venerdì 22 aprile 2016

Chi ha paura delle intercettazioni.

La vulgata, messa in giro dai politici e spesso colpevolmente sostenuta anche dai giornali, vuole che in Italia si possa intercettare chiunque, senza limitazioni, e che tutto quello che si dice al telefono rischi di finire sui giornali. La verità, come chi opera nel settore non può non riconoscere, è tutt’altra: le leggi vigenti garantiscono già un buon equilibrio fra l’obbligo dell’azione penale dei magistrati, il diritto alla privacy degli indagati (e soprattutto dei terzi estranei) e quello all’informazione dei cittadini. Nessuna riforma è dunque necessaria in materia. Soprattutto se si traducesse in ulteriori restrizioni: sarebbero un’intollerabile e incomprensibile compressione della libertà di informazione.



di Caterina Malavenda, da MicroMega 7/2014

Il Consiglio dei ministri del 30 giugno 2014 si è chiuso con la diffusione di una slide, contenente le linee guida sulla giustizia «in dodici punti», in realtà solo i «titoli» delle modifiche ritenute più urgenti – dalla riduzione dei tempi della giustizia civile all’accelerazione del processo penale, con riforma della prescrizione – e con l’impegno di discutere i contenuti con gli addetti ai lavori nei due mesi successivi.

Quei punti hanno, poi, avuto alterne fortune. Alcuni sono stati successivamente sviluppati e approfonditi, anche mediante l’elaborazione di vere e proprie ipotesi normative – «Responsabilità civile dei magistrati sul modello europeo», ad esempio – altri sono stati solo discussi, suscitando non poche polemiche.

Un solo titolo è rimasto tale, almeno finora: la riforma delle intercettazioni, solo nella parte riguardante, a quel che si è letto nella slide, «diritto all’informazione e tutela della privacy», così dovendosi escludere, almeno sulla carta, che essa possa avere a oggetto, come da più parti si è paventato, anche i presupposti per disporre e utilizzare le intercettazioni, nel corso delle indagini preliminari.

Che il tema, così come circoscritto, sia davvero tanto rilevante da meritare di essere inserito nei dodici punti essenziali per una giustizia più celere ed efficace è opinabile, ben altri e più seri essendo i problemi che affliggono l’amministrazione della giustizia in Italia.

Ma che si debba intervenire sulle norme esistenti, ipotizzando che non siano sufficienti a garantire buona informazione, nel rispetto della riservatezza dei singoli, non è affatto scontato, visto che, sia pure con i limiti e le pecche di qualunque norma, quelle che disciplinano la materia sono efficaci, poiché contemperano già le diverse e contrastanti esigenze, in modo più che accettabile.

Nessun giornalista, infatti, mancherà di pubblicare un’intercettazione, se è convinto che sia meritevole di divulgazione, quale che sia la sanzione prevista; nessun intercettato, dal canto suo, accetterà di buon grado di leggere le proprie conversazioni sui giornali, che sia o meno fra gli indagati e anche quando rivesta un ruolo pubblico; chi indaga troverà sempre e giustamente intollerabile la diffusione di conversazioni, anche di straordinario rilievo, se pregiudica la prosecuzione dell’inchiesta.

Una mediazione efficace fra le posizioni contrastanti – la sola soluzione possibile – deve tener conto sia dell’effettiva e obiettiva prevalenza dell’una sull’altra, a seconda del momento – ed è indiscutibile che, in una certa fase delle indagini, il diritto di informare e di essere informati soccomba di fronte al segreto delle indagini e in altri prevalga su quello del singolo – sia dei limiti che i diritti delle parti in causa incontrano, nel rispetto dell’opinione pubblica che vuole sapere e della privacy dei terzi estranei alle indagini, ove non rivestano ruoli pubblici.

Le norme vigenti tengono già conto di tali profili e, ove correttamente applicate, realizzano un buon punto di equilibrio, come sempre essendo la loro violazione il vero problema, una patologia che le accomuna, però, a tutte quelle che, in altri settori, fissano divieti o sanciscono diritti.

Il punto di partenza, per valutare la tenuta del sistema, è il regime di segretezza degli atti di indagine, che sono riservati fino a quando non diventano conoscibili per l’indagato e per il suo difensore, momento che, di norma, coincide con la conclusione delle indagini preliminari.

