Nel libro
"Le lettere mai arrivate" c’è un legame diretto, ma non formulato
esplicitamente, tra il nazismo e le dittature sudamericane. Lei come
delineerebbe questo legame oggi?Nel nostro continente
abbiamo vissuto la battaglia in favore della Repubblica spagnola, le
brigate internazionali, la lotta contro il fascismo e il nazismo. In
quelle barricate abbiamo conosciuto combattenti provenienti da tutto il
mondo. Vi fecero parte 70 uruguaiani, che lottarono insieme a Palmiro
Togliatti, Pietro Nenni e i fratelli Rosselli, che comandavano la
formazione antifascista “Giustizia e Libertà”, lo stesso di cui faceva
parte Primo Levi. Il regime nazista intrattenne legami con il governo di
Juan Domingo Perón in Argentina, al punto che alcuni esponenti nazisti
entrarono a far parte del primo governo peronista, con una forte
impronta nazionalista. I nazisti furono presenti anche in Cile e in
Brasile. Tuttavia i colpi di stato avvenuti in America latina furono
orchestrati dagli Stati Uniti e dalle destre nazionali servili. Le lotte
latinoamericane hanno una loro storia, da Túpac Amaru fino alle lotte
per l’Indipendenza. Ed è così anche per le lotte attuali, che presentano
una forte, assoluta radice propria. Gli occhi di oggi, lo sguardo di
oggi, non può che essere questo. Puntare a un socialismo
latinoamericano.
Dimensione favolistica, che pure le appartiene, e poesia,
concorrono nell’esaltare un’autobiografia della profondità il cui punto
di approdo è il rapporto famigliare. È riuscito dentro di sé a
focalizzare un nuovo profilo della sua famiglia dopo aver scritto questo
libro? Per dirla in breve, ha messo in luce aspetti che non aveva
chiari, e quali sono?La ricerca è una costante. Lo è anche
indagare sulla nostra vita, la nostra famiglia, la nostra storia. Il mio
sguardo continua a essere quello che ho ereditato da mio padre,
operaio, sindacalista, combattente e bolscevico. Un vecchio detto
recita: “Quello che si eredita, non si ruba”.
Quanto influisce la sua appartenenza ebraica sulla sua identità e la sua letteratura?Non ho mai sentito di appartenere ad altra cultura che non sia quella che abbiamo in comune noi uruguaiani, senza mai rinnegare “da dove veniamo”. Ci sono tre persone che furono liberate dal campo di sterminio di Auschwitz all’arrivo dell’Armata Rossa alle quali mi sento profondamente legato: mia zia Jana, sorella di mio padre e unica sopravvissuta di una grande famiglia, Otto Frank, padre di Anna, e Primo Levi. In una opera andata in scena un anno fa a Montevideo, scritta a quattro mani con un amico, le figure che incarnano i due antagonisti sono Primo Levi e Mussolini. Primo Levi non condanna. Egli è testimone della storia.
Il suo ritorno in Polonia colpisce per l’esito, che niente ha a che vedere con l’ansia di ricerca che percorre tutto il libro. E contemporaneamente dà modo al lettore di toccare con mano il cambiamento d’epoca. Come ha vissuto quel momento?
Andai in Polonia in occasione dell’uscita di un mio libro e perché da lì mi sarei poi recato in Russia per i festeggiamenti del quarantasettesimo anniversario del Partito comunista. Il mio corpo venne come inondato dai fantasmi delle radici, e così mi misi alla ricerca di tracce, nel piccolo villaggio di mio padre, nelle vetrine di Auschwitz, nelle pietre del Ghetto di Varsavia, di cui ricorre l’anniversario della rivolta, iniziata il 19 aprile del 1943. La mia cultura è ebraica, amico mio. Quella dei ribelli della Bibbia e di quelli che mi hanno segnato a partire da quel 7 novembre; la cultura delle brigate internazionali e dei ghetti. La cultura dei mie compagni tupamaros, dei mie compagni della sinistra uruguaiana e di ogni parte del mondo.
