venerdì 17 novembre 2017

I sogni stesi lungo il selciato (come potevamo cambiare il mondo)

mpepeCome un fiume in piena che nessuno sembra più poter fermare, le campagne di denuncia delle violenze sessuali sembrano travolgere tutto, e nessun ambito della vita pubblica, culturale e politica viene risparmiato.

 

micromega MONICA PEPE

Lo spettacolo del “personale globale” è appena cominciato, è la nuova frontiera dell’esproprio dell’umano, una nuova e più avanzata forma di capitalismo emotivo.
Quelli che hanno la colpa di essere noti accedono con i loro vissuti all’informazione patriarcale dei sistemi tradizionali di comunicazione, mentre le piattaforme sociali estraggono dal basso e in maniera sempre più orizzontale tra le persone comuni e in particolare tra gli adolescenti.
E’ l’unica democrazia ormai ad avere avanti a sé un lungo e spianato futuro di case vuote di affetti e di persone spalancate, così che nessuno possa avere un vissuto personale, una fragilità, uno scheletro originario. Una massa di individui sempre più proiettati a possedere una carta d’identità globale, ma privati delle proprie differenze e di poterle agire in uno scambio desiderante e originale.
Sta emergendo sempre più chiaramente la mostruosità di questi poteri tecnologici che controllano il mondo, attraverso la nutrizione della violenza del linguaggio e l’imposizione di una dipendenza totale fino alla rinuncia ad una propria individualità. L’obiettivo è chiaro ed è quello di attaccare le strutture identitarie stesse dell’uomo e l’origine stessa della vita.
Tanta demagogia sia nella condanna delle violenze che nelle agnizioni ma neanche un rigo su cosa è la sessualità, come si forma, dove nasce la violenza, cosa vuole dire essere uomini o donne oggi, come sono cambiati i meccanismi di funzionamento di base della coppia.
Mentre è in corso un processo degenerativo della relazione che assegna al corpo una vocazione sempre più sacrificale o di inesistenza nella sua essenza, aldilà della vestigia mercificata.