La divulgazione del contenuto degli atti di indagine, quando l’indagato ne ha preso visione, infatti, non pregiudica più il corretto andamento del procedimento e gli esiti dell’inchiesta, pertanto i soli due diritti che rimangono in gioco sono quello di informare ed essere informati, da un lato, e quello alla riservatezza, che accomuna indagati e terzi estranei alle indagini, sia pure con tutela differente, essendo quella garantita ai secondi assai più ampia.

Se gli atti entrano nella disponibilità di un giornalista, prima di tale momento, dunque, è solo perché uno dei pubblici ufficiali – i soli che ne hanno il legittimo possesso – ha violato il proprio segreto d’ufficio, un reato piuttosto grave, che di norma rimane impunito, potendo egli contare sul dovere del giornalista di tutelare la sua fonte.
Il deposito degli atti può, però, essere anticipato a un momento precedente, in particolare quando viene emessa una misura cautelare e questo genera, come vedremo, i problemi più seri, in tema di diffusione delle intercettazioni.

Di norma, infatti, quando il gip ritiene vi siano gravi indizi di reato, autorizza le intercettazioni telefoniche o ambientali, ove indispensabili per la prosecuzione delle indagini, sempre per un periodo assai limitato e stabilito dal codice.
Subito dopo, parte l’attività esecutiva: gli agenti incaricati si danno il cambio 24 ore su 24 e registrano i colloqui dell’indagato, quali che siano i suoi interlocutori e quale che sia l’argomento della conversazione, senza soluzione di continuità.

Nel contempo, redigono quello che in gergo si chiama il «brogliaccio», un elenco delle singole conversazioni e una sintesi, più o meno ampia, di quelle che appaiono rilevanti per le indagini.
In ogni momento, dunque, il pm e solo lui può prendere cognizione dell’andamento dell’attività di indagine e, sia pur per sintesi, dei colloqui più importanti.

Una volta concluse le operazioni, brogliacci e file audio vengono subito depositati, a disposizione delle parti, a meno che il pm non sia autorizzato dal gip a ritardare tale deposito, fino alla conclusione delle indagini: è, dunque, dal momento in cui tale deposito viene comunicato, che quelle conversazioni possono essere conosciute e, se del caso, divulgate, sia pure non testualmente come vedremo, in quanto note all’indagato.

L’intero materiale, tuttavia, dopo l’esame dei difensori, viene vagliato dal gip – anche in contraddittorio fra le parti che lo chiedano – che dispone l’acquisizione delle solo conversazioni indicate dal difensore dell’indagato e dal pm come rilevanti per il prosieguo del procedimento e stralcia, disponendone la conservazione, quelle inutilizzabili e quelle manifestamente irrilevanti per accusa e difesa.

Ciò non esclude – e questo è il primo problema – che i giornalisti possano ritenere importante per l’opinione pubblica una conversazione, priva di interesse investigativo o difensivo; e possano diffonderne il contenuto, senza commettere alcun reato, ove essa sia essenziale per l’informazione.

Le cautele appena ricordate, però, vengono meno, quando, nel corso delle indagini, il gip firma e notifica un’ordinanza di custodia cautelare o di arresti domiciliari e, persino, quando dispone l’obbligo di firma o il divieto di espatrio, perché, in questi casi, tutti gli atti vengono subito messi a disposizione dell’indagato e non sono più segreti. Ciò riguarda, in particolare, brogliacci e file audio, che vengono depositati senza alcuna selezione preventiva, potendo risultare importanti per la difesa colloqui apparsi irrilevanti al pm, che ha chiesto quella misura.

Nella motivazione dell’ordinanza, poi – e questo è il secondo problema – il gip deve indicare gli elementi di prova, che confermano l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari su cui l’ordinanza si fonda, e spesso riporta, perciò, ampi stralci delle conversazioni intercettate, anche quando esse coinvolgano o riguardino terze persone, estranee alle indagini, purché importanti per la tenuta del provvedimento.

Si tratta di utilizzazione imposta dal fatto che le intercettazioni telefoniche, telematiche o ambientali sono, di norma, l’elemento più efficace per sostenere la necessità della misura, ma è ovvio che debbano essere riportate solo quelle che servono davvero a tale scopo.

In quella sede, infatti, non è possibile, salvo casi eccezionali, apporre omissis, perché il destinatario deve comprendere immediatamente e compiutamente quali siano gli elementi a suo carico.
La trascrizione delle conversazioni intercettate è dell’ordinanza la parte che attira maggiormente l’attenzione degli organi di informazione, in quanto spesso si tratta di parole in libertà che svelano dell’inchiesta, e non solo, molto più di interrogatori o testimonianze.

