Qualche settimana fa abbiamo posto delle domande a Joseph Halevi su crisi, Europa e “mezzogiorni”. Abbiamo cominciato dal tema più attuale e più discusso, quello della crisi europea. Oramai, dopo l’accettazione dei memoranda da parte del governo Tsipras e dopo la sconfitta dell’ala sinistra di Syriza, si parla poco della Grecia. Si discute di un’ulteriore sforbiciata delle pensioni greche, tra le più basse d’Europa, su suggerimento delle istituzioni europee. Considerato che la strategia della “disobbedienza dei trattati” non è attuabile, abbiamo chiesto a Halevi come possono reagire le sinistre europee (quello che ne rimane) evitando la degenerazione nazionalistica degli apologeti della svalutazione e della monetizzazione dei disavanzi. La sua risposta, ricca ed intensa, sarà pubblicata in due parti. Ne proponiamo la prima.
Risposta di Joseph Halevi
Grecia, Europa ecc.
Premessa: penso che per il 90% l’esito e l’iter stesso della vicenda greca siano stati del tutto indipendenti dalla posizione del governo allora in carica. Tuttavia considero Yanis Varoufakis responsabile della catastrofe negoziale. È stato lui ad impostare l’intera strategia dei negoziati con l’Eurogruppo. Questa consisteva nel trasferire dentro il negoziato le illusorie promesse elettorali di Syriza basate sulla ricontrattazione del debito e la fine dell’austerità e sul mantenimento della Grecia nell’eurosistema. Due promesse incompatibili dati i rapporti di forza al 100% contro la Grecia. Quindi non c’è mai stata disobbedienza dei Trattati da parte della Grecia.
Secondo me sia a livello mondiale che europeo non si può reagire per niente. Sul piano mondiale non si può fare nulla se non si mandano allo sfascio certe istituzioni. Nel lontano passato la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario venivano additati come gli strumenti di assoggettamento dei paesi del Terzo Mondo. Ma da vent’anni c’è l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC-WTO) che è mille volte peggio e riguarda tutti i paesi. L’OMC è un organismo giuridico globale, costruito come strumento legale e ministeriale per le grandi società contro gli Stati. Perché contro gli Stati? Per attaccare le legislazioni statali che garantiscono quei diritti sociali che le grandi società considerano contrarie ai loro interessi. Il processo è continuo e non ne parla nessuno salvo poi scandalizzarsi per i Trattati Transatlantico e Transpacifico che non sarebbero stati possibili senza le normative OMC. La forza dell’OMC sta nel fatto che gli Stati, che l’hanno creata appunto, sono favorevoli all’esistenza di un organismo globale che li attacchi sui punti deboli dal punto di vista dei gruppi monopolistici. Il movimento altermondialista è nato proprio nel quadro della critica all’OMC+FMI. Concettualmente poco consistente, è scomparso quando i meccanismi soggiacenti alla formazione dell’OMC si sono messi veramente a macinare paesi e popolazioni, e quando Lula disse “basta giocare, ora che sono Presidente devo fare la persona rispettabile agli occhi del capitale” chiudendo, tra l’altro, la kermesse annuale di Porto Alegre.
Per ciò che riguarda l’Europa dell’UE penso che sia un caso perso; a basket case in inglese. Proporre cambiamenti con queste istituzioni sia UE che nazionali è come se Mazzini si fosse messo a costruire il movimento della Giovane Europa accettando il Congresso di Vienna e la Santa Alleanza. Oggi i Congressi di Vienna sono i Trattati da Maastricht in poi e la Santa Alleanza è una fragile combinazione tedesco-olandese-austriaca con la Francia a braccetto suo malgrado (perché la partita le sta andando molto male). L’ultimo ed efficacissimo strumento della Santa Alleanza è l’Eurogruppo, che neanche esiste sul piano legale pur avendo il potere di prendere delle decisioni letali per i paesi dell’eurozona, come è successo riguardo la Grecia. Quindi bisogna che il nuovo regime post-napoleonico versione Mitterrand, visto che è stato lui a creare questa macchina infernale e NON la Germania, entri in crisi di disfacimento.
È tuttavia inutile porsi il disfacimento come obiettivo politico in quanto crea l’effetto opposto. Sono anche totalmente scettico riguardo la possibilità di una politica di opposizione di sinistra dato che la sinistra non esiste più in Italia e non si ricostituirà almeno per ancora parecchi anni.
Disavanzi e svalutazione
Vorrei separare la questione della svalutazione dalla monetizzazione dei disavanzi pubblici.
