La fotografia e le
responsabilità
L’aumento delle disuguaglianze e della povertà ha raggiunto nel
nostro Paese livelli mai toccati prima. Questo indicano tutte le
ricerche e le indagini, a partire dai rapporti Istat. Per la prima
volta la povertà assoluta colpisce quasi 5 milioni di persone,
mentre la povertà relativa investe le vite di oltre 9 milioni di
italiani e italiane. Dispersione scolastica e disoccupazione
giovanile sono tra le più alte d’Europa, rispettivamente al 17,6
per cento e oltre il 40 per cento. I lavoratori poveri, working
poors, sono più di 4 milioni, mentre il rapporto McKinsey
assegna all’Italia il record negativo assoluto tra i Paesi Ocse per
l’impoverimento dell’attuale generazione, paragonato al
dopoguerra, con i giovani più poveri dei genitori e senza
prospettive. L’indice Gini sulle disuguaglianze di reddito è
aumentato negli ultimi 25 anni da 0,40 a 0,51, portando il nostro
Paese a essere quello con l’incremento peggiore d’Europa dopo la
Gran Bretagna. Resta altissimo il rischio povertà che colpisce ormai
quasi un italiano su tre (28,7 per cento), con un indice di grave
deprivazione materiale all’11,5 per cento. L’Istat afferma come
il sistema di trasferimenti italiano, escludendo le pensioni, non sia
in grado di contrastare la dinamica di costante impoverimento che
colpisce soprattutto donne, minori, famiglie monoparentali, famiglie
di operai, migranti già residenti. Già lo scorso anno il presidente
dell’Istat, Giovanni Alleva, aveva denunciato un welfare tra i
peggiori d’Europa, incapace di far fronte all’aumento delle
disuguaglianze e povertà.
È la conseguenza di una politica assente sul fronte della lotta
alle disuguaglianze. In questi otto anni di crisi sono state prese
decisioni politiche che hanno drammaticamente peggiorato la
condizione sociale dell’Italia. Le politiche sociali sono ridotte
al lumicino, viste come un costo e non come un investimento e un
obbligo della Repubblica, previsto dalla nostra Costituzione. Il
Fondo nazionale politiche sociali (Fnps) è stato tagliato dell’80
per cento, le politiche di austerità sono state addirittura
introdotte in Costituzione modificando l’art. 81 per imporre il
pareggio di bilancio, con il conseguente mancato trasferimento di 19
miliardi ai Comuni, come denuncia il rapporto Ifel (Istituto per la
finanza e l’economia locale). A questo si aggiunga che siamo
l’unico Paese, con la Bulgaria, a non avere ancora istituito una
misura di sostegno al reddito come previsto dall’art. 34 della
Carta di Nizza, che stabilisce come nessun cittadino/a europeo debba
scendere sotto la soglia del 60 per cento del reddito mediano pro
capite del Paese di origine. Moltissime le risoluzioni europee, a
partire dal 1992, che ci chiedono di introdurre una forma di reddito
minimo garantito. L’ultimo richiamo è arrivato dal parlamento
europeo lo scorso 19 gennaio, con una Risoluzione approvata che
afferma la necessità urgente di contrastare la crescente miseria e
l’aumento delle disuguaglianze attraverso la costruzione di un
«pilastro europeo dei diritti sociali», che vede al centro del suo
programma il Reddito minimo garantito. Un’ottima notizia per tutte
le realtà impegnate a promuovere forme di sostegno al reddito, ma la
conferma del colpevole ritardo della politica italiana. La
Risoluzione mette finalmente in evidenza l’importanza di regimi
adeguati di reddito minimo per preservare l’intangibilità della
dignità umana e contrastare l’esclusione sociale.
Tutto questo mentre nel nostro Paese la ricchezza non si è certo
ridotta con la crisi, anzi. Se è vero che la povertà è triplicata,
è vero anche che sono triplicati i miliardari, 342 come denuncia il
rapporto Oxfam sulle disuguaglianze. Ciò significa che, anche in
regime di austerità, il nostro sistema di protezione sociale, ove
adeguatamente finanziato, ripensato e non smantellato, avrebbe potuto
affrontare meglio la crisi ed evitare l’esplosione della povertà.
