sabato 23 aprile 2016

L'oro dei ricchi. Il petrolio della Basilicata tra foreste e specchi d'acqua


 viggiano

 
global project di Matteo De Checchi
Corridoio naturale tra il Pollino e il Cilento, il Parco nazionale dell'Appennino Lucano Val d'Agri Lagonegrese è, ironia della sorte, l'ultima area naturale protetta istituita nel territorio italiano. Querce e frassini svettano in un territorio coperto di boschi e foreste centenari, bagnato da un imponente fiume, l'Agri, e da un lago artificiale, il Pertusillo, importante riserva d'acqua per una parte di Meridione che soffre sempre di più la mancanza di piogge, anche durante il periodo invernale.

Ma sotto un paesaggio che sembra selvaggio e incontaminato si nasconde la più grande riserva di "oro nero" d'Italia, gioia e dolore per una regione, la Basilicata, che vive la grande contrapposizione tra salvaguardia del lavoro e dell'ambiente in un contesto di povertà e disoccupazione allarmante.
I giacimenti della Val d'Agri, per quanto modesti, hanno mosso una "corsa all'oro", iniziata ben prima dell'Unità d'Italia, con lo sviluppo di alcune miniere di asfalto. Nel corso del Novecento, a seguito di un'importante attività di ricerca ed esplorazione, condotta in particolare dall'AGIP (Azienda Generale Italiana Petroli), furono perforati sempre più pozzi per l'estrazione del petrolio e del gas naturale. Oggi la situazione è talmente sfuggita di mano che è difficile stabilire quanti pozzi siano presenti nella valle e la stessa Regione Basilicata resta molto interlocutoria riguardo le nuove e vecchie perforazioni. Sta di fatto che, sulla base di un conteggio in loco, oggi dovrebbero essere presenti 38 pozzi "attivi", 25 in "produzione" e 12 "produttivi non eroganti" con il presupposto, nemmeno tanto velato, di aumentare drasticamente questi numeri.
A fronte di tutto questo la Regione, che dovrebbe essere la più ricca d'Italia, visto che dal suo territorio viene estratto il 70% del petrolio italiano e il 13% del gas naturale, ha sempre intrapreso, dagli anni Ottanta in poi, una politica di negoziazione "soft" con le compagnie petrolifere stipulando accordi sul versante della compensazione e del monitoraggio ambientale (di fatto ammettendo il grave inquinamento) e sulle anticipazioni delle royalties che, con l'andar degli anni, si sono trasformate in "briciole" elargite a pioggia alla popolazione lucana. L'ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), che oggi in Basilicata ha una capacità estrattiva di circa 85 mila barili di olio al giorno e 3,4 milioni di metri cubi di gas, ha sempre avuto vita facile nel piazzare uomini di fiducia in istituzioni troppo spesso conniventi e corrotte. L'ultimo scandalo in ordine di tempo, balzato sulle cronache nazionali solo perché ha direttamente coinvolto l’ex ministra per le Attività produttive, ha posto agli arresti domiciliari cinque funzionari dell'Eni coinvolti in attività organizzate per il traffico e lo smaltimento illecito dei rifiuti.
Al di là delle dichiarazioni, retoriche e rassicuranti, di Governo, istituzioni e, ovviamente, petrolieri, oggi la Val d'Agri racchiude un mix, già collaudato, composto da mafie, altissimo inquinamento e interessi milionari che, di fatto, ha devastato l'intera valle e le persone che la abitano.
Viggiano, un piccolo comune con poco più di 3000 abitanti, guarda dall'alto il maestoso Centro oli dell'Eni. Abbarbicato a quasi 1000 metri d'altezza, è il classico paesino del Meridione dove la vita scorre lenta tra vecchietti vestiti di nero intenti in chiacchiere pomeridiane e strade battute da un vento primaverile che richiama l'estate. L'aria è frizzante e quasi non mi sembra di essere in una delle zone più inquinate d'Italia; entro in un bar e subito mi rendo conto di essere circondato da lavoratori dell'Eni, tante sono le divise grigie e gialle con stampato il cane a sei zampe.
In lontananza, dalla terrazza del bar, scorgo lunghe lingue di fuoco uscire dai "camini" del Centro oli; di notte, mi raccontano gli abitanti, il paese, nonostante una distanza di qualche chilometro, è illuminato da quel drago metallico fonte di lavoro e di morte. Sì, proprio di morte! Quando riprendo la macchina e mi avvicino all'area industriale, sono costretto a chiudere i finestrini: l'aria è fetida e impregnata da un odore di olio bruciato che non ha niente da invidiare all'area industriale dell'Ilva di Taranto. Il paesaggio cambia velocemente e i tubi metallici prendono via via il posto degli alberi e dei prati verdi.
