domenica 24 aprile 2016

Ragionamenti. Di che arte abbiamo bisogno?

Elisa Mearelli
Elisa Mearelli

Poche settimane fa è morto Luciano Gallino, un economista serio, di area olivettiana; e a suo modo anche un ottimo letterato, traduttore tra l’altro di uno dei capolavori della letteratura del Novecento, Uomo invisibile di Ralph Ellison. Ha fatto molte cose nella vita.


Ha scritto un libro – non l’ultimo, Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, a nipoti reali e non immaginari – in cui diceva che la lotta di classe c’è ancora, ma la fanno solo i ricchi contro i poveri. I poveri non la fanno più, gli oppressi non si ribellano più – quanto meno in Occidente – e non si assiste, almeno da noi, nemmeno a quella rivolta dei ceti medi che ipotizzò Ballard nei suoi libri di fantascienza sociologica. L’oligarchia – cioè l’uno su non so quante migliaia e milioni di persone che controlla il potere mondiale, che controlla il denaro, che controlla in definitiva tutto il controllabile – procede secondo una sua strada che è distruttiva e alla lunga anche autodistruttiva, e che sta portando il mondo verso la sua fine.
Gallino era un sociologo, e però anche un forte intenditore dei giochi dell’ economia. e pensando all’economia a me viene in mente che ci sono quattro settori dell’economia contemporanea – penso all’Italia, ma non solo – che tirano, che non sono in crisi: uno è il mercato delle armi, l’Italia è dentro questo meccanismo molto più profondamente di quanto non pensiamo, il bresciano vive in parte di questo; un altro è il mercato che riguarda i bambini, che non è mai stato così vasto in passato; un altro è il mercato del cibo, e non ci insisto, perché tutti ne sappiamo qualcosa; però forse il settore dell’economia più vasto di tutti, quello che riguarda il maggior numero di persone, è la cultura. A questo noi non pensiamo mai: di essere tutti dipendenti di un settore dell’economia che è la cultura. La vera grande industria del nostro tempo, nel mondo occidentale, è la cultura.

Quanti sono gli addetti alla cultura, in un paese come l’Italia? Centinaia di migliaia di persone, considerando funzionari, insegnanti, artisti, amministratori, assessorati, cinema, teatro, musica, musei, festival… e televisione, giornali, radio… e gli impiegati e operai che sono coinvolti in questo campo, giù fino ai funzionari di stato e a quelli della Siae…. L’insieme della gente che lavora nella cultura, che campa direttamente di cultura oggi in Italia, è a occhio di due milioni di persone – secondo un calcolo fatto a braccio con un amico statistico a partire dal fatto che quelli regolarmente iscritti nel ramo cultura dal punto di vista sindacale e professionale (editoria, cinema, teatro, festival, ma non tv e radio e giornali, non la scuola) erano l’anno scorso quattrocentotredicimila.
Questa cifra riguarda solo i privilegiati, quelli che per l’appunto sono riconosciuti come addetti alla cultura e allo spettacolo. Però quanti di noi sono riconosciuti come tali? Sì, qualche teatrante, o qualche giornalista, e qualche professore universitario. La cultura è diventata, credo, nel mondo occidentale, l’oppio del popolo. Non lo è più la religione, grazie anche a papa Francesco, ma lo è certamente la cultura. Perché serve, nel mondo occidentale, a manipolare le coscienze, a imporre dei modelli di vita, che oggi sono quelli assolutamente dominanti, che hanno enormi mezzi a loro disposizione per imporsi e che hanno prodotto quei giornali, quella tv, internet: hanno fatto dell’uomo una macchina facilmente manipolabile, solitaria e manipolata.