È sempre l’Istat a confermarlo. Dal rapporto emerge infatti che il
tasso delle persone a rischio povertà si riduceva dopo i
trasferimenti sociali di soli 5,3 punti (dal 24,7 al 19,4) a fronte
di una riduzione media nella Ue a 27 Paesi di 8,9 punti. Soltanto in
Grecia il sistema di trasferimenti sociali è meno efficace di quello
italiano. Per questo, nonostante la crescita del Pil le condizioni di
coloro che sono in difficoltà non cambiano, ma il divario tra chi ha
di più e chi di meno continua a crescere.
L’austerità europea dunque non è la sola responsabile. Governo
e parlamento potevano e dovevano fare molto di più. Ma nonostante i
dati e le ricerche comparate, il governo non ha saputo fare di meglio
che introdurre il Sia, una sorta di Social Card, stanziando appena
1,2 miliardi quest’anno e 1,7 il prossimo per contrastare la
povertà. Circa 80 euro a componente familiare di nuclei che hanno
meno di 3.000 euro di Isee, privilegiando le famiglie con più figli.
Si tratta di una misura di universalismo selettivo che non raggiunge
nemmeno un terzo della popolazione in povertà assoluta, e a quelli
che ne avranno diritto non garantisce nemmeno la dignità. La voce
dei diritti e della giustizia sociale nel nostro Paese è in questo
momento flebile come non mai. Prenderne atto ci indica come unica
strada quella di ricostruire un movimento che dal basso sappia
rimetterli al centro a partire dalle vittime e dalla realtà sociali.
Le prospettive, le false
narrazioni e la necessità di cambiare
Ma se la politica è soprattutto un punto di vista della storia e
una visione del futuro, ci chiediamo: come sarà il nostro Paese tra
5 o 10 anni in assenza di misure strutturali che sappiano contrastare
disuguaglianze e povertà?
In assenza di una visione alternativa che rimetta al centro
l’impegno per garantire i diritti e le responsabilità, le tendenze
culturali egemoni che abbiamo dinanzi sono darwinismo sociale e
universalismo selettivo. Ciò conduce alla istituzionalizzazione
della povertà, dando per immutabile lo stato di cose, come se fosse
una legge naturale o un destino al quale assoggettarsi.
Ci viene raccontato che non ci sono i soldi, ma lo studio del
bilancio dello Stato mostra che le cose non stanno così. I soldi ci
sono. Ma le priorità politiche sono altre. I soldi per finanziare
l’introduzione nel nostro Paese di un reddito di dignità possono
venire, ad esempio, dai 9,1 miliardi di euro utilizzati per il bonus
fiscale di 80 euro varato nel 2014, che non è andato agli incapienti
e non ha avuto alcun impatto sulla domanda aggregata. Analogamente, i
12,5 miliardi di decontribuzione fiscale per il Jobs Act non hanno
avuto l’effetto di creare nuova e buona occupazione, anzi hanno
aumentato la precarietà e di conseguenza le disuguaglianze. Senza
bisogno di nuove tassazioni, senza attaccare altre poste sensibili di
bilancio e solo con i soldi disponibili avremmo potuto, e possiamo,
investire anche nel nostro Paese la somma necessaria per restituire
dignità a milioni di cittadini, rilanciando domanda aggregata e
coesione sociale. Si tratta, infatti, di una somma calcolata,
incrociando i dati Istat con quanto stabilito dall’articolo 34
della Costituzione europea, intorno ai 15 miliardi. Molto meno di
quanto speso per il salvataggio delle banche operato negli ultimi
mesi dal governo e un po’ di più della operazione degli 80 euro.
Senza dimenticarci che tra gli effetti del reddito di dignità c’è
anche il contrasto alle mafie, che a causa dell’aumento della
povertà e al taglio dei diritti sociali hanno visto crescere il loro
potere di penetrazione economica e sociale e il ricatto sulle giovani
generazioni.
