016 quasi il 60 per cento degli italiani ha rigettato una riforma costituzionale che modificava caratteri fondamentali della nostra democrazia parlamentare. Un risultato per nulla scontato, vista la sperequazione di mezzi fra le forze in campo a sostegno del Sì e del No. Una vittoria favorita dal protrarsi della campagna referendaria che ha permesso ai Comitati del No di spiegare che quella riforma, presentata come “moderna” e “innovativa”, avrebbe, in realtà, minato alla base le forme della sovranità, l’equilibrio fra i poteri, gli spazi di libertà e di partecipazione dei cittadini. In definitiva, il grado di democraticità dell’ordinamento.
Un corpo elettorale sfiduciato e intollerante nei confronti del dibattito politico degli ultimi anni ha determinato un’inversione di tendenza rispetto ai dati diffusi dai sondaggisti, riscoprendo nella difesa della Costituzione del ’48 le ragioni di una rinnovata passione civile e democratica. Non è un caso che, in epoca di massimo astensionismo elettorale, si sia registrata la più alta affluenza al voto fra le consultazioni referendarie sulla Costituzione, pari al 65,47 per cento degli aventi diritto. Una partecipazione così alta va ben oltre la capacità di mobilitazione politica delle opposizioni. Ciò che ha portato alle urne molti cittadini estranei agli schieramenti politici e, in particolare, i più giovani è stata la riscoperta della Costituzione come bene comune e fondamento della società.
Non sta nella Costituzione – nonostante le affermazioni della propaganda governativa – la causa della crisi economica, sociale e politica ormai strutturale, perseguita da poteri economici e da strategie finanziarie sovranazionali per condizionare i bilanci e le scelte di politica economica e sociale degli Stati. Al contrario, la Costituzione, il suo progetto solidarista, di uguaglianza e di pari dignità fra i cittadini, il welfare, l’intervento dello Stato nell’economia, la separazione fra i poteri, l’autonomia dei corpi intermedi, la preminenza degli organi rappresentativi su quelli esecutivi sono l’ultimo baluardo contro il neoliberismo globale che ha imposto, di fatto, l’egemonia dei mercati sulle democrazie, delle manovre speculative sui bilanci pubblici, dei profitti di pochi sui diritti dei più.

All’indomani del referendum c’è un dato politico da cui muovere. La Costituzione, questa Costituzione, sostenuta in modo così rilevante dal voto di donne e uomini, aspetta da quasi 70 anni di essere attuata in molti suoi punti essenziali. È, dunque, arrivato il momento di dar seguito a questo dato politico: la maggioranza degli italiani continua a riconoscersi nella Costituzione e vorrebbe vederla finalmente attuata.
Intendiamoci. La Costituzione non è perfetta né intoccabile, e non c’è in essa un programma politico univoco, capace di imbrigliare i diversi governi e blindare l’indirizzo politico. Ma se è vero che racchiude in sé la sintesi di diverse concezioni politiche e ideologiche, è altrettanto vero che essa disegna un orizzonte di principi e di diritti fondamentali comuni e inderogabili, che devono essere alla base di ogni programma di governo, pur di diverso orientamento. La sintesi di questo orizzonte è semplice: la modernità non richiede il taglio dei diritti, la mortificazione delle istituzioni rappresentative, la preminenza di poteri monocratici sulle assemblee plurali e rappresentative, il condizionamento da parte degli esecutivi dei poteri di controllo e di garanzia. Al contrario, emergono in maniera sempre più pressante l’insufficienza della democrazia rappresentativa (o meramente rappresentativa) e, con essa, la necessità di un effettivo controllo dei rappresentati nei confronti dei rappresentanti, di strumenti attraverso i quali i cittadini possano esprimersi direttamente su scelte politiche e amministrative specifiche, di corpi intermedi trasparenti e democratici che partecipino alla formazione degli indirizzi politici.