Simone Weil diceva che il sogno dell’uomo del Novecento era di diventare una macchina. Questo sogno si sta realizzando, stiamo diventando delle macchine, controllate come i cani di Pavlov; ci mandano dove vogliono per farci fare quello che vogliono, ci fanno pensare (e comprare) quello che vogliono. In questa situazione i giornali e la tv sono forse un residuo, però insieme a internet sono oggi la vera forma del fascismo quotidiano del nostro tempo. In questo ambito gli intellettuali al potere non servono più e se il potere non ne riconosce la presenza e la funzione essi stessi fanno di tutto per non averle. Si accontentano delle gratificazioni – l’osso del cane ubbidiente – che gli vengono date con molta generosità in immagine (fama) e benessere (denaro). La fine degli intellettuali come elemento importante all’interno di una società ce l’ha spiegata Enzo Traverso in un suo recente e acutissimo libro-intervista (edito da Ombre corte, Verona), ma è ovvio che in molti ce ne eravamo accorti da tempo – anche se non i filosofi parigini e i loro emuli italiani.
La fine degli intellettuali risale credo agli anni ottanta, in Italia alla morte degli ultimi della generazione cresciuta nella guerra e nella ricostruzione, una generazione a vederla ora grandiosa e straordinaria, la migliore che il paese abbia avuto, intellettuali (nel cui numero considero ovviamente gli artisti) che un ruolo da svolgere lo ha avuto e che ha continuato a esercitarlo sino alla fine. Chi erano in Italia gli intellettuali? Non tanto i professionisti della cultura, quanto individui che erano per vocazione, gli artisti, o per professione, gli studiosi, anche tra loro certi giornalisti, che riuscivano a parlare alla nazione, a un pubblico molto vasto, additandogli i problemi aperti e le responsabilità che ne conseguivano. Essi si assumevano una responsabilità civile nei confronti della società.
Questa figura nessuno la vuole più e non esiste più: gli intellettuali italiani di oggi, per il 99 per cento o il 999 per mille oggi non sono paragonabili neanche da lontano a quelli che abbiamo conosciuto in passato. Gli intellettuali oggi sono dei divi e dei funzionari, noti o non noti, e i divi non meno funzionari dei funzionari, di un preciso sistema di potere, che si regge come non mai sul consenso di un popolo bensì alfabetizzato, spesso laureato. (La stessa parola, “sistema” sarebbe anch’essa da rivalutare e ri-studiare, in chiave proprio marcusiana.) Come dice il proverbio, oggi, con eccezioni rarississime, gli intellettuali “attaccano l’asino dove vuole il padrone”, o meglio, attaccano se stessi dove vuole il padrone, e non scalpitano se non per farsi avanti, per apparire e per avere. Lunga è la fila di quelli che vorrebbero farsi attaccare, interminabile e fitta di nuovi arrivati, anno per anno, generazione per generazione.
C’è una complicità di fatto – di tutti, non solo degli intellettuali – con lo stato di cose presente. E mancano alternative, manca un risveglio. Certo, in questo la colpa forse maggiore, se uno deve parlare di colpa, è della sinistra, Partito Comunista Italiano in primis, che ha ucciso voluttuosamente ogni residuo di tradizione socialista e autodifensiva nel suo sogno di conquista dello Stato, nel suo statalismo forsennato, che ha distrutto ogni possibile alternativa rispetto al modello sviluppista-capitalista, bancario-finanziario in cui siamo (ci ha) precipitati.
Questa complicità ha finito per riguardare tutti, perché tutti abbiamo tratto qualche vantaggio da questa situazione, in particolare noi che viviamo di cultura, “funzionari marginali” del sistema culturale, della fabbrica della cultura. La complicità dipende da tante cose. Dipende per esempio dal fatto che tutti tengono famiglia. Tutti teniamo famiglia, teniamo gruppo, associazione, corporazione, clan, mafia; tutto il mondo va avanti per queste strade, non solo l’Italia. E famiglia, gruppo, associazione, corporazione, mafia, clan indicano nel senso comune esattamente l’opposto della parola comunità. La parola comunità è stata una parola molto importante; la parola comunicazione – tra i tanti derivati da comune: comunanza, comunella, comune inteso come municipio e luogo di vita, comunismo, comunione (anche in senso religioso), e Comune nel senso della Comune di Parigi – ha sopraffatto tutti e ha stravolto completamente la primaria definizione di “mettere in comune”, di “stare in comune”, “volersi bene in comune”, di “vivere in comune”, di comunità, mentre la comunicazione è diventata propaganda, pubblicità, distrazione, imbonimento.