Dunque, non è vero che «non ci sono i soldi». Così come
continuare a contrapporre il reddito di dignità al lavoro
rappresenta l’ennesimo tentativo di eludere il dibattito, ormai
irrimandabile, sulla loro complementarietà in questa fase della
storia e delle relazioni produttive. La piena occupazione – se con
essa intendiamo quanto scritto nei manuali di economia, dove si
ritiene frizionale una disoccupazione al 3-4 per cento e dove il
salario è sufficiente a garantire la dignità della persona – è,
infatti, incompatibile con un sistema economico liberista. I quattro
milioni di working poors, che rimangono poveri nonostante il
lavoro, ne sono la schiacciante evidenza. Per raggiungere la piena
occupazione bisognerebbe cambiare base produttiva, ridurre l’orario
di lavoro, riconvertire le attività industriali e la filiera
energetica, occorrerebbe rispondere alla gigantesca domanda inevasa
di beni pubblici, ma per farlo si dovrebbero fare investimenti enormi
in Italia e in Europa. Ma di questa prospettiva non si vede traccia.
Per non parlare dei fenomeni di nuova automazione che nei prossimi
anni rischiano di far sparire milioni di posti di lavoro sostituiti
da macchine e algoritmi. L’affermazione secondo cui esiste uno
stretto rapporto tra lavoro e dignità della persona è
incontestabile, ma lascia aperti i problemi del tipo di lavoro a cui
ci si riferisce e del modo in cui si possono creare milioni di posti
di lavoro che garantiscano la dignità del lavoratore e delle
relazioni territoriali. Se le misure sono quelle messe in campo negli
ultimi anni nel nostro Paese, oppure si basano sull’idea di
“occupabilità” proposta dal governo tedesco, si va nella
direzione opposta, visto che queste misure hanno aumentato
l’instabilità lavorativa e la precarietà, generando, secondo
l’Istat, i maggiori svantaggi distributivi. Il punto dunque rimane:
che fare per quelle persone che non trovano il lavoro pur cercandolo,
sono povere e non hanno altri ammortizzatori o trasferimenti sociali?
C’è, infine, chi sostiene che la crisi impone di pensare prima
alla crescita economica attraverso i mercati e poi alla sua
conseguente redistribuzione a cascata. Anche qui si finge di non
vedere quanto dimostrato dalle scienze economiche e ampiamente
spiegato da molti Nobel per l’economia. A una crescita del Pil non
equivale in modo automatico un miglioramento nella distribuzione
della ricchezza, che dipende dai modelli di welfare e da tanti altri
fattori. Nel nostro caso è dimostrato che la povertà aumenta
nonostante la crescita economica.
E c’è di più. La previsione di un reddito di dignità può
incentivare e valorizzare l’autonomia delle scelte di vita anche
alternative a quella del lavoro con l’impegno in altre attività
(sociali, culturali, politiche, sportive) che possono alimentare le
capacità personali e sociali di fuoruscita dalle condizioni di
esclusione, marginalità e povertà. L’assunzione di responsabilità
a fronte del reddito deve sostituire quella che viene considerata la
«condizionalità» soprattutto nella prospettiva del lavoro. Un
reddito di dignità sottoposto al principio della condizionalità
svolgerebbe infatti una funzione di integrazione salariale in favore
delle imprese, e di controllo e di ricatto sui lavoratori,
continuando a ignorare e non combattere le cause che generano
l’aumento di disuguaglianze e povertà. Discutere di reddito come
strumento di contrasto alle nuove povertà significa riconoscerlo
come strumento di autonomia e valorizzazione della persona.
L’introduzione di un reddito minimo di dignità all’interno di
una società caratterizzata dall’aumento senza precedenti delle
disuguaglianze e per questo fragile, frammentata, impoverita e
impaurita, favorisce l’individuo a perseguire i propri interessi,
sia professionali che vitali, dando seguito alle proprie capacità.
Per questo è importante non determinare costantemente una pressione
economica che lo rende ricattabile.
