sabato 4 novembre 2017

Il reddito per tutti: una questione di giustizia di Giuseppe De Marzo - estratto da Indicativo futuro: le cose dafare


La fotografia e le responsabilità
L’aumento delle disuguaglianze e della povertà ha raggiunto nel nostro Paese livelli mai toccati prima. Questo indicano tutte le ricerche e le indagini, a partire dai rapporti Istat. Per la prima volta la povertà assoluta colpisce quasi 5 milioni di persone, mentre la povertà relativa investe le vite di oltre 9 milioni di italiani e italiane. Dispersione scolastica e disoccupazione giovanile sono tra le più alte d’Europa, rispettivamente al 17,6 per cento e oltre il 40 per cento. I lavoratori poveri, working poors, sono più di 4 milioni, mentre il rapporto McKinsey assegna all’Italia il record negativo assoluto tra i Paesi Ocse per l’impoverimento dell’attuale generazione, paragonato al dopoguerra, con i giovani più poveri dei genitori e senza prospettive. L’indice Gini sulle disuguaglianze di reddito è aumentato negli ultimi 25 anni da 0,40 a 0,51, portando il nostro Paese a essere quello con l’incremento peggiore d’Europa dopo la Gran Bretagna. Resta altissimo il rischio povertà che colpisce ormai quasi un italiano su tre (28,7 per cento), con un indice di grave deprivazione materiale all’11,5 per cento. L’Istat afferma come il sistema di trasferimenti italiano, escludendo le pensioni, non sia in grado di contrastare la dinamica di costante impoverimento che colpisce soprattutto donne, minori, famiglie monoparentali, famiglie di operai, migranti già residenti. Già lo scorso anno il presidente dell’Istat, Giovanni Alleva, aveva denunciato un welfare tra i peggiori d’Europa, incapace di far fronte all’aumento delle disuguaglianze e povertà.

È la conseguenza di una politica assente sul fronte della lotta alle disuguaglianze. In questi otto anni di crisi sono state prese decisioni politiche che hanno drammaticamente peggiorato la condizione sociale dell’Italia. Le politiche sociali sono ridotte al lumicino, viste come un costo e non come un investimento e un obbligo della Repubblica, previsto dalla nostra Costituzione. Il Fondo nazionale politiche sociali (Fnps) è stato tagliato dell’80 per cento, le politiche di austerità sono state addirittura introdotte in Costituzione modificando l’art. 81 per imporre il pareggio di bilancio, con il conseguente mancato trasferimento di 19 miliardi ai Comuni, come denuncia il rapporto Ifel (Istituto per la finanza e l’economia locale). A questo si aggiunga che siamo l’unico Paese, con la Bulgaria, a non avere ancora istituito una misura di sostegno al reddito come previsto dall’art. 34 della Carta di Nizza, che stabilisce come nessun cittadino/a europeo debba scendere sotto la soglia del 60 per cento del reddito mediano pro capite del Paese di origine. Moltissime le risoluzioni europee, a partire dal 1992, che ci chiedono di introdurre una forma di reddito minimo garantito. L’ultimo richiamo è arrivato dal parlamento europeo lo scorso 19 gennaio, con una Risoluzione approvata che afferma la necessità urgente di contrastare la crescente miseria e l’aumento delle disuguaglianze attraverso la costruzione di un «pilastro europeo dei diritti sociali», che vede al centro del suo programma il Reddito minimo garantito. Un’ottima notizia per tutte le realtà impegnate a promuovere forme di sostegno al reddito, ma la conferma del colpevole ritardo della politica italiana. La Risoluzione mette finalmente in evidenza l’importanza di regimi adeguati di reddito minimo per preservare l’intangibilità della dignità umana e contrastare l’esclusione sociale.