Questo stravolgimento ha avuto per il potere un’importanza strategica, e ne è conseguito che la cultura e lo spettacolo e internet, per esempio, e per affrontare di petto la questione, fanno parte del sistema del dominio, ne sono lo strumento privilegiato, più perfino della polizia e delle armi. Servono per addormentare le coscienze e non per risvegliarle. Affinché si sia felici (non-pensare toglie le preoccupazioni e mette a tacere gli assilli della coscienza, i dubbi della mente, la ricerca delle soluzioni) veniamo riempiti, alla lettera, da musiche, da immagini fisse o in movimento, da parole, da scritture, da voci assolutamente non necessarie, da tutto il superfluo possibile, da tutto quanto possa servire a non farci pensare. Il potere ci ama, e sa che se pensiamo rischiamo il disagio, l’infelicità In casi estremi, ci sono gli psicofarmaci. Più oltre, ci sono o torneranno a esserci, i manicomi e le prigioni. E se noi non pensiamo loro fanno di noi quel che gli pare, quello che vogliono. L’ambiguità della parola “cultura” sta nel fatto che per reagire a tutto questo noi abbiamo bisogno di cultura. Ma il problema è quale cultura. Quale cultura? Una cultura di opposizione al mondo così com’è, e alle idee e pratiche ci vengono imposte, anche se le si finge proposte.
Quale cultura vuol dire anche, e forse soprattutto, quale arte. L’arte – e quindi anche il teatro – ha sempre avuto un’enorme funzione, ma questa funzione esige oggi di venire ridiscussa. Dalla base. Platone diceva che l’arte è il perturbante, è ciò che incute timore, che mette a disagio, che costringe a pensare, a rimettersi in discussione. Oggi la cultura e l’arte fanno esattamente l’opposto: aiutano a non pensare, non “perturbano” più, non turbano ma consolano. Nei modi più rozzi, plateali, ruffiani.
La cultura è stata anche, quando minoritaria, il punto più alto di un’opposizione al mondo così com’è; diceva che può esserci un mondo altro, che ci sono mondi altri, che ci sono altri territori da esplorare che ci riguardano, consci o inconsci, economici o culturali. Oggi la comunicazione ha totalmente soppiantato l’arte. Non contempla alcunché di radicale, serve a imbonire rassicurare conformare, è uno strumento del potere per tenerci buoni, per distrarci dalle cose serie. Nel corso dell’ultimo secolo ha soppiantato la stessa comunicazione tradizionale, plurisecolare, ha distrutto quelle forme di comunicazione che esprimevano una dialettica molto forte tra l’alto e il basso. Mi spiego: è esistita in Italia, fino agli anni ottanta del secolo scorso, una cultura che era il popolo a produrre. Io sono un vetero-populista e me ne vanto, un populista di quando un popolo c’era, da cui c’era da imparare e per il quale valeva la pena di lottare. Essendo vecchio, ho visto e ascoltato le sceneggiate, i giochi di piazza, i cantanti di piazza, i cantastorie, il circo, i grandi comici, i comici dialettali locali milanesi piemontesi triestini napoletani siciliani… Ho letto fotoromanzi e fumetti, il Guerin Meschino, la Pia de’ Tolomei del Sensani, le vite di Beatrice Cenci e di Rita da Cascia. Ho amato i film di Riccardo Freda e quelli di Raffaello Matarazzo, di Totò e di Maciste… Ho visto cos’era un popolo che creava una propria cultura, una cultura con cui quella borghese e dominante scendevano obbligatoriamente a patti. Il cinema ha sempre trattato con questa cultura bassa derivandone cose che nei migliori dovevano servire a farla crescere, a farla maturare; far maturare la coscienza delle persone, delle popolazioni, del popolo. Penso a Fellini, penso a Monicelli, a Comencini…
La parola “presa di coscienza”, su cui si è basato tutto il socialismo ottocentesco, oggi non ha più corso, è diventata un’espressione totalmente desueta – ma credo che oggi la battaglia da fare sia proprio quella per una presa di coscienza, anche minoritaria, di ciò che è il popolo è diventato, è oggi, di ciò che siamo noi, piccola borghesia generica, succube, condizionata e oppressa ma con nessuna voglia di mettersi in gioco.