Alcuni principi base del
reddito di dignità
Sulla base delle riflessioni sin qui svolte la rete dei Numeri
Pari1 ha elaborato, tramite un gruppo di lavoro coordinato dal
Bin-Italia, una piattaforma per l’introduzione di un reddito di
dignità, consistente nella «erogazione di un beneficio in denaro e
destinato a sostenere la persona» per «tutti coloro che vivono al
di sotto di una certa soglia economica (non meno del 60 per cento del
reddito mediano equivalente familiare disponibile)»2.
In tale piattaforma sono inseriti principi tratti da schemi di
reddito minimo garantito vigenti in altri Paesi europei, passaggi che
si trovano in leggi regionali italiane, elementi espressi nelle
indicazioni di istituzioni sovranazionali. Si è inoltre cercato di
comprendere al meglio i nuovi bisogni emergenti in questa fase
produttiva, nel mondo globalizzato, nella crisi. La proposta inoltre
si è alimentata di studi3, risoluzioni europee, documenti relativi a
Carte4 o Trattati europei. Tra i punti irrinunciabili della proposta
ci sono l’individualità della misura, la non vessazione del
beneficiario attraverso contropartite stringenti e forme di
condizionamento, l’accessibilità per coloro che ne hanno
diritto, il requisito della residenza anziché della cittadinanza, il
diritto a servizi di qualità oltre il beneficio economico, la durata
e l’ammontare del beneficio.
La previsione dell’accessibilità alla misura, cioè
l’attenzione a non renderla complicata da un punto di vista
burocratico (con la stesura infinita di prove e contro prove, di
documentazioni e certificazioni etc.), è frutto di importanti studi5
in cui si indicano le «difficoltà di accesso» come uno dei motivi
principali per cui molti, pur avendone diritto, sono scoraggiati a
chiederla. Il rischio di vessazione della persona in
difficoltà economica (trattata a volte alla stregua di un
“nullafacente” se non addirittura di un “furbacchione”) ha
determinato alcune riflessioni anche in merito alle cosiddette
politiche attive che, quando esageratamente stringenti, hanno portato
un’alta percentuale di soggetti a rischio povertà a non chiedere
più l’erogazione del beneficio. La questione dell’accessibilità,
avendo ben chiaro il rischio di controllo sociale o di vessazione
verso il beneficiario, è uno dei punti più importanti espressi
nella piattaforma.
Un altro punto qualificante riguarda la residenza anziché
la cittadinanza come criterio di accesso. Il punto di partenza è la
non discriminazione verso il potenziale beneficiario. Non si
possono infatti discriminare, in presenza di una uguale situazione di
difficoltà, coloro i quali non hanno ancora ricevuto un
riconoscimento di cittadinanza, ancor più in Italia dove non vi è,
come in altri Paesi, una legge sullo ius solis.
Un altro concetto base sta nella temporalità e
nell’ammontare del beneficio. Si è ritenuto che non si
possa definire a tavolino quando il beneficiario sarà in grado di
uscire da una condizione specifica di difficoltà economica. Per
questo il tempo del beneficio è un «tempo di garanzia del diritto e
dunque della dignità della persona». Ciò, del resto, è previsto
in alcuni degli schemi di reddito minimo garantito europei laddove si
dispone che l’erogazione del beneficio deve proseguire «fino al
miglioramento della condizione economica»6. Vengono inoltre ripresi
concetti esposti in alcune risoluzioni europee a partire dalla
definizione di «somma necessaria», cioè l’ammontare di ciò che
si definisce «minimo garantito», corrispondente alla base economica
sotto la quale nessun individuo deve scivolare. L’Europa ricorda al
riguardo che i sistemi di «reddito minimo adeguati debbono
stabilirsi almeno al 60 per cento del reddito mediano dello Stato
membro interessato»7.
