Sono stati sufficienti, nello stesso giorno, un cenno molto vago del
ministro del Tesoro sulla possibilità di rendere flessibile l’età di
pensionamento e il richiamo del presidente dell’Inps che per ricevere la
pensione si possano superare nettamente i 70 anni, per richiamare
l’attenzione sul sistema previdenziale. Il fatto è che la combinazione
tra l’assetto attuale del sistema pensionistico e le difficoltà del
sistema economico di creare posti di lavoro stabili e sufficientemente
retribuiti sta creando una bomba sociale ad orologeria, la cui gravità
viene percepita in misura crescente con l’avvicinarsi del periodo in cui
esploderà se nulla verrà fatto per impedirlo. Finora i giovani
sembravano aver trascurato il problema, ma non tanto per “miopia
giovanile” quanto perché esso veniva molto dopo la più immediata
necessità di trovare un lavoro. Ma diventando progressivamente degli
“ex-giovani”, percepiscono che la protratta difficoltà di trovare
un’occupazione con reddito stabile pregiudica non solo la loro
condizione presente, ma anche quella futura di pensionati che diventa
meno lontana. D’altra parte, le riforme pensionistiche degli ultimi anni
e gli interventi che si prospettano non riguardano solo il futuro degli
attuali giovani, ma anche il presente di chi è più o meno vicino alla
pensione (come coloro che l’hanno vista improvvisamente slittare anche
di 6-7 anni, a volte rimanendo senza reddito alcuno) o di chi è già
pensionato (si pensi al ridotto o eliminato adeguamento della
prestazione all’inflazione). Dunque, direttamente o indirettamente è
coinvolta l’intera popolazione e la progressiva percezione del problema
stimola una crescente sensibilità dell’opinione pubblica.
Tuttavia, un aspetto che continua ad essere poco percepito è che l’assetto del sistema pensionistico rileva non solo rispetto all’efficacia e all’efficienza della sua funzione primaria di trasferire reddito corrente dagli attivi agli anziani. Il funzionamento della previdenza si incrocia con altre importanti questioni. Tra queste c’è lo squilibrio del nostro complessivo bilancio pubblico; tuttavia, il nostro sistema pensionistico da molti anni non ha più problemi di sostenibilità finanziaria; sono state sufficienti le riforme del 1992 (governo Amato) e del 1995 (governo Dini) per riportare in attivo, già nel 1996, il saldo annuale tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali al netto delle ritenute fiscali, il cui valore è arrivato a superare il 2% del Pil (nel 2008) e attualmente è intorno ai 20 miliardi di euro. Ciò nonostante, le riforme che si sono succedute fino ai giorni nostri hanno continuato ad usare il sistema pensionistico pubblico come un bancomat per prelievi a favore del complessivo bilancio pubblico.
Nel frattempo si è accentuato l’invecchiamento demografico e si è ridotta la crescita economica, circostanze che aumentano l’onerosità del trasferimento intergenerazionale; ma le riforme previdenziali ne hanno tenuto così conto che il rapporto tra la spesa pensionistica e il Pil è previsto in calo per i prossimi decenni e il rapporto tra i valori medi delle pensioni e dei salari è previsto in diminuzione dal 45% attuale al 33% nel 2036. Dunque la scelta politico-sociale è stata e continua ad essere quella di fronteggiare le negative tendenze demografiche ed economiche, operando una redistribuzione sfavorevole alla parte di popolazione coinvolta nel sistema pensionistico, cioè i lavoratori.
L’aumento dell’età di pensionamento – una misura in linea di massima ragionevole in presenza di allungamento della vita media attesa – è stato attuato senza tener conto della specifica situazione di elevata disoccupazione cosicché, oltre a generare il fenomeno degli “esodati”, ha fatto aumentare la già elevata disoccupazione giovanile e l’età media degli occupati, con conseguenze negative anche per l’efficienza e la capacità innovativa del nostro sistema produttivo che invece dovrebbe aumentare per migliorare la nostra competitività.
ll sistema pensionistico s’incrocia anche con i ricorrenti progetti di riduzione del cuneo fiscale e con l’implicita visione che la riduzione del costo del lavoro sia la via maestra per essere competitivi. La proposta di ridurre l’aliquota contributiva previdenziale di circa 6 punti, metà a vantaggio delle imprese e metà lasciati nella disponibilità dei lavoratori di metterli in busta paga o nella previdenza integrativa, implica in primo luogo una riduzione netta del salario del 3% a favore delle imprese e un abbattimento di quasi il 20% della prestazione pensionistica pubblica. Se i lavoratori metteranno in busta paga i 3 punti contributivi di loro spettanza li vedranno tassati maggiormente; se li impiegheranno nella previdenza integrativa si sostituirà previdenza pubblica con quella privata la quale implica maggiori costi di gestione e prestazioni legate alla più elevata instabilità dei mercati finanziari. Se invece la decontribuzione verrà posta a carico della fiscalità generale vi sarà un peggioramento del bilancio pubblico che aumenterà ulteriormente se la previdenza privata verrà favorita fiscalmente.
