La globalizzazione nei paesi avanzati sta fallendo: chi la sostiene dovrebbe ammettere che ha fatto vittime. Wolfgang Münchau pubblica sul Financial Times la spiegazione alternativa a quella mainstream: la causa della crisi non sono gli Stati che non hanno fatto le “riforme” necessarie a renderli più competitivi. Nessun dato avvalla questa tesi. La realtà è che le inevitabili crisi legate alla globalizzazione non sono state governate dagli Stati, nell’idea che la globalizzazione e l’integrazione europea avrebbero fatto del bene a tutti. Non siamo nel momento migliore per stringere un accordo come il TTIP o fare ulteriori liberalizzazioni, ammonisce Münchau. La globalizzazione e l’appartenenza all’Eurozona hanno danneggiato non soltanto alcuni gruppi sociali, ma intere nazioni. Se i politici non si muoveranno di conseguenza, sicuramente lo faranno (lo stanno già facendo) gli elettori.
La globalizzazione sta fallendo nei paesi occidentali avanzati, dove questo processo, già osannato con l’idea che avrebbe fatto del bene a tutti, ora affronta un contraccolpo politico.
Perché? Il punto di vista dell’establishment, perlomeno in Europa, è che gli Stati abbiano trascurato di mettere in atto le riforme economiche necessarie per renderci più competitivi a livello globale.
Vorrei proporre una lettura alternativa. Il fallimento della globalizzazione in Occidente in realtà dipende dall’incapacità delle democrazie di governare gli shock economici che inevitabilmente derivano dalla globalizzazione — come la stagnazione dei salari reali medi per due decenni. Un altro shock è stata la crisi finanziaria globale — una conseguenza della globalizzazione — e il suo impatto permanente sulla crescita economica a lungo termine.
In una grande parte dell’Europa, la combinazione di globalizzazione e progresso tecnico ha distrutto la vecchia classe operaia e ora sta mettendo a rischio i posti di lavoro qualificati della classe media inferiore. Così l’insurrezione degli elettori non è né stupefacente né irrazionale. Perché gli elettori francesi dovrebbero accogliere con gioia la riforma del mercato del lavoro, se questa potrebbe avere come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro, senza alcuna speranza di trovarne uno nuovo?
Alcune riforme hanno funzionato, ma chiediamocene il perché. Le acclamate riforme del mercato del lavoro tedesche nel 2003 hanno avuto successo nel breve periodo, perché hanno migliorato la competitività di costo del paese grazie a salari più bassi rispetto a quelli degli altri paesi avanzati. Ma queste stesse riforme hanno prodotto una situazione vicina alla piena occupazione solo perché nessun altro paese ha fatto lo stesso. Se altri avessero seguito l’esempio, non ci sarebbe stato alcun guadagno netto.
Inoltre, le riforme tedesche hanno avuto un enorme lato negativo: hanno abbassato i prezzi relativi in Germania e così hanno fatto impennare le esportazioni nette, il che a sua volta ha generato un enorme deflusso di risparmi, vale a dire la causa profonda degli squilibri che hanno portato alla crisi dell’eurozona. Riforme come queste ben difficilmente possono essere la ricetta giusta per affrontare il problema della globalizzazione da parte delle nazioni avanzate.
Del resto non c’è alcuna prova basata su fatti che i Paesi che hanno fatto le riforme abbiano ottenuto risultati migliori o siano maggiormente in grado di far fronte alle spinte populiste.
Gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno strutture di mercato più liberali rispetto alla maggior parte dell’Europa continentale. Eppure il Regno Unito potrebbe essere sul punto di uscire dalla UE; mentre negli Stati Uniti i Repubblicani potrebbero essere in procinto di eleggere un populista estremista come loro candidato presidenziale. La Finlandia è in testa a tutte le classifiche di competitività, ma la sua economia è un caso disperato di non-ripresa — e ha un forte partito populista.
L’impatto economico delle riforme è solitamente più sottile di quanto ammettono i loro sostenitori. E non c’è nessun collegamento diretto tra riforme e supporto ai partiti politici tradizionali.
La mia diagnosi è che la globalizzazione ha travolto le società occidentali sia dal punto di vista politico sia tecnico. Non c’è nessun modo in cui possiamo – né dobbiamo – sfuggirle. Ma il cambiamento deve essere governato. Questo significa accettare che questo potrebbe non essere il momento più adatto per un altro accordo di scambio commerciale o una liberalizzazione del mercato.
Nel week end scorso in Germania ci sono state grandi proteste contro il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP – Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti), un accordo tra Stati Uniti e Unione Europea. Uno dei suoi aspetti più criticati è che ridurrebbe la sovranità in campo legale dei suoi partecipanti.
Negli ultimi due anni c’è stato un drastico capovolgimento dell’opinione pubblica in Germania sui benefìci del libero commercio globale in generale, e del TTIP in particolare. Nel 2014, quasi il 90 per cento dei tedeschi era favorevole all’abolizione delle barriere commerciali, stando a un sondaggio di YouGov. Oggi l’assenso è precipitato al 56 per cento. Nello stesso periodo le persone che si oppongono esplicitamente al TTIP sono aumentate dal 25 al 33 per cento. Questi numeri non suggeriscono che l’Unione Europea debba diventare protezionista. Ma il rapido mutare delle cifre dovrebbe servire come segnale d’allarme per i politici, invitandoli a muoversi con prudenza.
Non capisco perché Sigmar Gabriel, leader del patito socialdemocratico tedesco e ministro dell’Economia, sia un sostenitore così appassionato del TTIP. Se davvero cerca di interrompere l’erosione di consenso nei confronti del suo partito, dovrebbe essere maggiormente in grado di comprendere il costo politico di questo accordo. Non è molto sorprendente che una larga parte dei sostenitori del partito xenofobo Alternative für Deutschland provenga dalle file degli ex elettori della SPD.
Un no al TTIP perlomeno eliminerebbe uno dei fattori che sono alla base dell’irrompere di sentimenti contro l’Unione Europea o contro la globalizzazione. I marginali vantaggi economici legati all’accordo non sono sufficienti a controbilanciare le conseguenze politiche della sua adozione.
Quello che i sostenitori della liberalizzazione globale dei mercati dovrebbero ammettere è che sia la globalizzazione sia l’integrazione europea hanno fatto vittime. Si pronosticava che entrambi avrebbero creato una situazione in cui nessuno ci avrebbe rimesso, mentre alcuni ci avrebbero guadagnato. Non è andata così. Siamo vicini al punto in cui la globalizzazione e l’appartenenza all’eurozona hanno danneggiato non soltanto alcuni gruppi sociali, ma intere nazioni. Se i politici non si muoveranno di conseguenza, sicuramente lo faranno gli elettori.
dal Financial Tomes
traduzione di Malachia Paperoga per http://vocidallestero.it/
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