Altrettanto importante è il tema del legame tra reddito minimo e
lavoro, in cui si inserisce la questione della cosiddetta
condizionatezza all’obbligo di accettare un lavoro
qualsiasi, pena la perdita del beneficio. Come un contrappasso la
condizionatezza al lavoro si è andata facendo sempre più pressante
nelle diverse misure di reddito minimo in Europa con l’idea di una
«inclusione attiva» che non sembra aver avuto l’effetto
desiderato e, allo stesso tempo, ha aumentato i tagli proprio alle
misure di welfare, reddito minimo garantito compreso. L’idea che,
in fondo, il beneficiario sia una sorta di “parassita” sociale al
quale va chiesta la continua disponibilità a qualunque lavoro pare
rimanere ferma, in molti approcci, alle esperienze delle poor laws
inglesi di metà Ottocento8. Il passaggio dal welfare al
workfare in tutta Europa, con l’erosione del finanziamento
del primo a favore del secondo (dai cittadini alle imprese per
favorire una maggiore occupabilità) è stato estremamente
significativo. I tagli al welfare, così come le restrizioni
nelle misure di reddito minimo garantito, si sono avute in molti
Paesi europei. Spesso si è modificato anche il ruolo degli istituti
del «mercato pubblico dell’offerta» di lavoro, con trasformazione
dei centri per l’impiego pubblici da luoghi di matching tra
domanda e offerta a costose macchine burocratiche di controllo sui
beneficiari, a cui chiedere disponibilità a ogni richiesta con il
permanente ricatto di perdere il beneficio in caso di rifiuto. Il
risultato è stato spesso che molti di coloro che ne avevano diritto
non hanno fatto più domanda di accesso e che parte dei fondi
destinati a questa misura sono finiti a sostenere le politiche attive
per lo più sotto forma di incentivi alle imprese. La piattaforma per
il reddito di dignità ha tratto forza e ragione da studi,
riflessioni ed esperienze che nel tempo hanno affrontato questa
criticità. Vi sono infatti in alcuni Paesi europei sperimentazioni
per «sostenere la persona a partire dalla sua autonomia» con il
riconoscimento effettivo del suo portato storico, tanto professionale
che esperienziale. Sta accadendo nella Regione francese
dell’Acquitania9, in alcuni Comuni in Olanda10, nella
sperimentazione avviata da gennaio 2017 in Finlandia11.
La piattaforma del reddito di dignità si è fondata anche su
concetti espressi da alcune leggi del nostro Paese, come la n. 4/2009
della Regione Lazio sul reddito minimo garantito in cui viene
inserito per la prima volta il concetto di congruità della
proposta di lavoro che il beneficiario del reddito deve accettare: il
lavoro offerto deve essere non «un lavoro qualsiasi» ma un lavoro
congruo in relazione alle esperienze, alla formazione, all’eventuale
salario precedentemente ricevuto, e anche alle competenze informali
del beneficiario. Il concetto della congruità dell’offerta
di lavoro va nella direzione della difesa della dignità della
persona, che la piattaforma intende comunque garantire. Non si tratta
di colpevolizzare la persona in difficoltà economica come se fosse
qualcuno che «non ce la fa perché non si impegna abbastanza», ma
di erogare un sostegno economico in grado di valorizzare la persona
che ha delle difficoltà economiche. Non, dunque, il lavoro inteso
come obbligo con la conseguente punizione della perdita
del beneficio in caso di rifiuto di qualsivoglia proposta ma, al
contrario, il riconoscimento della storia che il beneficiario
porta con sé dal punto di vista della sua vita professionale,
formativa e informale. Inoltre la piattaforma restituisce un senso e
un ruolo agli strumenti pubblici del mondo del lavoro come l’Ufficio
per l’impiego, che dovrà adoperasi al meglio affinché il
beneficiario possa trovare un lavoro «congruo» anche alle sue
aspirazioni. Porre l’accento sulla valorizzazione della persona
piuttosto che obbligarlo a qualsiasi lavoro sol perché beneficiario
di un sostegno, definisce al meglio il concetto di congruità.
Significa operare per riconoscere le competenze e la capacità che il
soggetto ha e che diventano ricchezza sociale, un capitale umano più
ampio che non va disperso. La logica dovrebbe essere quella che lega
il beneficiario del reddito minimo al lavoro attraverso nuove
opportunità che passino anche attraverso la «libertà di scelta».