Il vincolo del bilancio pubblico è anche il maggiore ostacolo alla opportuna introduzione di maggiore flessibilità di scelta dell’età di pensionamento. Infatti, anche riducendo le prestazioni in ragione attuariale dell’anticipo del pensionamento, si avrebbe comunque una riduzione immediata delle entrate contributive.
I “rumors” che si susseguono in materia pensionistica rimangono dunque tali; magari ci sarà qualche misura appariscente, come dare 80 euro ad alcuni pensionati, ma non sembra che si voglia disinnescare la bomba sociale che sta maturando.
Tuttavia, un aspetto che continua ad essere poco percepito è che l’assetto del sistema pensionistico rileva non solo rispetto all’efficacia e all’efficienza della sua funzione primaria di trasferire reddito corrente dagli attivi agli anziani. Il funzionamento della previdenza si incrocia con altre importanti questioni. Tra queste c’è lo squilibrio del nostro complessivo bilancio pubblico; tuttavia, il nostro sistema pensionistico da molti anni non ha più problemi di sostenibilità finanziaria; sono state sufficienti le riforme del 1992 (governo Amato) e del 1995 (governo Dini) per riportare in attivo, già nel 1996, il saldo annuale tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali al netto delle ritenute fiscali, il cui valore è arrivato a superare il 2% del Pil (nel 2008) e attualmente è intorno ai 20 miliardi di euro. Ciò nonostante, le riforme che si sono succedute fino ai giorni nostri hanno continuato ad usare il sistema pensionistico pubblico come un bancomat per prelievi a favore del complessivo bilancio pubblico.
Nel frattempo si è accentuato l’invecchiamento demografico e si è ridotta la crescita economica, circostanze che aumentano l’onerosità del trasferimento intergenerazionale; ma le riforme previdenziali ne hanno tenuto così conto che il rapporto tra la spesa pensionistica e il Pil è previsto in calo per i prossimi decenni e il rapporto tra i valori medi delle pensioni e dei salari è previsto in diminuzione dal 45% attuale al 33% nel 2036. Dunque la scelta politico-sociale è stata e continua ad essere quella di fronteggiare le negative tendenze demografiche ed economiche, operando una redistribuzione sfavorevole alla parte di popolazione coinvolta nel sistema pensionistico, cioè i lavoratori.
L’aumento dell’età di pensionamento – una misura in linea di massima ragionevole in presenza di allungamento della vita media attesa – è stato attuato senza tener conto della specifica situazione di elevata disoccupazione cosicché, oltre a generare il fenomeno degli “esodati”, ha fatto aumentare la già elevata disoccupazione giovanile e l’età media degli occupati, con conseguenze negative anche per l’efficienza e la capacità innovativa del nostro sistema produttivo che invece dovrebbe aumentare per migliorare la nostra competitività.
ll sistema pensionistico s’incrocia anche con i ricorrenti progetti di riduzione del cuneo fiscale e con l’implicita visione che la riduzione del costo del lavoro sia la via maestra per essere competitivi. La proposta di ridurre l’aliquota contributiva previdenziale di circa 6 punti, metà a vantaggio delle imprese e metà lasciati nella disponibilità dei lavoratori di metterli in busta paga o nella previdenza integrativa, implica in primo luogo una riduzione netta del salario del 3% a favore delle imprese e un abbattimento di quasi il 20% della prestazione pensionistica pubblica. Se i lavoratori metteranno in busta paga i 3 punti contributivi di loro spettanza li vedranno tassati maggiormente; se li impiegheranno nella previdenza integrativa si sostituirà previdenza pubblica con quella privata la quale implica maggiori costi di gestione e prestazioni legate alla più elevata instabilità dei mercati finanziari. Se invece la decontribuzione verrà posta a carico della fiscalità generale vi sarà un peggioramento del bilancio pubblico che aumenterà ulteriormente se la previdenza privata verrà favorita fiscalmente.
Il vincolo del bilancio pubblico è anche il maggiore ostacolo alla opportuna introduzione di maggiore flessibilità di scelta dell’età di pensionamento. Infatti, anche riducendo le prestazioni in ragione attuariale dell’anticipo del pensionamento, si avrebbe comunque una riduzione immediata delle entrate contributive.
I “rumors” che si susseguono in materia pensionistica rimangono dunque tali; magari ci sarà qualche misura appariscente, come dare 80 euro ad alcuni pensionati, ma non sembra che si voglia disinnescare la bomba sociale che sta maturando.
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