Anni fa venne in Italia, invitato anche da me, Colin Ward, un grande teorico e studioso anarchico inglese, che si occupava come tutti i grandi anarchici di educazione, cioè di pedagogia, e di urbanistica, cioè di città, della polis. In una piccola manifestazione pubblica, uno dei giovani presenti ha chiesto a Colin quale fosse la sua personale definizione della parola anarchia. La risposta mi turbò molto, e ho continuato a tenerla presente anche come una sorta di definizione dell’arte oggi: “una forma di “disperazione creativa”. Mi sembra una definizione bellissima. Non mettere le bombe, ma guardare lo stato delle cose, spaventarsene e cercare di pensare a cosa si può fare per reagire a tutto questo. Non c’è nessuna protervia, non c’è nessun trionfalismo in questa risposta.
Sempre pensando agli intellettuali di una volta, quelli che ormai sono morti tutti, la generazione cresciuta sotto il fascismo e una o anche due guerre mondiali, io ho avuto un rapporto molto intenso con due grandi donne del Novecento, Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Ci sono due piccoli libri che raccolgono loro testi d’occasione ma fortemente teorici, della prima Pro o contro la bomba atomica, della seconda Corpo celeste, entrambi editi da Adelphi. Elsa Morante, nella conferenza che dà il titolo al libro diceva che il poeta, ma direi “l’uomo di cultura” per estensione, è una specie di San Giorgio che combatte contro il “drago dell’irrealtà”. E cos’era per lei l’irrealtà e cosa dovevano fare il poeta, l’artista? “Impedire la disintegrazione della coscienza umana nel suo quotidiano e logorante e alienante uso col mondo. Restituirle di continuo, nella confusione irreale e frammentaria e usata dei rapporti esterni, l’integrità del reale o, in una parola, la realtà”. Diceva che i nemici della realtà sono tanti, e che “il sistema della disintegrazione ha i suoi funzionari, segretari, parassiti, cortigiani”, ma quando le si chiedeva di fare degli esempi lei rispondeva: “E’ ovvio: da un lato la bomba atomica, dall’altro la televisione”. Da un lato una tecnologia che produce un sistema di morte, e dall’altro la televisione che distrugge e uccide le coscienze.
Anche il problema di quale teatro va visto in rapporto a quello di cosa oggi può e deve essere considerato arte. La parola “arte” ha visto nel tempo, fino a oggi, significati che corrispondevano alla situazione di epoche diverse; riguardava le forze dominanti di una certa epoca e le persone che hanno cercato di reagire a questo dominio accettando alcune cose e rifiutandone altre, barcamenandosi o a volte ponendosi in contrapposizione vera e propria ai valori sociali dominanti. Il compito che si dava l’arte era di dire il vero più vero, i nodi, le essenze, le debolezze, le forze, il nascosto, l’esprimibile, l’inesprimibile… Si dava scopi vicini soltanto alla religione, e spesso più asociali che non sociali: interrogarsi sulle cause prime, sui problemi primi; scavare, aiutare le menti a non intorpidirsi, a svegliarsi, a stare in guardia, a pensare, a ragionare. E ovviamente subiva continuamente i ricatti del potere, i ricatti del denaro e quelli del successo, ma mantenendo nel corso dei secoli questa capacità di produrre, generazione dopo generazione, sia un mare di servi più o meno dotati – che producevano quella che oggi si chiama appunto “comunicazione” – e poi dei veri artisti, che sapevano stare nel mondo ma anche a volte resistergli sino al punto di soccombergli,   di venirne totalmente respinti ai margini o di sparire.