Raccontare è un atto fondamentale per la definizione della soggettività, perché attraverso il racconto, meglio che con altri mezzi, è possibile, per dirla con un luogo culturale latinoamericano, “camminare domandando”. Nella società moderna, però le narrazioni sono sempre più affidate al potere, sotto varie forme...La prima cosa da fare è vivere la storia, impegnarsi al fianco della propria gente. Il percorso della militanza dura tutta la vita, e lungo il cammino trovi una marcia, un lancio di pietre, una repressione, una organizzazione, compagni caduti, altri fatti prigionieri. Si esce e si torna alla militanza; il fatto che Pepe Mujica sia diventato presidente e che el Ñato sia ancora oggi ministro della Difesa (con loro abbiamo condiviso tredici anni di isolamento in celle sotterranee) non arresta, semmai rafforza il cammino che abbiamo deciso di percorrere fino all’ultimo dei nostri giorni. Come i primi cristiani, che erano di cultura ebraica, e che lasciarono scritto che “i primi cristiani avevano tutto in comune e ciascuno prendeva secondo le proprie necessità”.
Quanto influisce la sua appartenenza ebraica sulla sua identità e la sua letteratura?Non ho mai sentito di appartenere ad altra cultura che non sia quella che abbiamo in comune noi uruguaiani, senza mai rinnegare “da dove veniamo”. Ci sono tre persone che furono liberate dal campo di sterminio di Auschwitz all’arrivo dell’Armata Rossa alle quali mi sento profondamente legato: mia zia Jana, sorella di mio padre e unica sopravvissuta di una grande famiglia, Otto Frank, padre di Anna, e Primo Levi. In una opera andata in scena un anno fa a Montevideo, scritta a quattro mani con un amico, le figure che incarnano i due antagonisti sono Primo Levi e Mussolini. Primo Levi non condanna. Egli è testimone della storia.
Il suo ritorno in Polonia colpisce per l’esito, che niente ha a che vedere con l’ansia di ricerca che percorre tutto il libro. E contemporaneamente dà modo al lettore di toccare con mano il cambiamento d’epoca. Come ha vissuto quel momento?
Andai in Polonia in occasione dell’uscita di un mio libro e perché da lì mi sarei poi recato in Russia per i festeggiamenti del quarantasettesimo anniversario del Partito comunista. Il mio corpo venne come inondato dai fantasmi delle radici, e così mi misi alla ricerca di tracce, nel piccolo villaggio di mio padre, nelle vetrine di Auschwitz, nelle pietre del Ghetto di Varsavia, di cui ricorre l’anniversario della rivolta, iniziata il 19 aprile del 1943. La mia cultura è ebraica, amico mio. Quella dei ribelli della Bibbia e di quelli che mi hanno segnato a partire da quel 7 novembre; la cultura delle brigate internazionali e dei ghetti. La cultura dei mie compagni tupamaros, dei mie compagni della sinistra uruguaiana e di ogni parte del mondo.
Raccontare è un atto fondamentale per la definizione della soggettività, perché attraverso il racconto, meglio che con altri mezzi, è possibile, per dirla con un luogo culturale latinoamericano, “camminare domandando”. Nella società moderna, però le narrazioni sono sempre più affidate al potere, sotto varie forme...La prima cosa da fare è vivere la storia, impegnarsi al fianco della propria gente. Il percorso della militanza dura tutta la vita, e lungo il cammino trovi una marcia, un lancio di pietre, una repressione, una organizzazione, compagni caduti, altri fatti prigionieri. Si esce e si torna alla militanza; il fatto che Pepe Mujica sia diventato presidente e che el Ñato sia ancora oggi ministro della Difesa (con loro abbiamo condiviso tredici anni di isolamento in celle sotterranee) non arresta, semmai rafforza il cammino che abbiamo deciso di percorrere fino all’ultimo dei nostri giorni. Come i primi cristiani, che erano di cultura ebraica, e che lasciarono scritto che “i primi cristiani avevano tutto in comune e ciascuno prendeva secondo le proprie necessità”.
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