La sfida che abbiamo davanti – ne siamo ben consapevoli – non riguarda solo il merito, ma anche il metodo democratico, che supera, peraltro in una prospettiva di completamento (e non di ribaltamento), gli strumenti di democrazia diretta e partecipativa previsti in Costituzione e mai adeguatamente attuati. Il caso più eclatante è quello delle leggi di iniziativa popolare, costantemente frustrate e rese “inoffensive” dalla mancanza di un obbligo di calendarizzazione a data certa nell’agenda dei lavori parlamentari, agevolmente prevedibile, senza toccare la Costituzione, con una semplice modifica dei regolamenti parlamentari. Lo stesso discorso vale per i referendum abrogativi, per la cui reale e più ampia fruibilità basterebbe modificare la legge istitutiva del 1970, consentendo la raccolta e l’autenticazione delle firme per via telematica, anticipando il giudizio di ammissibilità della Corte, inserendo nei regolamenti parlamentari l’obbligo di dare seguito in tempi certi alle decisioni di natura abrogativa che l’esito favorevole di un referendum determina1. Ancora, per quanto attiene la partecipazione democratica nei sindacati, nei partiti e nei movimenti politici, occorre dare finalmente attuazione agli artt. 39 e 49 della Costituzione, senza peraltro dimenticare che per una effettiva partecipazione politica, prima ancora di individuare uno statuto democratico dei partiti, è necessario riconoscere specifici diritti di partecipazione e controllo da parte di ogni iscritto sulle decisioni del proprio partito e corrispondenti forme organizzative aperte che prevedano la garanzia della separazione fra cariche politiche, organi di controllo e rappresentanti nelle istituzioni.
Di più, molte sono le sfide che pongono una società globalizzata e le rivoluzioni informatica, tecnologica e bio-tecnologica in atto, che meriterebbero l’implementazione dell’elenco dei diritti riconosciuti e tutelati dalla Carta e il ripensamento di alcune forme di espressione e di istituti democratici. Tutto ciò, però, al fine di elevare le garanzie per i cittadini e le modalità di esercizio della sovranità popolare, non per ridurne la portata e l’ampiezza, in nome di una “semplificazione” e “velocizzazione” dell’azione di governo che – come avvenuto per le ultime riforme – nascondono fini surrettizi e ulteriori di accentramento di poteri e depotenziamento della democrazia, più che di miglioramento della vita delle persone e dell’organizzazione dello Stato.
È proprio l’esigenza di ripensare il nostro ordinamento su livelli più avanzati di tutela dei diritti politici, modelli democratici ed equilibri fra vecchi e nuovi poteri, che suggerisce di adottare, in materia elettorale, un sistema proporzionale – già sottinteso dal Costituente, seppur non esplicitato nella Carta – in modo da garantire non solo un equilibrio democratico fra rappresentanza e governabilità, ma anche la diretta espressione degli eletti dal corpo elettorale. C’è un’esigenza ulteriore che sostiene la scelta proporzionale: solo un parlamento veramente e autorevolmente rappresentativo può affrontare una stagione di riforme democratiche capaci di far uscire il Paese dalla crisi. Solo riforme ampiamente condivise – e non esposte allo spoils system delle leggi cui assistiamo al cambio di ogni maggioranza – possono garantire quella stabilità delle regole democratiche che il “mito della governabilità”, ostinatamente perseguito (e neppure realizzato!) in questi anni con i modelli maggioritari, non è stato in grado di realizzare.
Ma per far questo non serve stravolgere la Costituzione. Serve attuarla e implementarla, anche rivedendo alcune recenti riforme ispirate da quel «neo-funzionalismo»2 delle norme costituzionali ai mercati che ha caratterizzato gli ultimi governi di centro-destra e centro-sinistra. A partire dalla modifica dell’art. 81 Cost. e dall’inserimento del pareggio di bilancio, che solo recentemente la giurisprudenza della Corte costituzionale (con la sentenza n. 275 del 2016) ha riportato nell’alveo di un’interpretazione orientata all’inviolabilità e alla preminente tutela dei diritti fondamentali. O dalla riforma del Titolo V della Costituzione, che ha sacrificato il principio solidarista e l’equilibrato ed equo sviluppo del Mezzogiorno alle sirene leghiste, con risultati fallimentari e con l’ampliamento della forbice fra territori più ricchi e territori più poveri. Dimenticando che il Paese non va avanti se non torna a essere unito nella reale fruibilità dei diritti, nelle uguali opportunità di crescita, nelle politiche sociali ed economiche, prima ancora che nell’organizzazione pubblica e istituzionale.