Resto fuori dall'auto solo per qualche minuto ma i miei vestiti, anche a distanza di due giorni, puzzano di petrolio bruciato.
Intorno a Viggiano, visibili dall'alto ma tendenzialmente nascosti tra la boscaglia, una serie interminabile di pozzi per l'estrazione degli idrocarburi connotati, nella maggior parte dei casi, dalle classiche strisce di fuoco bluastre. Giro per qualche giorno i paesini della valle, Sant'Arcangelo, Paterno, Marsicovetere: il paesaggio non cambia. E nemmeno la puzza nell'aria.
Gli incidenti in valle sono una sorta di bollettino di guerra, in particolare con l'entrata in funzione, nel 2001, dell'oleodotto Viggiano-Taranto, il famoso filo rosso tra due aree pesantemente inquinate. Tanto per riportare un esempio, sconosciuto ai più in quanto nella maggior parte dei casi il mainstream nazionale tace per probabile connivenza, il 4 ottobre 2002 avviene un grave incidente all'impianto di desolforizzazione del centro Oli di Viggiano con conseguente immissione nell'atmosfera di notevolissimi quantitativi di gas inquinanti e mortali. L'Eni lancia un comunicato il 5 ottobre e parla di un "dirottamento saltuario e temporaneo" e la Regione Basilicata revoca qualche giorno dopo l'ordinanza di sospensione dell'attività del Centro Oli. Per giorni, e senza che la produzione si fermasse, i cittadini della valle hanno respirato gas tossici e nocivi.
L'incredibilità delle cose porta poi a scoprire che molti incidenti, documentati dagli abitanti della zona, risultano non denunciati (in primis dall'Eni) o comunque mancanti di relazioni ufficiali riportanti le cause, l'inquinamento e le sostanze rilasciate sul suolo, nell'acqua e nell'aria.
Oltre ai gravissimi incidenti, l'attività estrattiva può comportare una serie incredibile di rischi per la salute della popolazione. Purtroppo, non esistendo un monitoraggio delle condizioni ambientali, le informazioni riguardo la salute restano molto imprecise e carenti.
Secondo il registro tumori i casi della Val d'Agri sono nella media, l'Istituto Superiore di Sanità registra invece un drammatico peggioramento che colpisce in particolar modo i bambini e gli adolescenti con un significativo aumento di quasi tutte le patologie tumorali, leucemia compresa.  Me ne rendo conto nel giro di qualche ora visto che quasi tutte le persone che incontro in valle mi raccontano di aver avuto lutti in famiglia, il tumore le ha portate via velocemente, spesso ad un'età che non raggiungeva l'adolescenza.
Una delle ultime ricerche, condotta nel 2008, non lascia spazio a dubbi in quanto l'incidenza dei tumori tra i lucani è superiore rispetto a quella che si registra nel resto d'Italia, comprese le regioni del Nord zeppe di fabbriche e l'indice di mortalità resta altissimo[1].
Il paradosso è poi legato alla questione occupazionale. L'Eni, a metà degli anni Novanta, stimava di poter generare un posto di lavoro ogni 27 miliardi spesi, un numero risibile se paragonato ai gravi danni ambientali. La realtà, ad oggi, si rivela ben peggiore visto che gli occupati reali non raggiungono le 500 unità in una regione, la Basilicata, che nel 2013 aveva una disoccupazione che superava il 15%.
Negli anni sono state molte le associazioni ambientaliste che hanno cercato di combattere lo strapotere dei petrolieri, ma, purtroppo, la loro incisività è stata minata alla base da un intreccio di interessi difficili da sradicare. Il 17 aprile la Basilicata ha dato una grande lezione all'Italia intera riuscendo, seppur di poco, a superare il quorum nel referendum contro le trivellazioni offshore, unica regione in Italia. Questo risultato, seppur simbolico, considerato da molti una "vittoria di Pirro", è il frutto di un estenuante lavoro dal basso che ha coinvolto movimenti e associazioni e che potrebbe diventare, nel breve periodo, il volano per nuove lotte in un territorio, la Val d'Agri, ripetutamente violentato e devastato per l'arricchimento di pochi.

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