Tutto questo mentre nel nostro Paese la ricchezza non si è certo ridotta con la crisi, anzi. Se è vero che la povertà è triplicata, è vero anche che sono triplicati i miliardari, 342 come denuncia il rapporto Oxfam sulle disuguaglianze. Ciò significa che, anche in regime di austerità, il nostro sistema di protezione sociale, ove adeguatamente finanziato, ripensato e non smantellato, avrebbe potuto affrontare meglio la crisi ed evitare l’esplosione della povertà. È sempre l’Istat a confermarlo. Dal rapporto emerge infatti che il tasso delle persone a rischio povertà si riduceva dopo i trasferimenti sociali di soli 5,3 punti (dal 24,7 al 19,4) a fronte di una riduzione media nella Ue a 27 Paesi di 8,9 punti. Soltanto in Grecia il sistema di trasferimenti sociali è meno efficace di quello italiano. Per questo, nonostante la crescita del Pil le condizioni di coloro che sono in difficoltà non cambiano, ma il divario tra chi ha di più e chi di meno continua a crescere.
L’austerità europea dunque non è la sola responsabile. Governo e parlamento potevano e dovevano fare molto di più. Ma nonostante i dati e le ricerche comparate, il governo non ha saputo fare di meglio che introdurre il Sia, una sorta di Social Card, stanziando appena 1,2 miliardi quest’anno e 1,7 il prossimo per contrastare la povertà. Circa 80 euro a componente familiare di nuclei che hanno meno di 3.000 euro di Isee, privilegiando le famiglie con più figli. Si tratta di una misura di universalismo selettivo che non raggiunge nemmeno un terzo della popolazione in povertà assoluta, e a quelli che ne avranno diritto non garantisce nemmeno la dignità. La voce dei diritti e della giustizia sociale nel nostro Paese è in questo momento flebile come non mai. Prenderne atto ci indica come unica strada quella di ricostruire un movimento che dal basso sappia rimetterli al centro a partire dalle vittime e dalla realtà sociali.
Le prospettive, le false narrazioni e la necessità di cambiare
Ma se la politica è soprattutto un punto di vista della storia e una visione del futuro, ci chiediamo: come sarà il nostro Paese tra 5 o 10 anni in assenza di misure strutturali che sappiano contrastare disuguaglianze e povertà?
In assenza di una visione alternativa che rimetta al centro l’impegno per garantire i diritti e le responsabilità, le tendenze culturali egemoni che abbiamo dinanzi sono darwinismo sociale e universalismo selettivo. Ciò conduce alla istituzionalizzazione della povertà, dando per immutabile lo stato di cose, come se fosse una legge naturale o un destino al quale assoggettarsi.
Ci viene raccontato che non ci sono i soldi, ma lo studio del bilancio dello Stato mostra che le cose non stanno così. I soldi ci sono. Ma le priorità politiche sono altre. I soldi per finanziare l’introduzione nel nostro Paese di un reddito di dignità possono venire, ad esempio, dai 9,1 miliardi di euro utilizzati per il bonus fiscale di 80 euro varato nel 2014, che non è andato agli incapienti e non ha avuto alcun impatto sulla domanda aggregata. Analogamente, i 12,5 miliardi di decontribuzione fiscale per il Jobs Act non hanno avuto l’effetto di creare nuova e buona occupazione, anzi hanno aumentato la precarietà e di conseguenza le disuguaglianze. Senza bisogno di nuove tassazioni, senza attaccare altre poste sensibili di bilancio e solo con i soldi disponibili avremmo potuto, e possiamo, investire anche nel nostro Paese la somma necessaria per restituire dignità a milioni di cittadini, rilanciando domanda aggregata e coesione sociale. Si tratta, infatti, di una somma calcolata, incrociando i dati Istat con quanto stabilito dall’articolo 34 della Costituzione europea, intorno ai 15 miliardi. Molto meno di quanto speso per il salvataggio delle banche operato negli ultimi mesi dal governo e un po’ di più della operazione degli 80 euro. Senza dimenticarci che tra gli effetti del reddito di dignità c’è anche il contrasto alle mafie, che a causa dell’aumento della povertà e al taglio dei diritti sociali hanno visto crescere il loro potere di penetrazione economica e sociale e il ricatto sulle giovani generazioni.