Non vedo come la monetizzazione possa essere considerata “nazionalistica”. Non sottrae nulla agli altri paesi, anzi: ne aumenta le esportazioni dato che evita misure di austerità. In ogni caso, contrariamente a quanto si pensi, la realtà è proprio la monetizzazione del debito. Esso è raramente recuperabile, quindi nei fatti il debito pubblico viene monetizzato. Meno male! Altrimenti l’economia mondiale sarebbe in deflazione permanente. Posso capire perché non si debba strombazzare in giro questo fatto in quanto giustificherebbe la creazione ad libitum di spesa e di debito pubblico con obiettivi tutt’altro che encomiabili. Tuttavia a livello di teoria della politica economica bisogna trarre le debite conseguenze dal fatto che il debito pubblico – e non solo – in media non si recupera. Quello propriamente pubblico alla fine viene monetizzato e quello privato, soprattutto le somme afferenti alla grandi società oligopolistiche viene rolled over costantemente. Nel campo del debito societario una delle principali funzioni delle banche è appunto il rolling over del debito INDIPENDENTEMENTE dalle concrete prospettive di crescita di mercato delle società in questione.
Per ciò che riguarda la spesa ed il debito pubblico, le implicazioni vennero rese esplicite oltre sessant’anni fa dalla teoria della finanza funzionale sviluppata da Abba Lerner, un keynesiano americano tranquillo, molto meno riformatore di Keynes. Egli mostrò logicamente come lo Stato fosse in grado di finanziare senza limiti la sua spesa ed il suo debito. L’unico vincolo è quello della capacità produttiva. Il problema è la qualità della spesa che è una questione sociale, di classe e pertanto politica.
Un elemento importante della teoria di Abba Lerner è che lo Stato si fa forte della sua moneta: la impone come mezzo di pagamento delle tasse. Vi sono Stati che non hanno avuto e/o non hanno questa forza: l’Argentina, il Venezuela ed in misura inferiore anche il Brasile. In Europa decisamente la Grecia della dracma soprattutto nel periodo post bellico fino all’entrata nella CEE nel 1981 (una meticolosa ricerca danese ha mostrato come per il ventennio ’50-’70 la Grecia, le cui esportazioni erano dominate dal tabacco grezzo, vivesse drogata dagli USA e dalla Germania). Negli Stati ove la moneta locale non riceve la convalida istituzionale della classe al potere, essa diventa il mezzo di pagamento delle classi povere. Appena si sale verso gli strati un po’ borghesi, via a tesaurizzare dollari. I prezzi delle attività fisse, tipo gli immobili, vengono fissati in dollari, così come anche gli affitti, le parcelle dei dentisti ecc. Così è successo regolarmente in Argentina e in altri paesi dell’America meridionale. Quindi se la moneta dei poveri si svaluta, gli affitti in pesos rincarano e rincara anche la visita dal dentista. I redditi dell’85% della popolazione sono però in pesos. In queste condizioni l’approccio di Abba Lerner non reggerebbe in termini di politica economica. La finanza funzionale, da lui ideata come alternativa esplicita alla pianificazione socialista, non potrebbe decollare dato che la moneta dei poveri è tale perché la svalutazione è insita nella funzione di questa moneta: facilita l’impoverimento del salario rispetto ai redditi da capitale (legati generalmente alla terra, agli immobili, alla finanza ed alle esportazioni di materie prime e derrate).
Per l’Europa credo che tutti i paesi che vanno dalla Finlandia all’Italia e alla Spagna (forse anche la Spagna) potrebbero applicare, se non avessero i vincoli dei Patti e dei Trattati e se avessero la loro Banca Centrale, i criteri della finanza funzionale di Lerner. Invece dubito che lo possano fare la Grecia, la Slovenia, il Portogallo, la Romania, la Bulgaria, la Croazia, i paesi baltici, Cipro e nemmeno la Slovacchia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria.
Svalutazione ecc.