L’energia sessuale come le passioni sono le uniche grandi forze che rendono la nostra vita degna di essere vissuta, oltre che nutrire ogni altro aspetto creativo e politico dell’esistenza umana. Questo spiega la ferocia dell’attacco.
L’emergenza è reale ma così come ogni vera questione politica non se ne può parlare, è come se gravasse uno stato di interdizione permanente. La valanga rovesciata di falsi conflitti e di liquami capovolge l’ordine delle cose e chi vuole rimettere al centro la verità delle relazioni sociali e la bellezza nella politica è cancellato, e quindi impedito dal formalizzare ogni questione nella sua luce più autentica e profonda.
E’ spaventosa la resa degli operatori politici e dei centri culturali, per difendere l’esperienza umana per come l’abbiamo conosciuta. Al contrario dobbiamo recuperare potere contrattuale, perché siamo ancora in tempo per respingere questi meccanismi ossessivi a livello globale, che mirano a distruggere l’esperienza umana, a piegarla e ad asservirla ad un funzionamento pre-ordinato e artificiale.
E’ ancestrale il desiderio di castrare la potenza maschile, principio immaginifico di ogni promessa di forza e libertà dell’individuo, e così anche la ricettività femminile fonte di gioiosa creatività e di origine di ogni vita, per ingabbiare e pietrificare tutto quell’articolato e complesso sistema di relazioni che avvengono tra uomini e donne nella vita di tutti i giorni di ogni angolo del pianeta, da quello più evoluto a quello più retrogrado, per fortuna ben più ricche, conflittuali e per questo vitali, estemporanee e imprevedibili.
Un tanto al chilo come ai tempi degli schiavi, la barbarie con cui ormai si trattano i tanti casi di violenza sulle donne o la violenza su adolescenti, fa ripensare ai tempi in cui le donne erano fortemente limitate dal dettato maschilista nello spazio pubblico, ma non subivano certo questo degrado collettivo della loro immagine, diffuso e martellante.
La maggior parte delle donne ovunque nel mondo ha subito, e subisce, molestie, violenze o abusi da parte di uomini, in età diverse. Sono esperienze traumatizzanti, offensive e spesso distruttive dell’identità stessa. Ora cominciano a denunciare anche gli uomini, per certi versi hanno bisogno di un grande coraggio visto che nel mondo patriarcale per “un uomo” ancora oggi non è sostenibile l’onta di ammettere una violenza subita da parte di un altro uomo. Men che meno da parte di una donna, per l’arcaico legame di costituzionalità alla figura materna che segna sempre il primo vissuto e l’identità sessuale di qualsiasi essere umano, maschio o femmina, rendendo difficilmente riconoscibile e sempre impronunciabile la deprivazione affettiva o le violenze subite, nella maggior parte dei casi negate e autorizzate.
La violenza non nasce mai solo dall’essere uomo o donna ma dal rapporto tra generazioni e dallo sviluppo e dalla gestione del potere, così come le persecuzioni che vediamo nel mondo quasi sempre originano dall’ambiente familiare.
Sono state proprio le donne a dare una statualità scissa alla violenza maschile e credo che sia stato il più grande regalo delle donne al potere. Non solo perché ritaglia un solo riquadro di quella complessa e multiforme realtà che è la relazione sessuale e identitaria tra uomini e donne, ma anche perché riproposta in modo così narcisistico, come accade oggi, non può che istigare e causare altre forme di violenza, sopraffazione, sofferenza pronte a integrarsi in una miscela esplosiva.
La verità è che ogni essere umano è un unico e irripetibile incontro di elementi femminili e maschili ed è per questo che la violenza non è attribuibile a un unico sesso, ma viene immaginata e messa in atto da uomini e da donne in forme diverse e sempre comunicanti tra di loro, a seconda del vissuto e profondo e delle circostanze di fronte alle quali ogni individuo si è trovato nel corso della propria vita.
La verità è che le prerogative culturali che attribuiamo a un uomo e a una donna si determinano insieme e così è sempre stato.
Quello che ci siamo fatti rubare dal potere, in una inversione dei poli senza precedenti, è quella struttura economica di lavoro e quegli ammortizzatori sociali che permettevano agli individui di realizzare un processo di trasformazione del proprio vissuto in uno spazio pubblico diurno e materiale e di affrontare la paura di amare l’altro o l’altra nella trascendenza dell’incontro notturno, unico e passionale.
Non a caso la crisi oggi riguarda i meccanismi di riproduzione e di produzione, mentre la sconfitta di ogni forza collettiva di trasformazione della realtà è figlia della paura del conflitto verace e dei meccanismi di consorteria che ormai regolano qualsiasi gruppo sociale a scapito della nuda politica e dell’imponderabile.
La rivoluzione industriale fu la reazione degli uomini alla natura quando sentirono scricchiolare la sedia del loro potere politico millenario, così introdussero nella modernità che avanzava meccanismi di meta-produzione che potessero sublimare la riproduzione diretta appannaggio delle donne, sottovalutandone il portato oblativo ed emulando un processo generativo materno deprivato in assenza di trasformazione della violenza.
Insomma, c’era una grande promessa di felicità all’indomani della rivoluzione sessuale del 1968 e della rivoluzione femminista.
C’era una grande scommessa che ballava sulla pelle del mondo, quella di essere uomini e donne libere. Ma quando come donne abbiamo finito di dire agli uomini tutto quello che in loro non andava, non abbiamo avuto il coraggio di fare lo stesso con noi, e ci siamo rinchiuse nuovamente nell’ipocrisia e nei sensi di colpa che sono le facce con cui il potere, maschile e femminile, da sempre ci imprigiona e determina il nostro stesso vivere.
Avevamo una grande occasione. Avremmo potuto sederci attorno a un tavolo, uomini e donne, per ascoltare come eravamo, per vederci con gli occhi dell’altro e per capire fino in fondo chi eravamo. Confrontando dalle rispettive postazioni le nostre miserie e le nostre paure, gli egoismi e gli slanci avremmo scoperto l’altro.
Avremmo potuto parlare dell’assolutezza del potere materno all’interno delle famiglie, della indispensabile funzione paterna di presa in carico della realtà. Della difficoltà di possedere e poi separarsi da una madre, della difficoltà di crescere quando manca un padre. Della difficoltà di trasformare l’invidia che ogni generazione deve affrontare nella crescita della successiva generazione per offrire un percorso evolutivo nell’esistenza.
Sarebbe stato importante confrontarsi con la fatica della comprensione di come cambiava lo spazio pubblico per gli uomini con l’irruzione delle donne, e come cambiava l’umano, maschile e femminile, se ad essere alterati erano i meccanismi di cura materni delle generazioni successive, e chiederci se la nostra libertà corrisponde solo ai nostri bisogni privilegiati di adulti e non al diritto di chi venendo al mondo in quello stesso tempo non può fare altro che sottostare.
A chi serve rappresentare all’infinito la guerra tra uomini e donne se non al potere? Non sarebbe bello piuttosto imparare a prendere l’altro senza invadere e senza sentirsi invasi?
Io credo che la violenza più grande e uniformemente distribuita che vivono oggi le donne in ogni parte del mondo è la paura che gli uomini hanno di amarle e la profonda crisi dell’identità maschile, e ancora più grande è l’eterna inconfessabilità della dimensione della violenza che le donne usano verso le altre donne nelle loro forme persecutorie, subdole e sotterranee, oggi forse le violenze più diffuse all’interno delle famiglie proprio per la evaporazione del padre, e quindi dell’uomo a cui le donne oggi tendono sempre più ad assomigliare per compensazione.
Il femminismo degli anni '70 ha prodotto la più grande rivoluzione culturale delle relazioni intime e sociali, perdendo però subito dopo una rinnovata spinta e la continuità del dialogo tra donne che guardano sempre altrove, invece che farsi intrappolare dalle forme di prostituzione proposte dalla modernità e dalla pratica dell’odio pregiudiziale verso il maschio.
Quella scommessa è ancora lì e ci aspetta. Possiamo ancora sederci uomini e donne attorno a un tavolo, parlare di quello che siamo e sorprenderci guardando al futuro.
Per sventare l’autodistruzione a cui sembra essersi consegnato il genere umano, per provare ancora ad amare e a essere vivi, tollerando di non essere perfetti, riconoscendo i nostri limiti così da poterli attraversare.
“Avremmo dovuto lasciarci il tempo di spiegare, di spiegare i nostri più inspiegabili sentimenti, emozioni, desideri, ossessioni. Violenze, brutture, rapacità. Allora avendo lasciato parlare l’altro sarebbe stato prima spaventoso poi sorprendente ascoltarlo, ai limiti della incredulità lo avremmo attraversato. E poi come a un cambio di scena qualcuno avrebbe dato forma all’improvviso a una stanza nascosta dentro un’altra stanza ancora e poi un’altra, di cui non conoscevamo l’esistenza, non ne sospettavamo alcuna presenza, eppure un filo così sottile da non crederci neanche ora, ne aveva garantito una incolumità spiacevolmente destinataria. A quel punto la luce potendo bussare da dentro ci avrebbe liberato un cammino beato, dove l'amore erano i sogni stesi lungo il selciato”. (M.P.)
Monica Pepe
(17 novembre 2017)

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