Dunque, non è vero che «non ci sono i soldi». Così come continuare a contrapporre il reddito di dignità al lavoro rappresenta l’ennesimo tentativo di eludere il dibattito, ormai irrimandabile, sulla loro complementarietà in questa fase della storia e delle relazioni produttive. La piena occupazione – se con essa intendiamo quanto scritto nei manuali di economia, dove si ritiene frizionale una disoccupazione al 3-4 per cento e dove il salario è sufficiente a garantire la dignità della persona – è, infatti, incompatibile con un sistema economico liberista. I quattro milioni di working poors, che rimangono poveri nonostante il lavoro, ne sono la schiacciante evidenza. Per raggiungere la piena occupazione bisognerebbe cambiare base produttiva, ridurre l’orario di lavoro, riconvertire le attività industriali e la filiera energetica, occorrerebbe rispondere alla gigantesca domanda inevasa di beni pubblici, ma per farlo si dovrebbero fare investimenti enormi in Italia e in Europa. Ma di questa prospettiva non si vede traccia. Per non parlare dei fenomeni di nuova automazione che nei prossimi anni rischiano di far sparire milioni di posti di lavoro sostituiti da macchine e algoritmi. L’affermazione secondo cui esiste uno stretto rapporto tra lavoro e dignità della persona è incontestabile, ma lascia aperti i problemi del tipo di lavoro a cui ci si riferisce e del modo in cui si possono creare milioni di posti di lavoro che garantiscano la dignità del lavoratore e delle relazioni territoriali. Se le misure sono quelle messe in campo negli ultimi anni nel nostro Paese, oppure si basano sull’idea di “occupabilità” proposta dal governo tedesco, si va nella direzione opposta, visto che queste misure hanno aumentato l’instabilità lavorativa e la precarietà, generando, secondo l’Istat, i maggiori svantaggi distributivi. Il punto dunque rimane: che fare per quelle persone che non trovano il lavoro pur cercandolo, sono povere e non hanno altri ammortizzatori o trasferimenti sociali?
C’è, infine, chi sostiene che la crisi impone di pensare prima alla crescita economica attraverso i mercati e poi alla sua conseguente redistribuzione a cascata. Anche qui si finge di non vedere quanto dimostrato dalle scienze economiche e ampiamente spiegato da molti Nobel per l’economia. A una crescita del Pil non equivale in modo automatico un miglioramento nella distribuzione della ricchezza, che dipende dai modelli di welfare e da tanti altri fattori. Nel nostro caso è dimostrato che la povertà aumenta nonostante la crescita economica.
E c’è di più. La previsione di un reddito di dignità può incentivare e valorizzare l’autonomia delle scelte di vita anche alternative a quella del lavoro con l’impegno in altre attività (sociali, culturali, politiche, sportive) che possono alimentare le capacità personali e sociali di fuoruscita dalle condizioni di esclusione, marginalità e povertà. L’assunzione di responsabilità a fronte del reddito deve sostituire quella che viene considerata la «condizionalità» soprattutto nella prospettiva del lavoro. Un reddito di dignità sottoposto al principio della condizionalità svolgerebbe infatti una funzione di integrazione salariale in favore delle imprese, e di controllo e di ricatto sui lavoratori, continuando a ignorare e non combattere le cause che generano l’aumento di disuguaglianze e povertà. Discutere di reddito come strumento di contrasto alle nuove povertà significa riconoscerlo come strumento di autonomia e valorizzazione della persona. L’introduzione di un reddito minimo di dignità all’interno di una società caratterizzata dall’aumento senza precedenti delle disuguaglianze e per questo fragile, frammentata, impoverita e impaurita, favorisce l’individuo a perseguire i propri interessi, sia professionali che vitali, dando seguito alle proprie capacità. Per questo è importante non determinare costantemente una pressione economica che lo rende ricattabile.