Passiamo ora alla svalutazione e alla rivalutazione e ci renderemo conto della complessità del problema. Non è possibile stabilire se una svalutazione o rivalutazione sia buona o cattiva nel senso macroeconomico. Dipende dalle circostanze, che possono cambiare rapidamente. In rapporto alle idee di equilibrio della bilancia dei pagamenti i movimenti dei tassi di cambio non hanno mai garantito questi presunti equilibri, né hanno corretto gli squilibri senza crearne dei nuovi. Trovo molto strano che economisti ‘critici’ che – sulla scia della lettura di Sraffa – rigettano le tesi degli equilibri attraverso la flessibilità dei prezzi le facciano poi rientrare dalla finestra quando parlano delle virtù delle svalutazioni nel contesto di squilibri nella bilancia dei pagamenti. Credo invece che esattamente come è assurdo parlare di prezzo di equilibrio e salario di equilibrio sia assurdo parlare di tasso di cambio di equilibrio. Bisogna inoltre considerare che oggi – e lo sarà sempre di più domani – la determinazione del tasso di cambio non è oggettiva. È determinata da ciò che Keynes chiamava “concorso di bellezza”, che è meno razionale del “così è se vi pare”. Una volta, fino agli anni ’80 del secolo scorso, si credeva che il tasso di cambio riflettesse la posizione della bilancia corrente dei pagamenti. Se questa era in deficit le riserve si assottigliavano e bisognava agire sul saggio di interesse, cosa che si ripercuoteva sul tasso di cambio. Da circa trent’anni è palese che non c’è più alcuna relazione tra il tasso di cambio e la situazione della bilancia dei pagamenti. Questo significa che il vincolo estero si è molto allentato. In linea di principio si può perseguire una politica espansiva pubblica senza preoccuparsi oltre misura dello stato della bilancia dei pagamenti. Tutto ciò vale partendo dall’ipotesi di monete nazionali. In buona parte dell’Europa, nell’eurozona, le monete nazionali non ci sono più. Quindi la questione della svalutazione/rivalutazione non si pone. Si porrà forse dopo l’euro-Draghi ma non mi metterei a fantasticare sulle possibili procedure di ritorno alle monete nazionali.
Io vedo la possibile fine dell’euro come un movimento tellurico, quindi ipotizzabile ma non prevedibile. Dato che non mi piace parlare in termini generali e generici sono costretto a presentare una lunga elaborazione storica di quanto ho appena detto.
Svalutazioni e rivalutazioni
Nel passato, cioè tra le due guerre mondiali, la svalutazione è stata utilizzata per scaricare all’estero parte della disoccupazione interna dei paesi che scelsero questa via. Affinché ciò fosse possibile, era necessario che ci fosse un’elevata elasticità della domanda rispetto ai prezzi. In altri termini affinché la svalutazione abbia successo bisogna che, al calo dei prezzi interni rispetto a quelli esteri, la domanda interna si sposti su produzioni nazionali e, contemporaneamente, che la domanda estera si riorienti in parte verso i minori prezzi all’esportazione del paese che ha svalutato. Già negli anni Trenta si accorsero che questo non accadeva così sistematicamente. Il caso più famoso fu quello di Keynes che avendo dichiarato che l’abbandono da parte della Sterlina della parità aurea voluta da Churchill nel 1925 avrebbe contribuito a uscire dalla crisi, dovette ricredersi pubblicamente. I fautori delle svalutazioni devono per forza scommettere nella capacità di aggiustamento dell’economia a seguito della flessibilità dei prezzi monetari internazionali tramite la variazione dei tassi di cambio. Questa fede nella forza della flessibilità dei tassi di cambio la capisco se espressa da Milton Friedman (monetarista di Chicago) di cui, infatti, egli divenne il principale teorico e fautore. Milton Friedman credeva ciecamente nella concorrenza perfetta. Chi invece, giustamente, non ci crede, dovrebbe estendere lo scetticismo anche riguardo i presunti effetti di guarigione delle variazioni dei tassi di cambio.
Ci può anche essere una rivalutazione imperialista e/o volta ad affermare la propria egemonia. La prima, esplicita, fu quella britannica del 1925 che vedeva nel ritorno alla parità aurea del 1914 la condizione per continuare il proprio imperialismo finanziario attirando capitali dal resto del mondo, importando dalle zone extra Impero ed esportando verso l’Impero (De Cecco, Moneta e Impero, Einaudi, 1979). Fu un’operazione fallimentare perché non tenne conto del cambiamento intervenuto con la trasformazione degli USA in creditori netti grazie alla Prima Guerra e l’aumentata capacità di esportazione degli USA sul piano mondiale assieme alle ridotte esportazioni indiane che finanziavano i trasferimenti verso Londra. Il risultato dell’operazione di Churchill fu pertanto quello di aumentare nell’immediato il potere di acquisto internazionale della Gran Bretagna senza un corrispondente aumento dei flussi di capitale verso la Gran Bretagna. La conseguenza fu che dopo un anno la Gran Bretagna cadde in una grave recessione da deficit della bilancia dei pagamenti e da perdita dei mercati. Così il Regno Unito passò, senza soluzione di continuità, dalla recessione del 1926, dovuta alla rivalutazione, alla Grande Depressione del 1930.
Invece rivalutazioni attuate deliberatamente con successo furono quelle tedesche del 1969 e degli anni 1970-76. Vennero promosse dai socialdemocratici e non dalle grandi industrie. Però la SPD capì meglio dei diretti interessati ove si situavano i veri interessi capitalistici. Rivalutando il marco la Germania riduceva l’inflazione importata e spostava risorse verso il settore delle esportazioni dominato dalle grandi imprese tedesche che erano già oligopolistiche a livello europeo e mondiale. Fecero molto bene i conti perché le esportazioni aumentarono con le rivalutazioni espandendo anche il surplus estero malgrado lo shock petrolifero. La scelta fu quella di aumentare le esportazioni anche mettendo in crisi, con la rivalutazione, i settori della Germania più aperti alla concorrenza estera, italiana in particolare. Questi ultimi erano rami industriali ove l’elasticità della domanda rispetto ai prezzi è piuttosto alta. La stragrande maggioranza di tali settori si trova nel comparto dei beni di consumo e in alcuni servizi come il turismo.