Ripartire dalla sovranità popolare
Il rilancio dei diritti costituzionali passa attraverso il rilancio della sovranità e della partecipazione democratica: si tratta di un binomio inscindibile. La crisi in cui versa la politica e il ripetersi di formule logore e inadeguate a invertire la rotta, perseguite da governi piegati a logiche neoliberiste, dimostrano che è necessario un nuovo inizio. Un inizio che riparta, appunto, dall’attuazione della Costituzione3.
I popoli si danno le Costituzioni perché esse vengano attuate, prendano vita nella società che disegnano, ispirino le leggi che da essa promanano. Perché ciò accada non è sufficiente una volontà costituente, che ne sostenga il momento della scrittura, è necessario che questa volontà permanga nella fase, lunga e delicata, dell’attuazione in cui la forza dei principi rischia di degradare dal carattere cogente e imperativo, che è loro proprio, a una funzione puramente programmatica ed esortativa. È per questo che, a partire dall’approvazione delle Carte, inizia un “percorso costituente” non meno importante del momento della redazione, in cui i principi e le norme di rango costituzionale sono chiamati a svolgere il ruolo per cui sono stati pensati e positivizzati: costruire quella società nell’ordinamento giuridico, negli equilibri istituzionali, nei modelli economici, nella vita reale delle persone. E se è vero che nella Costituzione esistono diverse tracce a cui attingere per realizzare un programma di governo, è altrettanto vero che alcuni pilastri, espressi soprattutto (ma non solo) nei principi e nei diritti fondamentali, definiscono un progetto di società che non può essere eluso, scavalcato, tradito.
C’è un nocciolo duro di principi, libertà, diritti e doveri dei singoli e delle istituzioni che non può essere raggirato o rimosso, né da un assetto economico che si muove in direzione contraria a quella costituzionale, né da una politica debole, complice o incapace di darle attuazione. La politica, le istituzioni servono a realizzare quella promessa e quel programma democratico. A tale compito vanno richiamate, liberandole dal pensiero unico imposto dall’avanzata del neoliberismo su scala globale, che ha piegato il diritto e i diritti alle ragioni di una oligarchia finanziaria sovraordinata agli Stati, che ha imposto un modello di sviluppo rapace e autoritario, che non tollera limiti e regole alla sua espansione e sete di profitti, che vede nelle Costituzioni democratiche un ostacolo da eliminare, o da rendere altrimenti inoffensive.
Una Repubblica democratica fondata sul lavoro, sulla dignità, sull’uguaglianza
Nei decenni passati la Costituzione, quando non apertamente contestata e delegittimata, è stata ridotta a un testo da celebrare negli anniversari, ma sostanzialmente ininfluente nelle dinamiche reali della società, in una sorta di vuota retorica costituzionale. Occorre ribaltare il tavolo. E andare anche oltre. Dobbiamo pretendere che la Costituzione viva, che non ci siano più spazi per una “programmaticità” eventuale e futura, ma solo per un’attuazione completa e ambiziosa. Abbiamo un orizzonte “costituente” da realizzare che parta dai diritti fondamentali, dalla proporzionata ripartizione dei doveri, dalla democrazia costituzionale per raggiungere un fine ulteriore, quello della costruzione di una società giusta ed equa, una società di diritti, in cui ognuno possa perseguire il proprio diritto alla felicità, come individuo e come popolo.
Così la Costituzione e la sua attuazione diventano la base di un programma politico, a partire dai fondamentali, indicati nei suoi primi articoli. Sovranità, dignità delle persone, diritti inviolabili, lavoro, uguaglianza e pari dignità sociale, pluralismo, divieto di discriminazioni, ruolo dello Stato nella rimozione degli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana.
Iniziamo con il lavoro, il primo dei diritti citati fin dall’art. 1 Cost., accanto alla sovranità popolare e alla forma repubblicana e democratica dello Stato.
Nessun popolo, nessun cittadino può essere libero se non ha a disposizione i mezzi per garantire a se stesso e ai suoi cari un’esistenza libera e dignitosa (artt. 1, 4, 36 Cost.). In una società in cui il lavoro è diventato una merce, spesso di scambio per barattare la propria sopravvivenza con il voto o con altri diritti, l’idea stessa di democrazia è compromessa. Occorre ripartire da qui e dall’art. 3, cuore e architrave del nostro modello costituzionale, che, nel sancire il principio di uguaglianza e pari dignità sociale di tutti i cittadini, affida allo Stato il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo assunto muove da una considerazione e da un principio cogente: il mercato da solo non basta, anzi, non può essere per sua natura soggetto propulsore di un lavoro e di uno sviluppo orientati alla dignità, alla equa remunerazione, all’uguaglianza di condizioni fra i lavoratori. Il mercato mira a creare profitti. Lo Stato crea democrazia, che in un’accezione sostanziale significa garantire diritti, sviluppo, equa ripartizione dei doveri.
