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Red.
Saremo chiamati ad abrogare la concessione per l’estrazione di idrocarburi (gas e petrolio) entro le 12 miglia dalle coste italiane senza limiti di tempo: nelle parole del testo referendario “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”.
Saremo chiamati ad abrogare la concessione per l’estrazione di idrocarburi (gas e petrolio) entro le 12 miglia dalle coste italiane senza limiti di tempo: nelle parole del testo referendario “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”.
Diamo un’occhiata più da vicino
Il nostro territorio è suddiviso in otto aree marine, dall’Adriatico allo Ionio, dalle Marche alla Puglia, fino alla Sardegna.
La
ricerca di idrocarburi liquidi e/o gassosi nel mare italiano viene
limitata per legge solo in determinate “zone marine”, individuate dal
Parlamento e/o dal Ministero dello sviluppo economico.
Dal
2013 sono vietate le nuove trivellazioni nel mar Tirreno, nelle aree
marine protette e nelle acque entro le 12 miglia marine dalla costa; tuttavia, le concessioni autorizzate prima del 2013 possono continuare fino all’esaurimento delle risorse da estrarre .
Sono
122mila i chilometri quadrati delle concessioni alle compagnie
petrolifere. Su 107 concessioni autorizzate, 84 sono su terraferma, dove
avviene gran parte della ricerca sugli idrocarburi, e 23 sul fondale
marino. Le regioni in cui sono presenti pozzi a terra sono l’Emilia
Romagna, il Lazio, la Lombardia, il Molise, il Piemonte, la Sicilia, la
Toscana (con i giacimenti nelle aree di Grosseto e Pisa) e la
Basilicata, dove viene estratto il 70% del petrolio nazionale.
Nel 2010, subito dopo l’esplosione nel Golfo del Messico della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon
, che rilasciò in acqua 500mila tonnellate di petrolio, il governo
Berlusconi varò il Decreto Prestigiacomo per la salvaguardia delle coste
e la tutela ambientale. Il decreto limitava le concessioni d’estrazione
di idrocarburi in mare, ma solo per le nuove licenze.
Il
tema degli idrocarburi è tornato di moda solo recentemente col decreto
Sblocca Italia, attraverso cui il governo Renzi ha sbloccato
finanziamenti e progetti a favore degli amici di sempre.
Di
fatto, lo Sblocca Italia rappresentò un evidente segnale di apertura,
se non un ringraziamento per la fiducia accordatagli, da parte di Renzi
nei confronti della fascia di industriali che aveva appoggiato la sua
ascesa nel PD.
Ed
è nell’ottica di uno scontro tutto interno al PD che va principalmente
interpretata l’immediata opposizione di diversi esponenti del Partito
Democratico allo Sblocca Italia. A partire dal 1999, in seguito alla
riforma del Titolo V della Costituzione, si valutava l’inclusione della “
produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia ” tra le materie di legislazione concorrente tra Stato e Regioni, rilasciando tali competenze principalmente alle Regioni.
Le
Regioni sono chiamate infatti a produrre pareri in seguito ai normali
accertamenti sul territorio e a valutare quindi l’adesione a nuovi
progetti.
Ben
consapevoli di ciò 9 presidenti di regioni (7 dei quali di casa PD:
Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria,
Campania e Molise) hanno prodotto sei quesiti referendari e li hanno
quindi presentati alla Cassazione.
La
direzione del PD ha cercato di reagire introducendo emendamenti nella
legge di stabilità 2016, parzialmente rispondenti ai quesiti
referendari. Di fatto, un tentativo di correre ai ripari prima di una
possibile consultazione popolare.
Dato
che la Legge di Stabilità 2016 ha stabilito tuttavia il divieto di
ricerca ed estrazione di idrocarburi nelle zone di mare poste entro 12
miglia dalle linee di costa, tranne che per “ i titoli abilitativi già rilasciati, fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento
”. Ciò significa che una compagnia può continuare a trivellare entro le
12 miglia, se ha ottenuto la licenza prima dell’entrata in vigore della
legge di stabilità 2016 e potrà farlo fino all’esaurimento del
giacimento.