Negli stessi anni l’Italia, tramite Bankitalia, condusse una politica di svalutazione differenziata molto intelligente che permise al paese di navigare attraverso lo shock mondiale e la caduta dei tassi di crescita. Il trucco fu di inserire la lira tra il marco ed il dollaro quando quest’ultimo si andava svalutando. La lira si svalutava rispetto al marco aumentando la competitività di quelle merci la cui domanda estera è sensibile al prezzo, mentre si rivalutava rispetto al dollaro riducendo il costo energetico per unità di prodotto. Si noti che la politica di Bankitalia poggiava sul presupposto del circolo vizioso svalutazione-inflazione-svalutazione; circolo vizioso allora alimentato dall’inflazione salariale. Quindi la Banca d’Italia facendo buon viso a cattivo gioco utilizzò la relazione dei prezzi cost determined del modello econometrico di Sylos-Labini circa la dinamica salariale e la dinamica dei prezzi per infilare la lira tra il marco e il dollaro. Tuttavia, sebbene giocata con successo fino al 1978, questa partita ebbe un costo notevole evidenziato in tempo reale solo da Augusto Graziani. Il grande Graziani fece notare che le imprese, contando sulla dinamica svalutazione-inflazione-svalutazione, cessarono di effettuare investimenti tecnologici. Il fatto che l’Italia si sia concentrata in settori ad alta elasticità della domanda rispetto ai prezzi deriva anche dalle scelte di quel periodo.
Germania e Francia placcarono l’Italia, come nel rugby. Nel 1978-79 inventarono lo SME. È istruttivo tra l’altro leggersi il discorso di Giorgio Napolitano alla Camera che motivava il voto di opposizione allo SME da parte del PCI, come anche il discorso di Luigi Spaventa, deputato indipendente eletto nelle liste del PCI, che spiegava le ragioni economiche dell’opposizione. Una buona parte delle loro argomentazioni è applicabile alle fasi costitutive dell’eurosistema due decenni più tardi. Lo SME con il suo regime di cambi flessibili convergenti verso parità fisse (ERM) era uno strumento di disinflazione. Consideriamo il contesto del periodo. Le monete olandese e belga erano di fatto già legate al marco. Il punto debole era il franco francese. Il successo della politica dei cambi italiana faceva scivolar via la Francia dato che, soprattutto allora, la Francia e l’Italia avevano un ampio comparto di beni di consumo in cui la componente maggiormente orientata alle esportazioni era quella italiana. La Germania non poteva permettersi una svalutazione del franco francese. In una situazione di crisi la perdita di reddito reale in Francia avrebbe intaccato significativamente la domanda di beni tedeschi. La Germania avrebbe sicuramente mantenuto il surplus ma su dei valori aggregati più bassi. Senza l’ancoraggio francese la Germania rischiava di vedere la sua egemonia economica in Europa indebolirsi di molto. Quindi dietro la grancassa del rafforzamento dell’Europa eccetera, la vera parola d’ordine era: bloccate l’Italia! La cosa buffa fu che il Cancelliere Schmidt, ideatore dello SME contro le obiezioni della Bundesbank, disse all’Italia “noi non vi vogliamo perché avete troppa inflazione, troppo debito pubblico e troppa instabilità”. Ma senza l’Italia lo SME non sarebbe partito, perché la Francia non era in grado di sostenerlo. Il governo italiano pregò in ginocchio di essere accettato nello SME e – su suggerimento di Bankitalia – chiese dei margini di oscillazione maggiori perché il paese aveva un’inflazione più alta. E così fu.
Senza entrare nei dettagli, il meccanismo ERM permetteva delle svalutazioni entro margini pattuiti alla sua fondazione che per l’Italia erano più ampi. Tuttavia il sistema era concepito in maniera tale che di svalutazione in svalutazione le monete coinvolte avrebbero raggiunto dei cambi fissi. L’obiettivo era di eliminare i differenziali di inflazione. Quindi per l’Italia l’ERM funzionava esattamente all’opposto del meccanismo inflazione-svalutazione. Erano le monete deboli, quelle più inflazionate, a dover rivalutare in termini reali! Le parità fisse vennero raggiunte nel 1985. La forte rivalutazione reale della lira comportò quattro cose assolutamente deleterie. Fu sempre Graziani ad individuarle, in un articolo da imparare a memoria apparso nel 1991 su “Note Economiche”.