Di definizioni dell’arte ne possiamo trovare tante, ma è certamente il caso di ricordarne una delle più radicali, quella data da Tolstoj, che l’arte è quella prodotta dal popolo per il popolo. Tolstoj riconosceva il valore di arte solo a quella che nasceva dal popolo… Anche far bene una sedia, anche forme di artigianato rivolte al contesto, a referenti precisi, una sedia non per i prìncipi ma per le persone comuni.
Qual è stato il principale nemico dell’arte nel Novecento? Cito due autori estremamente differenti tra loro. Uno è il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, impiccato da Hitler perché partecipò all’attentato del 20 luglio. Nel suo ultimo testo, passato clandestinamente fuori dal lager, e intitola Dieci anni dopo (dopo il trionfo del nazismo), diceva che il problema maggiore del nostro tempo, è il problema degli stupidi. Contro la stupidità si perde sempre, diceva. La stupidità è peggiore della peggiore delle violenze, perché è inattaccabile, gli stupidi sono il problema del nostro tempo perché sono quelli che credono di pensare con la propria testa mentre sono pensati dal potere, dicono le idee che sono loro imposte, nel caso del nazismo, da Goebbels attraverso la radio, il cinema, i giornali, la chiesa, la scuola: attraverso tutti i mezzi di “comunicazione” possibili. L’unica proposta vincente sul piano pubblicitario è l’ossessione con cui si veicola uno stesso messaggio. Questo metodo invero “totalitario” ha prodotto una nazione di stupidi. Oggi produce noi, la nostra cultura, i nostri modi di vivere e di pensare.
L’altro autore è Vitaliano Brancati, di cui nessuno parla più ma che è uno scrittore che ho molto caro, grande moralista, e non solo grande scrittore. Scrisse un testo in cui diceva che il problema dei politici era di occuparsi dei derelitti – chiamando derelitti gli oppressi di vario tipo. La politica ha come scopo quello di risolvere il problema dei derelitti; di far star bene la gente, i contadini e gli operai ma soprattutto i morti di fame, gli ultimi, gli oppressi. Lo scopo della cultura è invece quello di pensare agli stupidi, di aiutare gli stupidi a diventare intelligenti, a liberarsi della stupidità. Oggi, in modo maggioritario e imponente, sia la politica che la cultura sono fatte da stupidi, ed è questo a rendere così difficile operare in direzione contraria. Pensate ai nostri governanti e ai nostri dirigenti politici, ma pensate anche ai nostri intellettuali famosi, alla stragrande maggioranza dei critici, dei giornalisti, dei collaboratori delle pagine dei supplementi letterari, al chiacchiericcio radiofonico e televisivo, alle “tribà dei lettori” e degli spettatori, ai blog e affini: la stupidità è trasversale e ci colpisce tutti, ci riguarda tutti.
Diceva però Bonhoeffer che bisognava stare attenti a non cadere nella tentazione del disprezzo nei confronti degli stupidi, perché se ci guardiamo allo specchio dobbiamo pur constatare di essere anche noi, in buona parte, degli stupidi. Di conseguenza si tratta di liberare noi nel momento in cui cerchiamo di risvegliare gli altri; di svegliarci noi nel modo in cui cerchiamo di svegliare gli altri. E questo implica un forte strappo, un’autoanalisi radicale.