Pertanto
solo uno dei quesiti referendari ha superato il vaglio della Cassazione
ed è stato ritenuto coerente alla materia giuridica: su questo verte il
referendum del prossimo 17 aprile.
La
principale arma nelle mani di chi si oppone a questo referendum è
chiamare all’astensione. Né Renzi, né Confindustria hanno intenzione di
spendersi per bocciare un referendum che potenzialmente potrebbe
generare una mobilitazione simile a quella vista per difendere l’acqua
pubblica.
Si tratta quindi di testare le principali argomentazioni del NO e smontarle pezzetto per pezzetto.
1. Se l’attività di estrazione cessasse, l’economia italiana sarebbe danneggiata?
L’ Italia è per lo più un paese importatore di energia.
Nel
2014, la produzione di idrocarburi in Italia ha soddisfatto quasi il
10% del consumo totale nazionale. I nostri giacimenti hanno prodotto
7.286 milioni di metri cubi di gas (e di questi, 4.863 milioni, pari al
67%, in mare) e 5,75 milioni di tonnellate di petrolio (di cui solo 0,75
milioni in mare). I pozzi attivi in mare sono 724: 305 producono gas e
56 olio, la restante parte non eroga.
La
prima riflessione da fare riguarda la qualità del petrolio presente in
Italia. Il petrolio difatti è una miscela variabile di idrocarburi che
viene sottoposta a combustione al fine di sviluppare energia termica che
sarà poi convertita in elettrica.
Il
processo di combustione rilascia un quantitativo di residui tanto più
alto quanto meno pura appare la miscela. La presenza di componenti come
ad es. lo zolfo quindi implica ulteriori passaggi di raffinazione.
Il
prezzo del petrolio è stima di globale, non indicativa delle differenti
qualità di petrolio prodotte. Per quanto riguarda il petrolio estratto
nel mar Adriatico, come si legge su Petrolioegas.it, è scadente, mentre,
secondo le analisi presentate nel documento dell’Eni “ World Oil and Gas Review 2014
”, il petrolio della Val D’Agri, pur essendo tra i più leggeri, è ricco
di zolfo, e quindi non di buona qualità perché soggetto a procedimenti
più complessi, lunghi e costosi di raffinazione e smaltimento delle
sostanze nocive.
Questo sottende che il petrolio prodotto in Italia abbia un valore di mercato basso.
La
seconda delle considerazioni riguarda invece i dati di consumo: nel
2014 si è registrata una riduzione del consumo interno lordo di petrolio
e prodotti petroliferi dell’1,8% e di gas naturale dell’11,6% rispetto
al 2013.
Abbiamo
consumato 166,43 milioni di tonnellate (Mtep) di petrolio e 61,9
miliardi di metri cubi di gas. Quindi, rispetto all’anno precedente,
abbiamo importato e consumato meno petrolio e meno gas.
Ben
più interessante è osservare invece l’incremento dell’uso delle energie
rinnovabili. Nel 2013 la quota percentuale di energia elettrica
prodotta da rinnovabili è stata del 33,9%. Ed è salita al 37,5% nel
2014, laddove l’energia elettrica ricavata da fonti tradizionali è scesa
dal 53,3 al 48,8%.
In
generale, il consumo di energia in Italia è diminuito del 3,8%. E’
possibile ipotizzare che nel futuro del capitalismo italiano le fonti
fossili gradualmente lascino spazio alle rinnovabili.
Tale
andamento è dovuto tra l’altro alla crisi economica che, nonostante
abbia visto scendere da 100$ a 30$ il costo del barile di petrolio,
rappresenta un fattore determinante per valutare attentamente
investimenti ed importazioni.
In campo economico un’ulteriore valutazione riguarda proprio quanto le compagnie petrolifere versano allo Stato.