Ancor più se si vuole dare al lavoro un senso emancipatorio. La
scelta di non contrapporre, con l’obbligo all’integrazione
lavorativa, il reddito minimo e la garanzia a una vita dignitosa è
anch’essa mutuata dalle indicazioni sovranazionali in cui si
afferma che «il coinvolgimento attivo non deve sostituirsi
all’inclusione sociale e chiunque deve poter disporre di un reddito
minimo, e di servizi sociali di qualità a prescindere dalla propria
partecipazione al mercato del lavoro»12 e che «la causa di
un’apparente esclusione dal mondo del lavoro può risiedere nella
mancanza di sufficienti opportunità occupazionali dignitose
piuttosto che nella mancanza di sforzi individuali»13.
Non si tratta dunque di definire una forma di governance del
problema povertà dentro la sfera del «controllo sociale». Al
contrario c’è un riconoscimento della dignità della persona a
partire non dal riconoscimento di un sussidio economico ma dal fatto
che questo sia strumento di valorizzazione, di autonomia, di
autodeterminazione, in una parola di libertà. In questa epoca di
grande disagio le forme di precarizzazione della vita possono
assumere numeri sempre più consistenti e le fasce sociali o i
soggetti coinvolti possono essere sempre più variegati. Nel definire
il denizen14, il cittadino senza diritti, Guy Standing
descrive le forme di precarietà sociale e del rischio di nuove
povertà mettendo insieme diversi attori sociali: pensionati, operai
in via di dismissione, giovani, donne, precari del lavoro, ex
detenuti, migranti etc. come a raccontare un’ampia diversità di
figure sociali che vanno «proletarizzandosi» o spesso «sotto
proletarizzandosi» a prescindere dalla circostanza di avere o meno
un contratto di lavoro15, di vivere in una metropoli o in un piccolo
paese etc. Sono figure sociali che portano con sé storie ed
esperienze da ricostruire, ma soprattutto da sostenere con diritti e
strumenti nuovi come, appunto, quello del reddito garantito. Non si
tratta di costruire giustificazioni morali al «perché» c’è
bisogno di un certo tipo di reddito (e dunque non di un
reddito minimo qualunque) ma di cogliere le novità che emergono in
società complesse come le nostre. L’impennata di conoscenze e
socializzazione, a partire dal diffondersi delle nuove tecnologie, è
un fatto globale così come l’aumento costante della flessibilità
del lavoro e dell’insicurezza sociale nel suo insieme16. Discutere
oggi di contrasto alla povertà impone, dunque, di ampliare il
discorso alle nuove forme che raccontano il rischio povertà,
con l’entrata e l’uscita permanente tra lavoro e non lavoro, e
comprendere che vi è ormai una certa trasversalità anche nei
diversi contesti sociali17.
1 La rete Numeri Pari è una
realtà promossa da Gruppo Abele, Libera, Coordinamento nazionale
comunità di accoglienza (Cnca) e Rete della Conoscenza, a cui stanno
aderendo centinaia di realtà sociali diffuse su tutto il territorio
nazionale, tra associazioni, cooperative, parrocchie, reti
studentesche, comitati di quartiere, campagne, progetti di mutualismo
sociale, spazi liberati, fattorie sociali e semplici cittadini che
condividono l’obiettivo di garantire diritti sociali e dignità a
quei milioni di cittadini a cui sono stati sottratti in questi anni
nel nostro Paese. Tra i suoi obiettivi c’è l’introduzione del
reddito di dignità e sta realizzando, a questo fine, una
mobilitazione nazionale con manifestazioni organizzate in 1.000
piazze.
2 La piattaforma completa può
essere scaricata sul sito www.numeripari.org.
3 In particolare la ricerca, a
cura del Bin-Italia, Reddito
minimo garantito, un progetto necessario e possibile,
Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2012.
4 In particolare la Carta di
Nizza.