Cosa c’entra la critica? La mia piccola frase-sintesi su cos’è la critica l’ho trovata attraverso l’ultimo grande critico cinematografico del Novecento, Serge Daney, il quale diceva che compito del critico è di scrivere una lettera al pubblico perché la legga l’autore – cioè il romanziere, il regista, il pittore, eccetera; è una triangolazione di cui si possono anche cambiare i termini e il risultato forse non cambia: la critica è una lettera che il critico scrive all’autore perché la legga il pubblico. Questa triangolazione implica che la figura del critico sia una figura paritaria rispetto a quella del pubblico e dell’artista. Si tratta di tre figure di cui c’è ugualmente bisogno: se manca la figura del critico, il meccanismo si rompe. Oggi il meccanismo si è rotto perché la critica si è suicidata, si è suicidato maggioritariamente il pensiero critico, la critica dell’esistente. Si è suicidata, con questo, anche la sinistra.
Di conseguenza oggi la critica dovrebbe mirare molto in alto, esigere davvero molto da sé. Il pensiero critico attraversa oggi difficoltà enormi. Le figure degli intellettuali che tentano ancora di esercitarlo sono oggi debolissime rispetto al passato. Il problema è di riconquistare una radicalità tenendo conto delle pratiche sociali, del contesto sociale. In passato Sciascia, Calvino, Pasolini, Fortini, la Morante ci davano anche delle indicazioni pratiche, non solo delle indicazioni teoriche, delle invocazioni, dei messaggi, di davano anche indicazioni concrete sul “che fare”. Entrare nel pratico, assumersi delle responsabilità. Soprattutto oggi che non è questione di inventarsi delle utopie: non è più il tempo delle utopie, il mondo va in discesa e quali utopie positive ci possiamo immaginare? Sì, certo, è pieno di guru che ci dicono che andando in bicicletta invece che in automobile cambierebbe tutto, ma tanto loro passano tranquillamente dalla bicicletta all’automobile o all’alta velocità… C’è una complicità che riguarda tutti e che è molto difficile da spezzare. Oggi non abbiamo bisogno di utopia, forse è solo questione di come reagire a una situazione probabilmente estrema in cui il problema è quello di una sopravvivenza attiva, di non arrendersi anche se sappiamo che le cose girano male e malissimo. Il pensiero critico è utile, serve, non può essere fine a sé stesso, il compiacimento delle persone che hanno capito tutto ma si guardano dal praticare quello che hanno capito, da tirarne le conseguenze, da dare indicazioni su quello che sarebbe ancora possibile fare.
La vera tentazione del nostro tempo, credo di tutti noi, se ci guardiamo un minuto allo specchio e ci pensiamo la mattina prima di alzarci, è quella del nichilismo. Quella di riconoscere che non c’è più niente da fare, che il mondo ha preso una china irreversibile, che non ci sono più alternative credibili, speranze da proporre, lotte nelle cui possibilità di successo credere ancora eccetera. Ogni tanto mi vengono, e me ne spavento, delle botte di simpatia per quei ragazzini americani che una mattina si svegliano, constatano ancora una volta che il mondo fa schifo e che non vogliono farne parte e decidono se fare una strage o ammazzarsi,e quasi sempre prima fanno una strage e poi si ammazzano! E’ chiaro che la simpatia non è per la loro scelta ma per la loro angoscia di fronte al mondo che si trovano davanti. Ovviamente noi dobbiamo cercare forme di resistenza a tutto questo, e i modi per contrastare la china e l’abulia, l’amoralità, la biologia che ne consegue, ma non si può negare che il nichilismo, ogni tanto, ci attrae, che ci troviamo dentro queste dinamiche, questo meccanismo. Il problema vero è dunque quello di resistere e di come resistere, di non lasciarsi fregare da questo mare di ricatti, di rompere le scatole e dare degli esempi. Qui si apre il grande discorso della disobbedienza civile, che non è il caso di rifare qui, anche se è fondamentale. Perché bisogna ripartire dalle grandi domande. Che sono poi le grandi domande, diceva Tolstoj, che si fanno i bambini: “perché sono al mondo?”, “perché ci sono i maschi e le femmine?”, “perché ci sono i ricchi e i poveri?”, “perché le stelle girano e noi non giriamo?”