Si
tratta di royalties, ovvero una percentuale sulla base del petrolio o
gas estratto. Le royalties sono calcolate sui prezzi medi del mercato
del petrolio e del gas e, quindi, sono strettamente legate all’andamento
del mercato: se il prezzo del petrolio si abbassa, cala anche il loro
gettito. Questo, in teoria.
Le
società petrolifere in Italia non versano niente alle casse dello Stato
per le prime 50mila tonnellate di petrolio e per i primi 80 milioni di
metri cubi di gas estratti ogni anno. Successivamente pagano un’
aliquota che, dal 2010, per le estrazioni in terraferma è del 10%,
mentre per quelle offshore, dal 2012, è differenziata in due
rispettivamente del 10% sulla quantità di gas naturale estratto e del 7%
sul petrolio.
A
quanto corrisponde questa cifra quindi? Nell’ultimo anno dalle
royalties provenienti da tutti gli idrocarburi estratti sono arrivati
alle casse dello Stato solo 340 milioni di euro , una cifra irrisoria a fronte di incentivi e sconti fiscali di cui tali compagnie godono.
2. Se raddoppiassero le estrazioni, la nostra dipendenza energetica
dall’estero calerebbe davvero del 10%? E davvero risparmieremmo 200
miliardi nei prossimi 20 anni sulla bolletta?
Se sulla prima domanda riteniamo esaustivo quanto detto in precedenza, è nostro interesse soffermarci sulla seconda.
L’approvazione
dello “Sblocca Italia” ha dato l’occasione per parlare della
possibilità di raddoppiare la produzione di idrocarburi, ridurre la
dipendenza di gas e petrolio dalle importazioni dai paesi esteri e
risanare la nostra economia.
Ci
verrebbe da chiedere in base a quale stima siano state fatte queste
proiezioni. Non è possibile indagare su tali affermazioni oggi. Occorre
precisare che: le risorse energetiche sono esauribili; non tutte le
risorse sono utilizzabili; l’estrazione non avviene mai a costo zero,
devono piuttosto essere quantificati costi in termini economici,
energetici, ambientali (costa energia estrarre energia) e che
soprattutto non è possibile prevedere quanto detto visto senza il
supporto di dati verificabili.
La
scarsa qualità del greggio italiano, semmai, allude a un esito opposto a
quello suggerito dai sostenitori dello Sblocca Italia.
3. Gli incidenti in mare sono estremamente rari?
Nemmeno quest’affermazione non trova un reale riscontro.
Secondo
quanto riporta l’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca
Ambientale (Ispra), dal 1977 al 2010 sono state sversate nel
Mediterraneo circa 312mila tonnellate di petrolio, senza considerare
alcune decine di incidenti per i quali non è nota la quantità di greggio
fuoriuscito.
Nello
stesso periodo di tempo nei mari italiani si sono verificati 132
incidenti di cui 52 con sversamento del carico durante il trasporto. Ma
non se ne parla molto.
Ad
esempio, la stampa online ha dato ampio risalto allo sversamento in
mare di mille litri di petrolio nel campo petrolifero di Rospo Mare, al
largo delle coste tra Abruzzo e Molise, avvenuto la notte del 21 gennaio
2013 a causa di una perdita probabilmente avvenuta dalle condotte di
pompaggio dalla piattaforma collocata a 12 miglia dalla costa.
Gli incidenti sono pochi solo se si decide di ignorare la stampa o se molte notizie non raggiungono le cronache della ribalta.
4. Davvero turismo, agricoltura, pesca ed ambiente non risentirebbero di tali attività?
Nel
2014 Greenpeace ha pubblicato un report, basato su dati ISPRA, secondo
cui i fondali marini al di sotto delle piattaforme stanno superando i
limiti di inquinamento, nel 79% dei casi con assorbimento di inquinanti
da parte delle cozze più alto del 30% rispetto ad altre aree marine.
Le
trivellazioni andrebbero fermate per tutelare i nostri mari. I
promotori del referendum attaccano principalmente le tecniche di ricerca
(la cosiddetta tecnica Air-gun) ed estrazione di idrocarburi.