Alcuni principi base del reddito di dignità
Sulla base delle riflessioni sin qui svolte la rete dei Numeri Pari1 ha elaborato, tramite un gruppo di lavoro coordinato dal Bin-Italia, una piattaforma per l’introduzione di un reddito di dignità, consistente nella «erogazione di un beneficio in denaro e destinato a sostenere la persona» per «tutti coloro che vivono al di sotto di una certa soglia economica (non meno del 60 per cento del reddito mediano equivalente familiare disponibile)»2.
In tale piattaforma sono inseriti principi tratti da schemi di reddito minimo garantito vigenti in altri Paesi europei, passaggi che si trovano in leggi regionali italiane, elementi espressi nelle indicazioni di istituzioni sovranazionali. Si è inoltre cercato di comprendere al meglio i nuovi bisogni emergenti in questa fase produttiva, nel mondo globalizzato, nella crisi. La proposta inoltre si è alimentata di studi3, risoluzioni europee, documenti relativi a Carte4 o Trattati europei. Tra i punti irrinunciabili della proposta ci sono l’individualità della misura, la non vessazione del beneficiario attraverso contropartite stringenti e forme di condizionamento, l’accessibilità per coloro che ne hanno diritto, il requisito della residenza anziché della cittadinanza, il diritto a servizi di qualità oltre il beneficio economico, la durata e l’ammontare del beneficio.
La previsione dell’accessibilità alla misura, cioè l’attenzione a non renderla complicata da un punto di vista burocratico (con la stesura infinita di prove e contro prove, di documentazioni e certificazioni etc.), è frutto di importanti studi5 in cui si indicano le «difficoltà di accesso» come uno dei motivi principali per cui molti, pur avendone diritto, sono scoraggiati a chiederla. Il rischio di vessazione della persona in difficoltà economica (trattata a volte alla stregua di un “nullafacente” se non addirittura di un “furbacchione”) ha determinato alcune riflessioni anche in merito alle cosiddette politiche attive che, quando esageratamente stringenti, hanno portato un’alta percentuale di soggetti a rischio povertà a non chiedere più l’erogazione del beneficio. La questione dell’accessibilità, avendo ben chiaro il rischio di controllo sociale o di vessazione verso il beneficiario, è uno dei punti più importanti espressi nella piattaforma.
Un altro punto qualificante riguarda la residenza anziché la cittadinanza come criterio di accesso. Il punto di partenza è la non discriminazione verso il potenziale beneficiario. Non si possono infatti discriminare, in presenza di una uguale situazione di difficoltà, coloro i quali non hanno ancora ricevuto un riconoscimento di cittadinanza, ancor più in Italia dove non vi è, come in altri Paesi, una legge sullo ius solis.
Un altro concetto base sta nella temporalità e nell’ammontare del beneficio. Si è ritenuto che non si possa definire a tavolino quando il beneficiario sarà in grado di uscire da una condizione specifica di difficoltà economica. Per questo il tempo del beneficio è un «tempo di garanzia del diritto e dunque della dignità della persona». Ciò, del resto, è previsto in alcuni degli schemi di reddito minimo garantito europei laddove si dispone che l’erogazione del beneficio deve proseguire «fino al miglioramento della condizione economica»6. Vengono inoltre ripresi concetti esposti in alcune risoluzioni europee a partire dalla definizione di «somma necessaria», cioè l’ammontare di ciò che si definisce «minimo garantito», corrispondente alla base economica sotto la quale nessun individuo deve scivolare. L’Europa ricorda al riguardo che i sistemi di «reddito minimo adeguati debbono stabilirsi almeno al 60 per cento del reddito mediano dello Stato membro interessato»7.