Insomma, bisogna ripartire dallo Stato e dalla funzione affidata dalla Costituzione ai pubblici poteri per la realizzazione di una democrazia compiuta nei diritti, prima che nelle forme e negli equilibri istituzionali. Tanto più in costanza di una crisi che ha drasticamente ridotto le opportunità di lavoro, decapitato i diritti dei lavoratori e cancellato più di una generazione, di giovani e meno giovani, dal mondo del lavoro. Il diritto e l’accesso al lavoro, la dignità e la tutela dei lavoratori, un reddito minimo garantito, l’avviamento dei giovani, la formazione continua, la riqualificazione e ricollocazione di chi il lavoro lo ha perso devono essere la priorità delle politiche pubbliche. E se parliamo del diritto al lavoro, così come delineato dalla Costituzione, dobbiamo immaginare non un lavoro qualsiasi, ma un lavoro che valorizzi qualità e talenti dei singoli, che garantisca un’esistenza libera e dignitosa per sé e per la propria famiglia, e sia, quindi, equamente remunerato, in rapporto al tempo e senza discriminazioni di genere4.
Questo chiede la Costituzione. Ma non basta. In un Paese in cui la disoccupazione ha raggiunto livelli record, lo Stato deve farsi promotore di politiche permanenti per la creazione di nuovi posti di lavoro e, in particolare, di lavori che i privati non hanno interesse o convenienza a creare. Si pensi alle potenzialità della ricerca, pura e applicata: uno dei settori più promettenti per l’incremento diretto e indiretto della ricchezza e del benessere di un Paese, costantemente mortificato da tagli miopi e crescenti. E, ancora, alle innumerevoli possibilità di interventi nel settore della tutela e valorizzazione dei beni artistici e culturali, della protezione dell’ambiente, della tutela e messa in sicurezza del territorio. O all’implementazione del personale dei servizi socio-assistenziali, oggi inadeguati, se non assenti, in intere aree e settori e, comunque, dotati di risorse e finanziamenti insufficienti, soprattutto nelle Regioni più povere e con minore capacità fiscale. Sono solo alcuni esempi di un lungo elenco.
In ultimo, occorre rivedere i tempi del lavoro e la durata massima della giornata lavorativa che la Costituzione richiede sia stabilita per legge. Non è democratica una società in cui chi ha un lavoro a tempo indeterminato, è spesso costretto a tenerselo rinunciando ai propri diritti e senza distinzione fra lavoro ordinario e straordinario, mentre molti (se non i più) non conoscono altro che precariato, o lavoro nero, o lavoro povero. Come dice un vecchio adagio, non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere. E la vita, pubblica e privata, richiede tempo: tempo da dedicare agli affetti, alla famiglia, alla propria formazione e informazione, alla vita sociale, alla partecipazione pubblica e politica. Il tempo è una funzione della partecipazione, proporzionale al grado di democraticità di un sistema e della possibilità di vivere una vita soddisfacente, non piegata alle esigenze della produzione e della massificazione sociale. Non è estremismo, né utopia, soprattutto in una situazione economica in cui, anche sotto il profilo economico generale, per lavorare tutti, occorre lavorare di meno.
Diritti sociali e ruolo dello Stato
Se dignità e lavoro sono il perno della Costituzione e di una politica con essa coerente, il discorso non può che estendersi, sia pur solo per cenni, agli altri diritti sociali e ai connessi obblighi dello Stato, cui compete un ruolo attivo nell’allocazione delle risorse, nella predisposizione delle strutture, nella programmazione degli interventi, nella organizzazione e agevolazione di processi di sviluppo. Perché solo così possono essere superate quelle “dis-eguaglianze”, quelle “in-giustizie”, quegli ostacoli al «pieno sviluppo delle persona umana» che, accanto al riconoscimento e alla tutela dei diritti inviolabili e all’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2), sono i primi obiettivi che la Costituzione affida ai pubblici poteri.