La
tecnologia Airgun (cannoni ad aria compressa) è recente. In precedenza
si provocavano esplosioni e si misurava il tempo di ritorno dell’eco
generato per verificare la presenza di idrocarburi.
Le
moderne reti di Airgun generano una potenza molto più elevata ed
impulsi a larga banda a partire dal campo infrasonico, deleterio non
solo per i cetacei ma anche per il resto della fauna marina. Si prevede
una diminuzione del pescato del 50% nelle aree circostanti la sorgente
sonora prodotta da questa tecnica. Più che stimolare l’economica, queste
estrazioni contribuiranno a seppellirla.
Ma
non è questo l’ unico rischio ambientale: occorre anche pensare al
rischio di subsidenza (cioè l’abbassamento della superficie del suolo,
causato da fenomeni naturali o indotto dall’attività dell’uomo).
La
fascia costiera dell’Emilia Romagna, negli ultimi 55 anni, si è
abbassata di 70 centimetri a Rimini e di oltre un metro da Cesenatico al
delta del Po. Sempre secondo il rapporto Greenpeace: “ Alcuni
studi riportano come l’abbassamento d 1 centimetro all’anno comporta,
nello stesso periodo, una perdita di 1 milione di metri cubi di sabbia
su 100 chilometri di costa, che significa spendere annualmente 13
milioni di euro per il rifacimento delle spiagge, contro i 7,5 milioni
di euro all’anno ottenuti come royalties dalle compagnie petrolifere ”.
Come
se non bastasse, ai signori della trivella andrebbe ricordato che, in
caso di incidente, l’Adriatico presenta lo svantaggio di un fondale
basso e il Mediterraneo di acque chiuse, con poco ricircolo.
5. Il referendum è davvero voluto dalle regioni e non dai cittadini?
Sulla
questione che il referendum parta da un’ iniziativa regionale e non
popolare ci risulta che proprio Renzi abbia cercato di non coinvolgere i
cittadini prima con lo Sblocca Italia, poi con la Legge di stabilità ed
infine con il NO all’Election Day.
Il
governo infatti, terrorizzato dall’idea che si potesse raggiungere il
quorum, ha impedito l’accorpamento alle elezioni amministrative.
Non
solo il PD ha suggerito l’astensione ma, tra le motivazioni, i suoi
esponenti citano la spesa del referendum, circa 300 milioni di euro,
come una spesa del tutto evitabile. Ci affidiamo all’intelligenza del
lettore sottolineando l’assurdità dell’affermazione “ il referendum è inutile perché costa soldi “..che tuttavia sono già stati stanziati.
Quindi perchè sprecarli ulteriormente?
Inserendo
il referendum nel primo turno di elezioni amministrative si sarebbero
risparmiati 300 milioni di euro per una nuova apertura dei seggi.
6. Impedendo l’estrazione, quanti posti di lavoro si perderebbero?
Tra i sostenitori del NO l’affermazione che di certo trova più sostenitori è relativa a 10mila posti di lavoro a rischio.
Precisiamo
che questa cifra contiene sia gli addetti delle piattaforme su
terraferma che quelli delle piattaforme marine: è di per sè evidente la
carenza di una stima vera e propria dei lavoratori impiegati per le
attività delle sole piattaforme marine per la mancanza di un’uniformità
tra i dati.
Tuttavia
è possibile ipotizzare una cifra di qualche migliaia di lavoratori,
operanti nelle attività di estrazione, esplorazione e perforazione.
Per
avere un’idea di quali siano timori ed idee dei lavoratori, è opportuno
valutare quanto accade entro i sindacati e particolarmente in CGIL.
Mentre quattrocento quadri e dirigenti della Cgil hanno firmato un
appello per dire stop alle trivelle e votare Sì al referendum, i vertici
della CGIL e della Filctem hanno invitato all’astensione.
Si
attesta come sempre uno scollamento tra le richieste della base ed i
vertici. La segreteria CGIL si pone ancora una volta al traino del PD.