E se il gip le utilizza, il giornalista ha gioco facile, nel sostenere che esse sono certamente rilevanti e possono, dunque, essere divulgate, senza alcun problema di privacy. È ovvio che se il gip le ha usate per emettere la misura, il rischio per il giornalista di esser perseguito per aver violato la privacy è ridotto al minimo.

Il giornalista, inoltre, a seguito del loro deposito integrale, può prendere visione del contenuto di tutti i file audio, ma non può procedere, come spesso accade, alla loro integrale divulgazione.
Deve, invece, selezionare, fra le varie conversazioni, quelle che servono per dare all’opinione pubblica un’esauriente informazione sullo stato delle indagini, pur non essendo state utilizzate dal gip e dovrebbe pubblicarne solo il riassunto.

Nel trattare le intercettazioni, infatti, il giornalista commette reato, non solo quando divulga quelle segrete, ma anche quando pubblica testualmente quelle che non lo sono più.
Viola, in ogni caso, però, le norme sulla privacy, con conseguenze penali, civili, ma anche disciplinari, quando dà spazio a conversazioni prive di interesse, che coinvolgono soggetti estranei alle indagini su temi privati.

Per concludere, dunque, se pm e gip rispettano i limiti loro posti e, quindi, inseriscono nelle ordinanze solo le conversazioni «a carico» dell’indagato; e i giornalisti, entrati in possesso anche delle altre, purché note all’indagato, evitano di pubblicarle in modo indiscriminato, addirittura inserendo i file audio integrali nei loro siti, nessuno potrà dubitare che tutti gli interessi in gioco siano adeguatamente tutelati dalle leggi esistenti.

Purtroppo, nella realtà – non si tratta, dunque, di una lacuna normativa, ma della cattiva applicazione delle norme vigenti – le cose non vanno sempre, nel senso auspicato da un legislatore lungimirante.
Nelle ordinanze, innanzitutto – e questo ha generato polemiche condivisibili – vengono sovente inserite conversazioni assolutamente ininfluenti sulla sorte del processo che, come gli estensori sanno bene, finiscono lo stesso e subito sui giornali; e i giornalisti, dal canto loro, trovano assai più comodo e più «remunerativo», in termini di audience, mettere a disposizione dei propri utenti le conversazioni in forma integrale, senza alcun vaglio preventivo.

Ciò nell’assoluta indifferenza degli organi competenti a valutare tali condotte i quali, quando se ne sono occupati, hanno finito per garantire, con qualche eccezione, impunità a chi ha sbagliato, nell’una e nell’altra categoria.

È passato alla storia, ad esempio, nella riprovazione generale, un sms che la moglie di un noto indagato aveva inviato al marito, per confermargli il suo amore – suscitando, si presume, poca sorpresa nell’interessato e nell’opinione pubblica – mentre sono passati sotto silenzio violazioni della privacy assai più gravi.

Essendo questa la situazione, risulta evidente come un intervento normativo, che tenti di limitare a monte o a valle la diffusione delle conversazioni intercettate, non possa che peggiorarla, nel contempo imponendo nuovi e ancora più penalizzanti vincoli, sia ai difensori degli indagati, sia ai giornalisti che fanno onestamente il loro lavoro. Anche perché, nel costante aumentare di leggi, carte e decaloghi, chi lavora nell’informazione comincia ad avere difficoltà serie nel comprendere cosa possono o non possono fare.

Se proprio si deve intervenire, dunque, lo si deve fare per migliorare le condizioni in cui i giornalisti si trovano a operare. Perché possano lavorare con serenità, senza essere costretti a mendicare atti e documenti presso avvocati e pubblici ministeri, rischiando di essere «parziali» a loro insaputa, sarebbe necessario che, con una norma più chiara di quelle esistenti, fossero messi in condizioni di poter accedere liberamente, pagando il dovuto, alla copia integrale degli atti, cui hanno accesso i difensori.

Negli Stati Uniti, il Freedom of Information Act garantisce da anni agli operatori dell’informazione di consultare tutti gli atti della pubblica amministrazione, compresi quelli giudiziari e addirittura di aggirare il segreto di Stato.