… Bisognerebbe ripartire da queste esigenze basilari, primarie, essenziali: perché il mondo è o è diventato quello che è? Queste domande ogni analfabeta del passato prima o poi se le poneva, ma oggi si direbbe che “la cultura” abbia distrutto questa necessità, inventando montagne di parole mistificanti, e farci accettare ciò che al potere piace farci accettare, nascondendone lo squallore o la crudeltà, la perfidia…
Ma veniamo al teatro. Diceva Fortini: di che parlare se non di corda, in casa dell’impiccato? Ma quest’impiccato ha ancora dei sussulti, può essere rianimato, riportato in vita, se si taglia la corda. Il vantaggio che ha la critica teatrale rispetto ad altri settori come letteratura e cinema è quello di avere ancora dei profeti utilizzabili. Molto più del cinema: il cinema ha ancora degli esempi, dei registi, ma non dei teorici. Dopo la morte di Serge Daney, però onnivoro e succube dell’esistente e privo della indispensabile visionarietà dei profeti, non c’è in giro chi dica cose che servono alla categoria “registi cinematografici”, ci sono solo, più o meno, dei tremendi prof. universitari (i Dams! Ma è già cosa di ieri) e dei mostruosi (nel senso del vecchio film I mostri) critici-pubblicitari o segaioli-fanzinari. Il teatro invece ha ancora dei profeti a cui rifarsi e da cui è possibile ripartire, dei mori più vivi dei vivi. Ha un punto di partenza straordinario, Rimbaud, quando dice “bisogna essere assolutamente moderni”, uomini del proprio tempo, attivi nel proprio tempo. A noi è data solo questa vita, e di questa vita dobbiamo fare un uso adeguato; bisogna partire da questo, non rinviare al futuro o avere nostalgie del passato. Si tratta di guardare in faccia la realtà di oggi. Su questa scia, perché gira e rigira tutti a Rimbaud si sono rifatti, ci sono stati Antonin Artaud, Jerzy Grotowski, Julien Beck-Judith Malina, Carmelo Bene… Già questi quattro mi bastano: se uno vuole fare teatro oggi, a rileggere i loro scarni manifesti, le loro persuasioni, i loro messaggi c’è ancora da apprendere l’essenziale, il via, la ri-partenza. Messaggi scarni, perché dal punto di vista teorico non è che hanno fatto come Stanislavskij, che scrive e prescrive tutto un metodo. Loro ti dicono il senso, ti dicono la ragione e la direzione. Vanno subito al nodo. E ti danno perfino la possibilità di avere uno sguardo diverso dal loro. Perché quello che dicono rispetto al loro tempo vale oggi, è utile oggi e proprio oggi. Quello che hanno scritto Carmelo Bene, Grotowski, Beck e Artaud, secondo le loro diverse sensibilità, è di un’attualità straordinaria. Leggiamo i testi giovanili di Grotowski ripubblicati da poco e ci accorgiamo di quanto siano vivi, di come non riguardino la Polonia degli anni cinquanta ma l’Italia del 2015 e il “brave new world” in cui siamo entrati. Si tratta sempre di un discorso minoritario, si tratta sempre di un discorso da pochi a pochi, guai a pensare in termini di masse, di successo, di fama. I nostri maestri si sono ben guardati dal prometterci tutto questo, sono i cattivi maestri che lo hanno fatto, o sottinteso: le macabre illusioni e i ricatti meschini, ignobili, sudici, proposti dalla società dello spettacolo e dall’ idolatria della comunicazione.