(1) La rivalutazione reale della lira (le svalutazioni erano inferiori all’inflazione) comportò un effetto ricchezza per svariate classi di reddito con il conseguente aumento delle importazioni ed apparizione di un deficit estero strutturale.
(2) Nel 1981 venne attuato il divorzio tra la Banca d’Italia ed il Tesoro, passo fondamentale verso l’apertura della bilancia dei pagamenti in conto capitale. La Banca d’Italia, pur continuando a fissare il tasso di interesse di riferimento, non si impegnava più a garantire la chiusura delle vendite di buoni emessi dal Tesoro. Da quella data in poi il Tesoro avrebbe dovuto piazzare i suoi titoli anche sui mercati dei capitali offrendo, in caso di insufficiente domanda, dei saggi di interesse di rischio che si aggiungevano ai già alti saggi di interesse nominali dovuti all’inflazione ed ai saggi Volcker negli USA.
(3) Nello scenario SME degli anni Ottanta, quanto descritto in (2) implica la necessità di attirare capitali, tramite saggi d’interesse appetibili alle società finanziarie, per coprire il deficit della bilancia dei pagamenti corrente (Graziani, sempre Graziani).
(4) Esplosione del debito pubblico soprattutto per via dei saggi di interesse sul debito stesso. Infatti dal 1986 in poi il deficit primario si assottiglia per poi diventare attivo per sempre, mentre galoppa la spesa per gli interessi.
Risultato di lungo periodo: dal 1991 a tutt’oggi il saldo primario è positivo e l’intero deficit pubblico è dovuto agli interessi. Il tasso di crescita dell’economia italiana è stato troppo debole per permettere un recupero fiscale del debito a causa del deficit da interessi. L’Italia, malgrado dalla fine degli anni ’80 abbia attuato una politica di bilancio di un rigore inaudito in Europa, non si liberò più dalla morsa descritta in (4).
Il crollo dello SME nel 1992-93 – comunque probabile dati gli squilibri crescenti nelle bilance dei pagamenti europee – come conseguenza dell’aumento dei tassi da parte della Bundesbank in seguito all’assorbimento della Germania orientale, fece precipitare la lira e rivalutò fortemente il marco. Come al solito l’Italia guadagnò dal lato delle esportazioni ma non in maniera tale da trainare il resto dell’economia che, tra l’altro, nel 1994-95 entrò in recessione. Alcuni anni fa Marcello De Cecco fece notare in una sua relazione che le imprese italiane solo molto parzialmente sfruttarono la svalutazione per espandere le esportazioni. Scelsero in gran parte di aumentare i prezzi. Analogamente la rivalutazione del marco non aiutò la Germania. Le rivalutazioni tedesche degli anni ’70 riducevano l’inflazione importata dalle materie prime ed imponevano delle ristrutturazioni tecnologiche alle imprese tedesche. Nel 1991 la bilancia corrente dei pagamenti esteri tedesca andò in passivo e vi rimase fino al 2001. Il rigore della Bundesbank rallentò la capacità di recupero estero della Germania. Contemporaneamente la perdita di surplus corrente da parte della Germania non aiutò il resto dell’Europa perché tale perdita fu prevalentemente dal lato delle poste finanziarie e non il risultato di importazioni dovute ad una crescita sostenuta. La bilancia commerciale tedesca rimase attiva; tuttavia le ridotte eccedenze non compensavano il deficit nelle altre poste. Tra il 1991 ed il 1992 la Bundesbank uccise l’espansione economica tedesca che, sotto l’impulso keynesiano dell’assorbimento della RDT, era ridiventata fortissima con tassi da anni Cinquanta. Secondo la Bundesbank, sotto la mannaia degli alti tassi di interesse le imprese si sarebbero ristrutturate e le esportazioni tecnologiche avrebbero nuovamente trainato l’accumulazione capitalistica del paese. In effetti esse iniziarono a ristrutturarsi ma l’espansione keynesiana si era arrestata e sia la Germania che la Francia e l’Italia si dirigevano verso la recessione del 1995 proprio per via della brusca frenata imposta dalla Bundesbank. La ripresa post 1995 fu del tutto insufficiente. Così la Germania pur rivalutando e perdendo il surplus corrente complessivo non trainò l’Europa.