Al momento, in Italia, la legge sull’accesso agli atti, promulgata nel 1990, che sarebbe un buon surrogato di quella americana, non consente ai giornalisti di accedere agli atti giudiziari, ma solo a quelli delle altre amministrazioni pubbliche, e con grande fatica; e l’articolo 116 del codice di procedura penale, che teoricamente garantisce a chiunque abbia un interesse legittimo di poter avere copia di quelli giudiziari, viene disapplicato impunemente, non solo quando i giornalisti tentano di avvalersene, ma persino quando a chiedere copia degli atti sono gli avvocati, nell’esercizio del diritto di difesa, certo assai più che un legittimo interesse.

A fronte di un intervento radicale in materia, si potrebbe pretendere un maggior rigore nel rispetto dei limiti del diritto di cronaca da parte dei giornalisti che, avendo accesso a tutti gli atti e potendo, quindi, con cognizione di causa, valutarne la singola rilevanza, non potrebbero poi invocare l’errore incolpevole.

Cosa si può fare ancora, per migliorare la situazione e sottrarsi ai sempre possibili e non peregrini sospetti di censura preventiva?
Davvero poco e non certo quel che il governo sembra avere in mente: l’ulteriore limitazione della facoltà di pubblicare le intercettazioni, cercando persino l’avallo più o meno consapevole degli interessati. Matteo Renzi ha fatto sapere che intende convocare i direttori dei giornali e delle testate radiotelevisive, al fine di valutare con loro quali strumenti introdurre, per limitare ancora la libertà dei giornalisti, dovendosi escludere che intenda ampliarla.

Cosa potrebbero aggiungere a un dibattito mai partito i direttori, se non rivendicare il diritto di informare l’opinione pubblica di tutto quanto appaia loro rilevante, salvo rispondere, nelle sedi competenti, ove quella valutazione risulti sbagliata?
In realtà, lasciare ai giornalisti la decisione finale su cosa si possa pubblicare sembra un rischio intollerabile, il che sollecita il ricorso ad altre carte, codici e pandette, che nulla potrebbero aggiungere a quanto già è loro imposto da quelli vigenti.

Assurdo, in tale contesto, sarebbe limitare a monte l’uso delle intercettazioni e non sembra essere questa la volontà politica; ma altrettanto assurdo sarebbe limitare il diritto di difesa, impedendo ai difensori di estrarre copia dei file audio e dei brogliacci delle intercettazioni, per limitarne la diffusione successiva, consentendo loro solo di prendere appunti, il che renderebbe assai complessa l’attività difensiva e non impedirebbe, in ogni caso, la legittima circolazione di quegli appunti.
Inaccettabile sarebbe, poi, incrementare i divieti già esistenti: i giornalisti, infatti, non possono divulgare notizie che rendano identificabili vittime di reati sessuali o che riguardino minori, coinvolti in fatti di cronaca nera o giudiziaria. Non possono trattare dati personali più o meno sensibili, che non siano essenziali, al di fuori dei limiti del codice deontologico, che accompagna la legge sul trattamento dei dati personali; e debbono farlo, attenendosi ai limiti assai severi, tracciati dal garante per la privacy fin dal 2004, quando, rispondendo all’Ordine dei giornalisti; nel ribadire la totale utilizzabilità degli atti giudiziari, nel rispetto del principio di non colpevolezza, sollecitava un particolare rigore, invece, nel valutare l’essenzialità dell’informazione, avuto riguardo alle vittime del reato, ai testimoni, familiari e conoscenti dell’indagato, ove non coinvolti nelle indagini, ma allo stesso collegati solo per ragioni di relazioni sentimentali, di convivenza ovvero «in virtù di mere circostanze di fatto».

I giornalisti, poi, come già accennato, non potrebbero neppure trascrivere integralmente in tutto o in parte atti giudiziari, prima della sentenza di primo grado e, in alcuni casi, prima della sentenza d’appello, divieto penalmente sanzionato, con una pena, però, che consente l’oblazione a una somma ragionevole. L’interesse protetto dalla norma penale, l’articolo 684 del codice penale, infatti, è la terzietà del giudice del dibattimento, che non dovrebbe leggere sui giornali il contenuto di atti delle indagini preliminari, che non può conoscere in sede processuale: un rischio assai remoto di «inquinamento intellettuale», che confligge con quello assai più concreto che il riassunto di una conversazione, in luogo della sua trascrizione integrale, ne travisi il senso, a scapito degli interessati. Ciò giustifica una sanzione non troppo afflittiva e il ricorso sporadico all’esercizio dell’azione penale.