Pensiamo al papa. Oggi pensiamo tutti ogni tanto al papa perché ringraziamo Dio – se c’è, ma io sono convinto di no – di averci mandato un papa che vede le cose con un radicalismo e una semplicità, un’immediatezza, che ci mettono in crisi e che ci aiutano a svegliarci. In pratica, i teologi recenti – da Bonhoeffer in avanti – hanno detto che ogni epoca ha il compito di ridefinire Dio, pensando ai suoi bisogni più profondi. Forse quel che questo papa va facendo è di ridefinire Dio, e, non credo coscientemente, oso dire che lo fa in termini socialisti. Ci fa capire che il problema non è l’aldilà – il premio o la condanna, il Paradiso o l’Inferno – ma l’al di qua, che il regno di Dio o è di questa terra o non è.   Un regno, o meglio una repubblica!, di uguali, di solidali, di attenzione agli stupidi e ai derelitti da parte dei privilegiati per nascita o per intelletto.
Ma se si tenta da parte di alcuni di ridefinire Dio in rapporto a quest’epoca (l’assenza e dunque il bisogno di Dio, diceva Carmelo) credo che allo stesso modo vada ridefinita l’arte. Di che arte ha bisogno il nostro tempo? E’ impressionante constatare come dagli anni Sessanta in poi, da quando è morta l’idea di un mondo migliore, non ci siano più gruppi di artisti che scrivano manifesti, che sentano di avere una visione e un progetto comuni e lo gridino al mondo. Tutto il Novecento e l’Ottocento sono pieni di manifesti, di artisti che si mettevano insieme e scrivevano cosa dovevano essere il teatro, la pittura, la musica, la letteratura, la poesia, il cinema… Oggi non lo fa più nessuno: siamo tutti monadi, ognuno per i fatti suoi e Dio contro tutti, era il titolo di un film di Herzog. E’ nostro compito anche quello di affrontare quest’enorme problema di ridefinire che cos’è l’arte oggi, che cosa può e deve essere, di che arte il mondo, questo mondo, ha bisogno. Bisogna ricominciare da quei, anche se dubito che molti vogliano farlo, perché vuol dire mettersi in discussione, buttare alle ortiche tante esperienze passate, ricominciare quasi da capo. Una gran fatica. Ma se non la si affronta, non si va da nessuna parte. E ovviamente, quando la mettiamo in questi termini brutali, diventano comici tutti i discorsi sulla comunicazione. I Dams sono già fottuti, e c’è solo da rallegrarsene. Pochi hanno avuto il coraggio di scomunicare la comunicazione, pochi e benemeriti. Chi se ne frega delle scienze della comunicazione, del successo di pubblico, della fama, della protezione dei funzionari-principi del possibile, della recensione su “Repubblica” e sul “Sole 24 Ore”… Si lavori in un’altra direzione: diamoci scopi adeguati ai bisogni del tempo in cui viviamo, ai bisogni di questo tempo. Se non facciamo questo siamo semplicemente dei complici e dei vili. Magari intelligenti, magari bravissimi: conosciamo tra i complici anche intelligenze d’eccezione, infinitamente più intelligenti di noi, teste d’eccezione che scrivono e dicono cose di grandissimo interesse e anche molto utili, ne conosco diversi, anche personalmente. Ma gli manca quel punto lì, quel baricentro, quell’esigenza. Si lasciano vivere, anche bene. Si accontentano, beati loro. Non credono più in alcuna possibilità di contrastare la china, anche se sanno che è una china mortale. Si accontentano di quel che passa la storia – l’economia, le oligarchie del potere, le loro burocrazie. Finché dura, ne traggono una sorta di privilegiata felicità.
Credo sia questo il nostro compito oggi: ridefinire cosa dovrebbe e potrebbe essere l’arte del nostro tempo, rispetto ai suoi bisogni più veri, e dunque più tragici, anche più disperati. Per il nostro tempo, e di conseguenza anche per il teatro, e di conseguenza anche la per la comunicazione necessaria, che è un elemento essenziale per ridefinire la e le comunità, il Comune e la Comune, il comunismo, la comunione.

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