In un ulteriore intervento Marcello De Cecco ha raccontato come la Germania venne tirata per i capelli verso i tassi di cambio il cui blocco nell’autunno del 1998 costituì il passaggio all’euro nel 1999. Unico tra gli studiosi europei a menzionare il fatto, De Cecco riferisce dell’intervento effettuato nel 1996 da parte dell’ex Presidente Valéry Giscard d’Estaing su Helmut Kohl per conto di Jacques Chirac, l’allora Presidente in carica. In parole povere Giscard d’Estaing disse a Kohl che o il Cancelliere costringeva la Bundesbank ad abbassare il saggio di interesse e muoversi verso l’euro oppure la Francia avrebbe abbandonato la parità FF-DM. Il teorema in base al quale l’egemonia tedesca non si regge senza l’ancoraggio alla Francia si mostrò valido per la seconda volta in vent’anni e la Bundesbank dovette cedere. La convergenza verso i tassi di cambio euro iniziò immediatamente comportando una svalutazione del marco rispetto alla lira di oltre il 25%.
Oltre al teorema dell’ancoraggio della Germania alla Francia la vicenda comprovò per la seconda volta il ruolo cruciale dell’Italia. Infatti le monete di Francia, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Austria, erano sempre rimaste nelle parità fisse col marco. Le monete che – per entrare nell’euro – si rivalutavano erano la lira, il peso, e l’escudo. Tuttavia la rivalutazione delle monete iberiche non ha significato strategico. I paesi iberici sono strutturalmente deficitari nei conti esteri, così come lo è la Grecia. Solo con profondissime depressioni che comportano un crollo della domanda interna e quindi delle importazioni, possono i paesi iberici e la Grecia ottenere dei surplus con l’estero, prevalentemente tramite il turismo. La moneta muy periglosa era la lira per via della maggiore sensibilità delle esportazioni italiane alla variazione dei tassi di cambio. Ne consegue che dalla fine dei cambi fissi di Bretton Woods nel 1971 la stabilità del rapporto FF/DM venne sempre più a dipendere dalla stabilità del tasso di cambio della lira. In particolare, fintanto che Italia e Francia possedevano settori che si sovrapponevano (camicie francesi contro camicie italiane) i cui prodotti erano sostituibili dal lato della domanda – quindi con un’elevata elasticità della domanda rispetto al prezzo – i tassi di cambio della lira se stabili o in rialzo puntellavano il rapporto FF/DM, altrimenti lo scardinavano. Pertanto anche la convergenza dei tassi di cambio verso i livelli per il passaggio all’euro implicava una manovra diretta contro la concorrenza italiana tutta fondata sull’elasticità della domanda rispetto al prezzo. Se ne accorse benissimo Fazio, allora governatore della Banca d’Italia, che chiese, inutilmente, a Ciampi – incaricato dei negoziati per l’entrata dell’Italia nell’UME – di puntare ad un cambio d’entrata meno sfavorevole, cioè più basso.
La rivalutazione della lira / svalutazione del marco durante la fase d’entrata nell’UME aiutò le esportazioni tedesche ma – dal lato macroeconomico – non molto. Le industrie tedesche stavano macinando esportazioni nette di manufatti da almeno sei anni. Il fatto che la bilancia dei pagamenti corrente della Germania rimanesse passiva era dovuto alla bassa dinamica europea ed al crescente deficit con l’Asia orientale e con la Cina senza che fosse ancora pronto l’Est europeo. Malgrado la svalutazione del marco al momento del congelamento dei tassi di entrata nell’UME (ottobre 1998 mi pare), il miglioramento della bilancia dei pagamenti tedesca si arrestò fino al 2002. In quegli anni l’euro si svalutò nei confronti del dollaro senza però salvare l’eurozona dalla recessione USA sopravvenuta nel 2000-2001 in seguito allo scoppio della bolla dotcom. Pertanto nel 2002 in Germania la crescita del reddito si arrestò completamente. Come si spiega dunque la forte ripresa delle esportazioni tedesche dopo il 2002? Essenzialmente attraverso cinque fatti:
(1) Nel settembre del 2001 dopo gli attentati alle Torri Gemelle, la Federal Reserve passò ad una politica monetaria illimitata (bassi tassi di interesse ed indebitamento a ruota libera delle famiglie) mentre il Presidente Bush jr. spingeva la spesa federale in connessione alle due guerre in atto o in preparazione che diventarono giustificazione per altre spese pubbliche come quelle incredibili del Medicare sui farmaci. L’impatto fu sulla crescita USA e sulle importazioni dal resto del mondo.
(2) Nel 2002 proprio per via della recessione dotcom USA, Germania e Francia annunciarono la sospensione dei vincoli di Maastricht allentando il soffocamento della domanda. Anche l’Italia allentò il rigore mantenendo però il surplus primario nel suo bilancio.
(3) Maturava la ristrutturazione dell’Europa orientale, soprattutto della Repubblica Ceca, della Slovacchia e dell’Ungheria e, in maniera diversa, della Polonia. La ristrutturazione era diretta e finanziata dalla Germania. Essa ha implicato ed implica forti importazioni di macchinari tedeschi al fine di trasformare queste zone in aree funzionali alla struttura avanzata della produzione e dell’export della Germania.
