domenica 24 aprile 2016

Libro Rosencof "Le lettere mai arrivate" (Novadelphi). "Quello che si eredita non si ruba. Ecco il senso della mia ricerca costante". Intervista a Mauricio Rosenconf

La casa editrice Novadelphi ha pubblicato il bellissimo libro di Rosencof "Le lettere mai arrivate". Rosencof è una figura leggendaria del movimento socialista internazionale, e in particolare dell'Uruguay. E' stato dirigente del Mln-Tupamaros e protagonista della vita politica del suo paese, che sta assistendo da anni a un susseguirsi di governi guidati dalla sinistra. Della sua opera sconfinata, Novadelphi ha pubblicato alcuni titoli come "La leggenda del nonno di tutte le cose" e "Sala 8", che parla della sua decennale permanenza nelle carceri dell'esercito al potere in Uruguay durante gli anni della dittatura. In "Le lettere mai arrivate" Rosencof dimostra ancora una volta come tutti i generi letterari possono essere piegati a ciò che si ha realmente da dire quando la profondità e lo spessore delle proprie riflessioni travalicano confini culturali e mode. Un rcconto memorialistico che è un pretesto per indagare la memoria, il dolore del distacco, la semplicità della cultura popolare e l'orrore delle dittature. Un raro esempio di cultura universale, quale esce fuori anche da questa intervista che Rosencof ha concesso in esclusiva a "Controlacrisi". 
Nel libro "Le lettere mai arrivate" c’è un legame diretto, ma non formulato esplicitamente, tra il nazismo e le dittature sudamericane. Lei come delineerebbe questo legame oggi?Nel nostro continente abbiamo vissuto la battaglia in favore della Repubblica spagnola, le brigate internazionali, la lotta contro il fascismo e il nazismo. In quelle barricate abbiamo conosciuto combattenti provenienti da tutto il mondo. Vi fecero parte 70 uruguaiani, che lottarono insieme a Palmiro Togliatti, Pietro Nenni e i fratelli Rosselli, che comandavano la formazione antifascista “Giustizia e Libertà”, lo stesso di cui faceva parte Primo Levi. Il regime nazista intrattenne legami con il governo di Juan Domingo Perón in Argentina, al punto che alcuni esponenti nazisti entrarono a far parte del primo governo peronista, con una forte impronta nazionalista. I nazisti furono presenti anche in Cile e in Brasile. Tuttavia i colpi di stato avvenuti in America latina furono orchestrati dagli Stati Uniti e dalle destre nazionali servili. Le lotte latinoamericane hanno una loro storia, da Túpac Amaru fino alle lotte per l’Indipendenza. Ed è così anche per le lotte attuali, che presentano una forte, assoluta radice propria. Gli occhi di oggi, lo sguardo di oggi, non può che essere questo. Puntare a un socialismo latinoamericano. Dimensione favolistica, che pure le appartiene, e poesia, concorrono nell’esaltare un’autobiografia della profondità il cui punto di approdo è il rapporto famigliare. È riuscito dentro di sé a focalizzare un nuovo profilo della sua famiglia dopo aver scritto questo libro? Per dirla in breve, ha messo in luce aspetti che non aveva chiari, e quali sono?La ricerca è una costante. Lo è anche indagare sulla nostra vita, la nostra famiglia, la nostra storia. Il mio sguardo continua a essere quello che ho ereditato da mio padre, operaio, sindacalista, combattente e bolscevico. Un vecchio detto recita: “Quello che si eredita, non si ruba”.

Quanto influisce la sua appartenenza ebraica sulla sua identità e la sua letteratura?Non ho mai sentito di appartenere ad altra cultura che non sia quella che abbiamo in comune noi uruguaiani, senza mai rinnegare “da dove veniamo”. Ci sono tre persone che furono liberate dal campo di sterminio di Auschwitz all’arrivo dell’Armata Rossa alle quali mi sento profondamente legato: mia zia Jana, sorella di mio padre e unica sopravvissuta di una grande famiglia, Otto Frank, padre di Anna, e Primo Levi. In una opera andata in scena un anno fa a Montevideo, scritta a quattro mani con un amico, le figure che incarnano i due antagonisti sono Primo Levi e Mussolini. Primo Levi non condanna. Egli è testimone della storia.
Il suo ritorno in Polonia colpisce per l’esito, che niente ha a che vedere con l’ansia di ricerca che percorre tutto il libro. E contemporaneamente dà modo al lettore di toccare con mano il cambiamento d’epoca. Come ha vissuto quel momento?
Andai in Polonia in occasione dell’uscita di un mio libro e perché da lì mi sarei poi recato in Russia per i festeggiamenti del quarantasettesimo anniversario del Partito comunista. Il mio corpo venne come inondato dai fantasmi delle radici, e così mi misi alla ricerca di tracce, nel piccolo villaggio di mio padre, nelle vetrine di Auschwitz, nelle pietre del Ghetto di Varsavia, di cui ricorre l’anniversario della rivolta, iniziata il 19 aprile del 1943. La mia cultura è ebraica, amico mio. Quella dei ribelli della Bibbia e di quelli che mi hanno segnato a partire da quel 7 novembre; la cultura delle brigate internazionali e dei ghetti. La cultura dei mie compagni tupamaros, dei mie compagni della sinistra uruguaiana e di ogni parte del mondo.
Raccontare è un atto fondamentale per la definizione della soggettività, perché attraverso il racconto, meglio che con altri mezzi, è possibile, per dirla con un luogo culturale latinoamericano, “camminare domandando”. Nella società moderna, però le narrazioni sono sempre più affidate al potere, sotto varie forme...La prima cosa da fare è vivere la storia, impegnarsi al fianco della propria gente. Il percorso della militanza dura tutta la vita, e lungo il cammino trovi una marcia, un lancio di pietre, una repressione, una organizzazione, compagni caduti, altri fatti prigionieri. Si esce e si torna alla militanza; il fatto che Pepe Mujica sia diventato presidente e che el Ñato sia ancora oggi ministro della Difesa (con loro abbiamo condiviso tredici anni di isolamento in celle sotterranee) non arresta, semmai rafforza il cammino che abbiamo deciso di percorrere fino all’ultimo dei nostri giorni. Come i primi cristiani, che erano di cultura ebraica, e che lasciarono scritto che “i primi cristiani avevano tutto in comune e ciascuno prendeva secondo le proprie necessità”.

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