Altrettanto importante è il tema del legame tra reddito minimo e lavoro, in cui si inserisce la questione della cosiddetta condizionatezza all’obbligo di accettare un lavoro qualsiasi, pena la perdita del beneficio. Come un contrappasso la condizionatezza al lavoro si è andata facendo sempre più pressante nelle diverse misure di reddito minimo in Europa con l’idea di una «inclusione attiva» che non sembra aver avuto l’effetto desiderato e, allo stesso tempo, ha aumentato i tagli proprio alle misure di welfare, reddito minimo garantito compreso. L’idea che, in fondo, il beneficiario sia una sorta di “parassita” sociale al quale va chiesta la continua disponibilità a qualunque lavoro pare rimanere ferma, in molti approcci, alle esperienze delle poor laws inglesi di metà Ottocento8. Il passaggio dal welfare al workfare in tutta Europa, con l’erosione del finanziamento del primo a favore del secondo (dai cittadini alle imprese per favorire una maggiore occupabilità) è stato estremamente significativo. I tagli al welfare, così come le restrizioni nelle misure di reddito minimo garantito, si sono avute in molti Paesi europei. Spesso si è modificato anche il ruolo degli istituti del «mercato pubblico dell’offerta» di lavoro, con trasformazione dei centri per l’impiego pubblici da luoghi di matching tra domanda e offerta a costose macchine burocratiche di controllo sui beneficiari, a cui chiedere disponibilità a ogni richiesta con il permanente ricatto di perdere il beneficio in caso di rifiuto. Il risultato è stato spesso che molti di coloro che ne avevano diritto non hanno fatto più domanda di accesso e che parte dei fondi destinati a questa misura sono finiti a sostenere le politiche attive per lo più sotto forma di incentivi alle imprese. La piattaforma per il reddito di dignità ha tratto forza e ragione da studi, riflessioni ed esperienze che nel tempo hanno affrontato questa criticità. Vi sono infatti in alcuni Paesi europei sperimentazioni per «sostenere la persona a partire dalla sua autonomia» con il riconoscimento effettivo del suo portato storico, tanto professionale che esperienziale. Sta accadendo nella Regione francese dell’Acquitania9, in alcuni Comuni in Olanda10, nella sperimentazione avviata da gennaio 2017 in Finlandia11.
La piattaforma del reddito di dignità si è fondata anche su concetti espressi da alcune leggi del nostro Paese, come la n. 4/2009 della Regione Lazio sul reddito minimo garantito in cui viene inserito per la prima volta il concetto di congruità della proposta di lavoro che il beneficiario del reddito deve accettare: il lavoro offerto deve essere non «un lavoro qualsiasi» ma un lavoro congruo in relazione alle esperienze, alla formazione, all’eventuale salario precedentemente ricevuto, e anche alle competenze informali del beneficiario. Il concetto della congruità dell’offerta di lavoro va nella direzione della difesa della dignità della persona, che la piattaforma intende comunque garantire. Non si tratta di colpevolizzare la persona in difficoltà economica come se fosse qualcuno che «non ce la fa perché non si impegna abbastanza», ma di erogare un sostegno economico in grado di valorizzare la persona che ha delle difficoltà economiche. Non, dunque, il lavoro inteso come obbligo con la conseguente punizione della perdita del beneficio in caso di rifiuto di qualsivoglia proposta ma, al contrario, il riconoscimento della storia che il beneficiario porta con sé dal punto di vista della sua vita professionale, formativa e informale. Inoltre la piattaforma restituisce un senso e un ruolo agli strumenti pubblici del mondo del lavoro come l’Ufficio per l’impiego, che dovrà adoperasi al meglio affinché il beneficiario possa trovare un lavoro «congruo» anche alle sue aspirazioni. Porre l’accento sulla valorizzazione della persona piuttosto che obbligarlo a qualsiasi lavoro sol perché beneficiario di un sostegno, definisce al meglio il concetto di congruità. Significa operare per riconoscere le competenze e la capacità che il soggetto ha e che diventano ricchezza sociale, un capitale umano più ampio che non va disperso. La logica dovrebbe essere quella che lega il beneficiario del reddito minimo al lavoro attraverso nuove opportunità che passino anche attraverso la «libertà di scelta». Ancor più se si vuole dare al lavoro un senso emancipatorio. La scelta di non contrapporre, con l’obbligo all’integrazione lavorativa, il reddito minimo e la garanzia a una vita dignitosa è anch’essa mutuata dalle indicazioni sovranazionali in cui si afferma che «il coinvolgimento attivo non deve sostituirsi all’inclusione sociale e chiunque deve poter disporre di un reddito minimo, e di servizi sociali di qualità a prescindere dalla propria partecipazione al mercato del lavoro»12 e che «la causa di un’apparente esclusione dal mondo del lavoro può risiedere nella mancanza di sufficienti opportunità occupazionali dignitose piuttosto che nella mancanza di sforzi individuali»13.