L’ obiezione che poniamo ad una CGIL sempre più in empasse è che le
dismissioni delle venticinque concessioni chiamate in causa sono
relativamente a breve scadenza: esse comincerebbero a partire dai
prossimi 5 anni per completarsi tra 10 -20 anni.
Non
tutte le concessioni, infatti, hanno le medesime scadenze. Questo vuol
dire che prima di diversi anni non si perderà un solo posto di lavoro
per effetto del referendum. Il lasso di tempo appare del tutto
ragionevole a chi si ponga come obiettivo la ricollocazione dei
dipendenti e l’investimento nelle rinnovabili, una soluzione peraltro
avanzata dagli stessi lavoratori.
Ma se queste sono le ragioni, perché investire sul fossile? Chi ne beneficia?
Gli
interessi ad investire sul suolo italiano non riguardano solo le
divisioni italiane delle multinazionali più note, ma una grossa fetta di
alta borghesia mondiale: Shell, Eni, Edison, Italia EP, Petrolceltic
Italia, Snam, Audax Energy, Northern Petroleum Ltd , Transunion
Petroleum Italia, Apennine Energy, Petroceltic , Medoil Gas Northern
Petroleum Ltd, Rockhopper Exploration Italia e perfino il colosso
americano Schlumberger, interessato all’area tra Oristano e Corsica, in
Sardegna e nel Canale di Sicilia.
Sottoponiamo
all’attenzione di chi legge un dato non poco rilevante. Nel 2015 le
stesse multinazionali hanno abbandonato l’ intenzione a procedere alle
trivellazioni in Croazia. Molti altri paesi stanno convertendo la
produzione in ambito delle rinnovabili. Non si può escludere che questo
sia dovuto anche alla crisi economica che vede il prezzo dei barili
oscillare di continuo e rende il business un investimento sempre meno
certo.
Cosa
spinge quindi queste multinazionali a cessare le ricerche su un lato
dell’Adriatico e a riprenderle sull’altro sulle coste italiane?
La
risposta è banale e non può che tenere in considerazione un sistema di
agevolazioni e incentivi fiscali, quello italiano, che è tra i più
favorevoli al mondo.
Perfino
l’art. 37 del decreto Sblocca Italia, infatti, prevede meccanismi
tariffari incentivanti a favorire lo sviluppo di ulteriori prestazioni
erogative di punta, un assunto che, secondo quanto detto dal WWF in
un’audizione alla Camera, potrebbe creare le premesse per una bolla
idrocarburi.
Le
royalities bassissime, stabilite dalla borghesia nazionale,
rappresentano un affare più che ghiotto. Si tratti di affari che ruotano
intorno a non pochi miliardi di euro. E l’art. 36 prevede l’estensione
dell’esenzione del Patto di stabilità (pari al gettito delle royalties)
per quelle regioni che autorizzano attività di ricerca e coltivazione
degli idrocarburi. Pare quindi che il dibattito attualmente visibile tra
le schiere del PD trovi un’altra ragione di esistenza e cioè il
controllo di risorse economiche da accaparrarsi.
Assomineraria
nel 2014 prefigurava 80 nuovi progetti da avviare nell’arco di 4 o 5
anni e un investimento pari a 17 miliardi di euro per mettere in
produzione le riserve già scoperte, attuare piani di ricerca per
identificare nuovi siti e promuovere impianti per lo stoccaggio in
giacimenti esauriti di gas naturale.
Nella
sola Sicilia si parla di 100 milioni di euro e questo è sufficiente a
comprendere il NO di Crocetta al referendum, NO che si lega a tutta una
politica di conciliazione di interessi già visibile nella spinosa
questione Muos.
A
tutela degli interessi padronali non poteva che schierarsi il partito
della borghesia italiana, il PD. Ecco perché non ci sorprende la
posizione di Deborah Serracchiani che, nel 2012, sfilava tra i NOtriv ed
oggi in qualità di vicepresidente del PD, insieme a Lorenzo Guerini,
dichiari inutile il referendum.