5 Vedi lo studio di H. Frazer e E.
Marlier, Minimum income
schemes across EU member,
European Commission Dg Employment, Social Affairs and Equal
opportunities, 2009.
6 Vedi le schede sugli schemi di
reddito minimo nei diversi Paesi europei pubblicati nella ricerca
Reddito Garantito e nuovi
diritti sociali, i sistemi di protezione sociale in Europa a
confronto per una legge nella regione Lazio,
Assessorato al Lavoro, Regione Lazio, 2006.
7 Risoluzione
del 20 ottobre 2010 sul ruolo del Reddito Minimo, nella lotta contro
la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa.
8 L’avvio delle poor
laws può essere datato
a partire dagli impianti legislativi di epoca Tudor, in particolare
destinati all’assistenza di mendicanti e vagabondi. Le new
poor laws furono
approvate nel 1834, ammodernate in particolare per la
centralizzazione dell’assistenza e miranti alla creazione di
workhouses.
Si tratta di istituzioni concepite per fornire lavoro e assistenza ai
poveri attive in Inghilterra e nelle colonie inglesi d’America, dal
XVII al XIX secolo. L’idea era che, attraverso il lavoro, i poveri
avrebbero imparato le «buone abitudini», così da essere «meno
pigri» e da «badare» a loro stessi. Erano destinati alle
workhouses anche
orfani e bambini abbandonati o figli di donne non sposate. Spesso gli
ospiti delle wokhouses
erano destinati o
obbligati a lavorare saltuariamente nelle fabbriche o nelle miniere o
anche in lavori destinati alla comunità locale come domestici,
braccianti agricoli etc. Ai poveri veniva fatta indossare un’uniforme
così che tutti sapessero che erano «ospiti» delle workhouses.
Esse furono abolite nel XX secolo con la definitiva affermazione del
welfare state.
Dal 1948 con l’introduzione nel Regno Unito del Servizio sanitario
nazionale molti ex edifici delle workhouses
furono trasformati in
ospedali pubblici.
9 Il Consiglio regionale de
l’Aquitania ha approvato progetti pilota per testare l’introduzione
di un «Rsa incondizionato». Il Revenu de Solidarité Active o
Rsa, è l’attuale strumento presente in Francia di reddito minimo
garantito. La proposta è di rendere meno stringenti tanto le forme
di accesso (così da aprire anche ai giovani dai 18 ai 25 anni)
quanto l’obbligo di accettare qualsiasi lavoro. Ciò, secondo i
proponenti, servirà a rendere la misura meno discriminatoria e meno
burocratica.
10 Sono oltre 30 i Comuni olandesi
che sperimenteranno un reddito minimo garantito con meno vincoli ad
accettare un lavoro qualsiasi. In particolare Utrecht, la quarta
città più popolata dei Paesi Bassi, con la sua proposta ha attirato
una forte attenzione di recente anche a livello internazionale.
11 Prima delle elezioni politiche
del 2015 vi era stato un forte dibattito da parte di tutte le forze
politiche finlandesi per arrivare a definire una proposta di reddito
minimo incondizionato nel Paese. Tale proposta è ora parte del
programma di governo e si è avviata la sperimentazione a partire da
gennaio 2017.
12 Così la Relazione
per Risoluzione europea sul Coinvolgimento delle persone escluse dal
mercato del lavoro (2009)
13 Risoluzione
sul Coinvolgimento delle persone escluse dal mercato del
lavoro (2009).
14 G. Standing, The
Precariat the new dangerous class,
Bloomsbury, 2011.
15 Solo in Italia, nel 2014, si
contavano 4 milioni di working
poors. Senza calcolare
il numero dei cosiddetti «lavoratori in nero».
16 Vedi R. Castel, L’insicurezza
sociale, che significa essere protetti?,
Einaudi, Torino, 2011.
17 Sono in molti a segnalare un
sempre maggior accesso alle mense per i poveri di persone che sono al
lavoro o che fino a qualche tempo prima erano al lavoro. E tra queste
vi sono persone di ogni età, sesso, nazionalità e religione.
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