(4) I crescenti surplus esteri della Cina, dovuti in misura notevole alla politica fiscale e monetaria USA, si traducono sistematicamente in accresciuti ordinativi di macchinari e tecnologie delle imprese tedesche e su grandi operazioni di joint venture dopo il successo dell’alleanza con la Siemens per la costruzione della linea ferroviaria a traffico pesante Beijing (Pechino)-Lhasa nel Tibet (un asse di oltre 3000 km che attraversa sia centinaia di chilometri di zone paludose, che regioni coperte dal permafrost). È da notare che la dinamica tedesca verso la Cina assieme allo stallo nipponico porteranno in breve tempo al cambiamento dei rapporti commerciali tra la Germania e l’Asia orientale: si assottiglia fino al suo ribaltamento il deficit tedesco nei confronti del Giappone, mentre nei confronti della Corea del Sud si forma un surplus sistematico. Dopo la crisi del 2008 anche il deficit nei confronti della Cina inizia a calare ed oggi il saldo bilaterale (includendo Hong Kong) è praticamente in pareggio.
(5) Vi fu unità completa tra il governo e le grandi aziende tedesche riguardo il mantenimento di un basso tasso di crescita per l’insieme dell’economia tedesca, che dal 2001 al 2007 incluso fu notevolmente inferiore alle medie dell’eurozona e dell’UE. Come spesso riportato dal “Financial Times”, la confindustria tedesca concepiva questo basso tasso di crescita come una situazione permanente. “Fintanto che abbiamo i beni capitali che producono il flusso delle esportazioni nette – dicevano – la bassa crescita ci va benissimo”. I sindacati in Germania da decenni ormai hanno sposato la tesi delle grandi aziende circa il ruolo delle esportazioni nette e quindi sono passivi.
Pertanto tra il 2002 ed il 2003 comincia una grande ripresa globale delle esportazioni nette tedesche del tutto indifferenti alla svalutazione del dollaro rispetto all’euro iniziata dopo il 2003. Certamente l’esistenza della moneta unica aiuta la Germania, ma non perché renda le merci tedesche più competitive dal lato dei prezzi. Quello della competitività tramite i prezzi e dei tassi di cambio è un problema per i paesi che hanno un export fondato su un’elevata elasticità della domanda rispetto al prezzo. La moneta unica permette al capitale oligopolistico tedesco di contare su margini di profitto (mark-up) stabili. Più precisamente essa aumenta il grado di controllo da parte dell’impresa oligopolistica tedesca del proprio margine di profitto nell’ambito dell’eurozona e quindi anche della Danimarca, della Norvegia e della Svizzera, le cui monete sono legate all’euro. Notare che la Svizzera non è di poco conto in quanto – con appena 8 milioni di persone – vale, per l’ammontare delle sue importazioni dalla Germania, oltre la metà della Francia, che ne ha 66 milioni ed è il primo mercato nazionale per l’export tedesco.
In queste condizioni dal 1999 si sono scontrate in Europa tre realtà principali: quella tedesca e della sua zona, quella francese e quella italiana. La Francia, con un tasso pluridecennale del 30% di disoccupazione e sottoccupazione, è in totale déconfiture, essendo soggetta ad un processo di deindustrializzazione e di perdita nel commercio estero. Le sue classi dirigenti si rivelano incapaci di elaborare delle strategie di accumulazione che non siano puramente finanziarie oppure concentrate nel complesso aeronautico-militar-nucleare-imperialista. Una parte del discorso sulla Francia vale anche per l’Italia che perde i nuclei centrali dell’accumulazione di capitale sia per il drastico ridimensionamento e partenza della sua maggiore azienda automobilistica che per la cessione ad altri centri decisionali di aziende come la Pirelli. Negli anni dell’euro 1999-2007 – ora siamo negli anni dell’euro-Draghi che non possono durare più di tanto, ma forse sì invece – l’euro ha bloccato il neomercantilismo povero dell’Italia e la stagnazione tedesca ha ostacolato la crescita delle esportazioni italiane legate alla domanda aggregata europea. Pertanto a partire dal 2005 l’Italia perde il surplus di parte corrente e, fino al 2010, va accumulando dei saldi negativi. Contrariamente alla Francia, che ha perso su tutti i fronti esteri, l’Italia ha mantenuto due diverse dinamiche nelle esportazioni. La prima riguarda le esportazioni verso i paesi a consumo ozioso (Emirati, Arabia Saudita), verso i paesi con classi di nuovi ricchi come in Russia, e soprattutto in Cina. La seconda dinamica riguarda le aziende che operano direttamente – come parte della catena dell’indotto specializzato – o indirettamente nell’area del capitale tedesco. Questa componente è forse la più importante dato che si colloca nella meccanica avanzata e non è molto soggetta all’elasticità della domanda rispetto al prezzo. Il ritorno ad un sostanziale surplus estero dell’Italia negli ultimi anni si spiega con le suddette caratteristiche e non è solo ascrivibile al rallentamento delle importazioni in seguito a cinque anni di caduta del PIL (2008-2009, 2012-2014). A differenza della Germania però per l’Italia l’export non può costituire un volano macroeconomico, al massimo solo per aree di pochissime regioni.