Il
PD continua ad essere avviluppato in contraddizioni insanabili: come
interpretare altrimenti la posizione dei 7 presidenti regionali, tutti
in quota PD, promotori del referendum?
Si
prendano le affermazioni di Piero Lacorazza, presidente del Consiglio
regionale della Basilicata, (capofila nel referendum), che con tanto
rammarico afferma “ Sono iscritto al PD, ci resto e non mi astengo. E farò campagna referendaria per il Sì al referendum del 17 aprile ”.
Facile
a questo punto per le opposizioni, foriere di provvedimenti analoghi
negli anni precedenti, sbilanciarsi sul Sì al referendum. Non si spiega
diversamente la posizione di molti degli esponenti di Forza Italia: è
esattamente al governo Berlusconi che si deve la deregolamentazione nel
settore trivellazioni per anni.
Le
trivelle sono il simbolo tecnologico del petrolio: vecchia energia
fossile causa di inquinamento, dipendenza economica, conflitti,
protagonismo delle grandi lobby. Qualunque stato non investa nelle
rinnovabili, dipende dal petrolio. Nel dicembre del 2015 l’Italia ha
partecipato alla Conferenza ONU sui cambiamenti climatici tenutasi a
Parigi, impegnandosi, assieme ad altri 194 Paesi, a contenere il
riscaldamento globale entro 1,5 gradi centigradi e a seguire la strada
della decarbonizzazione.
Le
scelte del governo Renzi vanno in direzione del tutto opposta: è la
logica del profitto qui ed ora che ignora qualunque tipo di
considerazione a lungo termine. Ciò che avrebbe senso in Italia è
diversificare a produzione di energia implementando lo sfruttamento
delle fonti secondo le caratteristiche del territorio. Il territorio
italiano infatti consenti di progettare sistemi produttivi
differenziati: il fotovoltaico in Sicilia e Sardegna, il geotermico in
Toscana e Lazio ecc.
Bene
lo sanno i lavoratori ed i comitati NO triv che hanno organizzato una
spettacolare manifestazione a Lanciano nel 2015, contando 60mila
presenze.
Il punto è chi potrebbe dirigere tale differenziazione.
Di
certo, non le compagnie petrolifere. Nemmeno, tuttavia, aziende “green”
private che si limiterebbero a sostituire un tipo di sfruttamento del
territorio a un altro, pur di rimanere sul mercato. Un simile, profondo,
cambiamento può essere portato avanti solo da chi lavora nel settore e
chi vive sul territorio: solo dai lavoratori e dai tecnici che sanno
come progettare, non inquinare, non sprecare e non incidere sul
territorio; una gestione democratica e pianificata delle aziende
energetiche sotto il controllo diretto di chi vi lavora e di chi abita
il territorio è l’unica via d’uscita da questo impasse.
Lo
ribadiamo: perpetuare investimenti in un settore che per molteplici
motivi è in esaurimento non ha alcun senso. Non sarà certo il
capitalismo il sistema capace di risolvere queste contraddizioni. Una
prospettiva che concili il progresso e lo sviluppo in armonia con
l’ambiente è prerogativa di un’ organizzazione sociale che non ruoti
attorno al profitto e che non sacrifichi ad esso gli interessi propri e
soprattutto dei ceti subalterni.
Perché
questo sia possibile il voto referendario è solo un passaggio, per
quanto importante. Com’è stato per il referendum sull’acqua, infatti,
rischia di restare un segnale e poco più: pur non avendone le stesse
caratteristiche, anche questa mobilitazione rivela tutta la fragilità
delle lotte portate avanti sul solo terreno consultivo; lotte capaci di
mobilitare ma che poi, dopo il voto, smobilitano e non riescono nemmeno a
difendere le conquiste strappate.
Ecco
perché è necessario non delegare, organizzarsi ed organizzare la lotta
sul territorio, riappropriandosi della possibilità di scelta e di
controllo dal basso.
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