Non si tratta dunque di definire una forma di governance del problema povertà dentro la sfera del «controllo sociale». Al contrario c’è un riconoscimento della dignità della persona a partire non dal riconoscimento di un sussidio economico ma dal fatto che questo sia strumento di valorizzazione, di autonomia, di autodeterminazione, in una parola di libertà. In questa epoca di grande disagio le forme di precarizzazione della vita possono assumere numeri sempre più consistenti e le fasce sociali o i soggetti coinvolti possono essere sempre più variegati. Nel definire il denizen14, il cittadino senza diritti, Guy Standing descrive le forme di precarietà sociale e del rischio di nuove povertà mettendo insieme diversi attori sociali: pensionati, operai in via di dismissione, giovani, donne, precari del lavoro, ex detenuti, migranti etc. come a raccontare un’ampia diversità di figure sociali che vanno «proletarizzandosi» o spesso «sotto proletarizzandosi» a prescindere dalla circostanza di avere o meno un contratto di lavoro15, di vivere in una metropoli o in un piccolo paese etc. Sono figure sociali che portano con sé storie ed esperienze da ricostruire, ma soprattutto da sostenere con diritti e strumenti nuovi come, appunto, quello del reddito garantito. Non si tratta di costruire giustificazioni morali al «perché» c’è bisogno di un certo tipo di reddito (e dunque non di un reddito minimo qualunque) ma di cogliere le novità che emergono in società complesse come le nostre. L’impennata di conoscenze e socializzazione, a partire dal diffondersi delle nuove tecnologie, è un fatto globale così come l’aumento costante della flessibilità del lavoro e dell’insicurezza sociale nel suo insieme16. Discutere oggi di contrasto alla povertà impone, dunque, di ampliare il discorso alle nuove forme che raccontano il rischio povertà, con l’entrata e l’uscita permanente tra lavoro e non lavoro, e comprendere che vi è ormai una certa trasversalità anche nei diversi contesti sociali17.
 
1 La rete Numeri Pari è una realtà promossa da Gruppo Abele, Libera, Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) e Rete della Conoscenza, a cui stanno aderendo centinaia di realtà sociali diffuse su tutto il territorio nazionale, tra associazioni, cooperative, parrocchie, reti studentesche, comitati di quartiere, campagne, progetti di mutualismo sociale, spazi liberati, fattorie sociali e semplici cittadini che condividono l’obiettivo di garantire diritti sociali e dignità a quei milioni di cittadini a cui sono stati sottratti in questi anni nel nostro Paese. Tra i suoi obiettivi c’è l’introduzione del reddito di dignità e sta realizzando, a questo fine, una mobilitazione nazionale con manifestazioni organizzate in 1.000 piazze.
2 La piattaforma completa può essere scaricata sul sito www.numeripari.org.
3 In particolare la ricerca, a cura del Bin-Italia, Reddito minimo garantito, un progetto necessario e possibile, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2012.