A fronte di tali divieti, il diritto alla libera circolazione delle informazioni, garantito dall’articolo 21 della Costituzione, ma anche dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, appare già seriamente messo in discussione, di tal che un ennesimo giro di vite potrebbe addirittura essere illegittimo, agli occhi dell’Europa, già sul piede di guerra per la pena detentiva ancora prevista per la diffamazione in Italia.
Potrebbe apparire, infatti, un’altra di quelle «interferenze», sanzionate a Strasburgo perché non necessarie e, quindi, ingiustamente limitative della libertà di espressione.

***

Per tirar le fila, è difficile capire quale sia lo scopo che il governo si prefigge di raggiungere, mettendo mano alle norme sulla pubblicazione delle intercettazioni. Probabilmente una migliore tutela delle parti deboli del processo, coloro che, estranei e ignari, rischiano di veder pubblicate le loro conversazioni private, su temi sensibili e i cui diritti, nella convulsa ricerca dello scoop, vengono a volte ignorati e travolti.

È auspicabile che metta in cantiere anche una migliore regolamentazione della professione giornalistica, con il riconoscimento dell’importanza straordinaria che una buona informazione ha in una società democratica e l’introduzione di norme che ne agevolino l’esercizio.

Ed è buona informazione quella che si avvale delle conversazioni, legittimamente intercettate, per analizzare e spiegare inchieste delicate e, spesso, determinanti, senza dimenticare, però, la presunzione di non colpevolezza.
La pubblicazione delle intercettazioni, da alcuni definita «gogna mediatica», infatti, spesso costituisce la sola «sanzione», a volte ingiusta e altre sproporzionata, a volte invece sacrosanta, cui vanno incontro gli indagati, più o meno noti.

Quasi nessuno sa come siano finite indagini di cui per settimane si è parlato, certamente a causa dei tempi della giustizia, ma anche della successiva disattenzione dei mass media, distratti dall’incalzare di nuove e più appetibili inchieste. Tutti, però, ricordano quella frase o quell’espressione infelice, ripresa e rilanciata dai giornali.

Che fine hanno fatto quegli indagati, le cui conversazioni indicibili abbiamo letto, a volte con un certo divertimento, che sono stati arrestati, sospesi, apparentemente allontanati dal civile consesso? Alcuni sono ancora dove li avevano sorpresi gli inquirenti, altri poco più in là, ma sempre nelle stanze del potere, i meno difendibili un po’ defilati, ma comunque nella stanza dei bottoni.

Altri, invece, sono stati assolti, ma nessuno li ha risarciti del pubblico ludibrio al quale sono stati ingiustamente esposti.
Così la condanna penale, se e quando arriva, magari edulcorata e quasi mai espiata, diventa un danno collaterale, assai meno dirompente di quello che deriva dalla diffusione indiscriminata di frasi, che mai gli indagati avrebbero pronunciato, se solo avessero sospettato di essere ascoltati.

E, per converso, l’assoluzione non cancella la sovraesposizione mediatica subita, la vergogna e il senso di impotenza patiti.
Occorre, dunque, maneggiare con cura le intercettazioni, senza inutili autocensure, valutandone bene la portata e rispettando le norme che ci sono, ma potendole pubblicare senza correre alcun rischio, quando sono rilevanti.
Solo così l’informazione – con le leggi vigenti – consegue il suo scopo primario, non solo diffondere le notizie e far circolare le voci critiche, così formando l’opinione pubblica, ma anche svelare il malcostume, segnalare chi non merita la fiducia concessagli, chi trama nell’ombra, protetto da un potere che si fa concavo e convesso, a seconda delle necessità contingenti.

La stampa è il cane da guardia del potere e la tentazione di limargli i denti e, perfino, di mettergli la mordacchia è prepotente, al punto da legittimare il sospetto che la si voglia appagare, utilizzando la condivisibile aspirazione di proteggere chi finisce, suo malgrado, nelle intercettazioni e, poi, sui giornali e in televisione.

Modifiche non ponderate alla disciplina vigente e soprattutto l’introduzione di ulteriori restrizioni, se questa fosse l’intenzione del governo, sarebbero una davvero intollerabile e incomprensibile compressione della libertà di informazione di cui la nostra giustizia non ha davvero bisogno.

(21 aprile 2016)

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