L’elenco degli impegni al riguardo è fin troppo semplice: istruzione pubblica e gratuita, salute e sanità pubblica di alto profilo per tutti e non solo per chi può permettersi cliniche o assicurazioni private, effettività del diritto alla casa, giustizia rapida ed equa, tutela dell’ambiente attraverso un grande progetto di manutenzione e risanamento del territorio. Non è il libro dei sogni, magari in chiave elettorale; è il ribaltamento, in una prospettiva costituzionale, della politica praticata, in modo rigorosamente bipartisan, in questi anni. Un ribaltamento fondato sulla convinzione che il welfare non è un lusso per i periodi di vacche grasse, ma uno strumento strutturale di uno Stato democratico, per realizzare quell’uguaglianza e quella solidarietà senza le quali la democrazia non esiste. E, insieme, un ulteriore motore per l’economia (come accaduto ovunque, in Europa, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale). Certo, il welfare va finanziato: con l’abbattimento degli sprechi e delle spese militari, con l’abbandono delle grandi opere (tanto inutili quanto costose), con la lotta reale all’evasione fiscale e alla corruzione. E ancora, nel medio periodo, con l’incentivazione dei talenti e delle idee innovative, che devono trovare terreno fertile nello Stato, delle imprese che creano reddito e lavoro dignitoso, dell’utilizzo delle nuove tecnologie per ottimizzare processi e servizi, abbattere la spesa pubblica e permettere una più equa ed efficiente allocazione delle risorse. Ma anche – occorre dirlo (e farlo) in modo esplicito – con politiche fiscali alternative a quelle attuali, in cui destra e sinistra si rincorrono all’insegna dello slogan demagogico “meno tasse per tutti”. Ancora una volta la via maestra sta nella Costituzione, il cui articolo 53 dispone: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. / Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». La progressività nelle imposte dirette e, con essa, un’equa tassazione sui patrimoni e sugli investimenti finanziari, devono sostanziare una politica, da opporre a quella corrente, nella quale chi ha di più deve contribuire in misura maggiore alle esigenze della collettività5.
In definitiva, solo una nuova stagione di impegno, solo un nuovo costituzionalismo dei cittadini, non più solo delle élite, intellettuali o politiche, può dar corpo e contenuti a quella «rivoluzione dell’uguaglianza» invocata da Stefano Rodotà6 che è il presupposto per l’affermazione di una piena e compiuta sovranità popolare, diffusa, plurale, partecipata e dotata degli strumenti necessari per esercitare consapevolmente il potere decisionale e di controllo nelle e sulle istituzioni nazionali e sovranazionali, che l’era della globalizzazione impone7.
 
1 Così G. Azzariti, Dopo il referendum costituzionale: crisi della rappresentanza e riforma del Parlamento, in Costituzionalismo.it, 1/2017, X.
2 G. Azzariti, Dopo il referendum costituzionale, cit., III.
3 S. Settis, Costituzione! Perché attuarla è meglio che cambiarla, Einaudi, Torino, 2016.
4 Ancora oggi il lavoro delle donne – per limitarsi a quello visibile, che non tiene conto del carico di assistenza familiare che, in assenza di servizi di assistenza sociale corrispondenti ai bisogni e adeguatamente finanziati, continua a gravare su di loro – viene remunerato fino al 30 per cento in meno rispetto a quello di un uomo. Circa un terzo delle donne è costretto, inoltre, a lasciare il lavoro dopo la nascita di un figlio. Una disparità che si riverbera nel trattamento pensionistico: circa la metà delle donne non raggiunge i 1.000 euro di pensione e molte giovani non raggiungeranno i requisiti minimi per accedere a un trattamento pensionistico.
5 Non v’è in ciò, a differenza di quanto sostiene il pensiero dominante, nulla di giacobino o di sovietico ma una esigenza di giustizia ben presente, fino ad alcuni decenni fa, anche nei sistemi più liberali. Un esempio per tutti: negli anni Cinquanta, durante la presidenza di Eisenhower (repubblicano e conservatore), negli Stati Uniti la fascia di reddito più alta arriva a pagare un’aliquota marginale perfino più alta del 90 per cento (Cfr. E. Grande, Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2017, p. 33).
6 S. Rodotà, Il diritto ad avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2013.
7 D. Gallo, Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2013.

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