4 In particolare la Carta di Nizza.
5 Vedi lo studio di H. Frazer e E. Marlier, Minimum income schemes across EU member, European Commission Dg Employment, Social Affairs and Equal opportunities, 2009.
6 Vedi le schede sugli schemi di reddito minimo nei diversi Paesi europei pubblicati nella ricerca Reddito Garantito e nuovi diritti sociali, i sistemi di protezione sociale in Europa a confronto per una legge nella regione Lazio, Assessorato al Lavoro, Regione Lazio, 2006.
7 Risoluzione del 20 ottobre 2010 sul ruolo del Reddito Minimo, nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa.
8 L’avvio delle poor laws può essere datato a partire dagli impianti legislativi di epoca Tudor, in particolare destinati all’assistenza di mendicanti e vagabondi. Le new poor laws furono approvate nel 1834, ammodernate in particolare per la centralizzazione dell’assistenza e miranti alla creazione di workhouses. Si tratta di istituzioni concepite per fornire lavoro e assistenza ai poveri attive in Inghilterra e nelle colonie inglesi d’America, dal XVII al XIX secolo. L’idea era che, attraverso il lavoro, i poveri avrebbero imparato le «buone abitudini», così da essere «meno pigri» e da «badare» a loro stessi. Erano destinati alle workhouses anche orfani e bambini abbandonati o figli di donne non sposate. Spesso gli ospiti delle wokhouses erano destinati o obbligati a lavorare saltuariamente nelle fabbriche o nelle miniere o anche in lavori destinati alla comunità locale come domestici, braccianti agricoli etc. Ai poveri veniva fatta indossare un’uniforme così che tutti sapessero che erano «ospiti» delle workhouses. Esse furono abolite nel XX secolo con la definitiva affermazione del welfare state. Dal 1948 con l’introduzione nel Regno Unito del Servizio sanitario nazionale molti ex edifici delle workhouses furono trasformati in ospedali pubblici.
9 Il Consiglio regionale de l’Aquitania ha approvato progetti pilota per testare l’introduzione di un «Rsa incondizionato». Il Revenu de Solidarité Active o Rsa, è l’attuale strumento presente in Francia di reddito minimo garantito. La proposta è di rendere meno stringenti tanto le forme di accesso (così da aprire anche ai giovani dai 18 ai 25 anni) quanto l’obbligo di accettare qualsiasi lavoro. Ciò, secondo i proponenti, servirà a rendere la misura meno discriminatoria e meno burocratica.
10 Sono oltre 30 i Comuni olandesi che sperimenteranno un reddito minimo garantito con meno vincoli ad accettare un lavoro qualsiasi. In particolare Utrecht, la quarta città più popolata dei Paesi Bassi, con la sua proposta ha attirato una forte attenzione di recente anche a livello internazionale.
11 Prima delle elezioni politiche del 2015 vi era stato un forte dibattito da parte di tutte le forze politiche finlandesi per arrivare a definire una proposta di reddito minimo incondizionato nel Paese. Tale proposta è ora parte del programma di governo e si è avviata la sperimentazione a partire da gennaio 2017.
12 Così la Relazione per Risoluzione europea sul Coinvolgimento delle persone escluse dal mercato del lavoro (2009)
13 Risoluzione sul Coinvolgimento delle persone escluse dal mercato del lavoro (2009).
14 G. Standing, The Precariat the new dangerous class, Bloomsbury, 2011.
15 Solo in Italia, nel 2014, si contavano 4 milioni di working poors. Senza calcolare il numero dei cosiddetti «lavoratori in nero».
16 Vedi R. Castel, L’insicurezza sociale, che significa essere protetti?, Einaudi, Torino, 2011.
17 Sono in molti a segnalare un sempre maggior accesso alle mense per i poveri di persone che sono al lavoro o che fino a qualche tempo prima erano al lavoro. E tra queste vi sono persone di ogni età, sesso, nazionalità e religione.

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