Da questa scorribanda storica deduco che non si può contare sulle variazioni dei tassi di cambio come meccanismi di aggiustamento efficaci esattamente come non si può contare sulla flessibilità dei prezzi nel campo della teoria pura. Del resto questo mio scetticismo è confermato dalla letteratura neoclassica degli anni ’80-’90 del secolo scorso, piena di modelli volti ad individuare condizioni di overshooting (andare oltre il bersaglio) o di undershooting (l’opposto) di un fantomatico tasso di cambio di equilibrio. Sono tutti lavori inconcludenti anche se alcuni – come quelli di Richard Cooper (da cui Salvatore Biasco era completamente ipnotizzato: fu lui a dirmi di leggerlo) – erano interessanti.
La nocività di una moneta unica senza un sistema fiscale federale non risiede nel fatto che viene eliminata la flessibilità derivante del tasso di cambio. La moneta unica come concepita nell’eurosistema blocca il funzionamento della spesa pubblica nonché la messa in opera di qualsiasi iniziativa di finanza funzionale nell’accezione di Abba Lerner. Detto questo, dopo il 2008 è avvenuta nei circoli keynesian-sinistri eurozonici la fusione tra la fede nel miracolo equilibrante della flessibilità dei tassi di cambio e la religiosa convinzione del ruolo risolutivo della politica fiscale nazionale per uscire dalla crisi. Personalmente sono convinto – fin dai miei studi universitari alla fine degli anni Sessanta primi Settanta alla Sapienza – che i concetti keynesiani, piuttosto quelli kaleckiani, mentre sono pienamente validi sul piano analitico, lo sono poco e sempre meno sul piano delle politiche economiche. Devo questo scetticismo verso le politiche economiche keynesiane alla lettura in tempo quasi reale del grande lavoro di Baran e Sweezy Il capitale monopolistico (1968 in italiano) ove viene smontato il keynesismo USA. Prima della moda keynesiana lo capì benissimo Michal Kalecki, e non troverete mai nei suoi scritti delle politiche keynesiane. Lo capì anche Keynes, il quale nel 1940 sulla rivista statunitense “The New Republic” affermò che le democrazie liberali non avrebbero mai accettato un livello di spesa pubblica tale da comprovare la validità delle sue teorie. Infatti lo sviluppo della spesa pubblica nel mondo capitalistico dopo il 1945 (dopo il 1950 ad essere precisi, cioè dopo lo scoppio della guerra di Corea), avvenne nel contesto del keynesismo militare.
Gli Stati Uniti, attraverso ciò che Paul Sweezy chiamò i costi dell’Impero, costruirono – con la guerra del Vietnam – un forte capitalismo industriale in Asia orientale imperniato sul Giappone assieme ai due importanti satelliti costituiti dalla Corea meridionale e da Taiwan, cui si aggiunse Singapore come piattaforma tecnologica. Per coglierne la portata basta pensare all’I-phone. Sarebbe esistito su questa scala senza Taiwan dato che è una società taiwanese a produrlo? NO! A sua volta la Foxtronn non potrebbe però generare I-phone e affini a Taiwan su quella scala. Per farlo, cioè per costruire fabbriche che impiegano oltre un milione di persone, hanno avuto bisogno della Cina, non dell’Indonesia o dell’India che non sarebbero state in grado di costruire e far funzionare impianti di pari dimensioni. Senza le capacità industriali della Cina niente I-phone su scala mondiale. Riassumiamo: senza la guerra di Corea e la guerra del Vietnam niente Taiwan, la cui dimensione ipertecnologica è dovuta alle relazioni strutturali col Giappone da cui l’isola importa il grosso del suo macchinario avanzato. Senza carta cinese da parte di Nixon grazie al conflitto sino-sovietico (quindi in piena spesa militar industriale USA), niente quattro modernizzazioni di Deng Xiaoping. Senza l’era Deng Xiaoping nessuna possibilità per Foxtronn (e molte aziende simili) di produrre i suoi aggeggi I-phone in Cina su scala inimmaginabile altrove. Analogamente, in nessun’altra parte del mondo potrebbe Airbus costruire il numero di velivoli che sta per fabbricare negli impianti delle joint venture statali firmate con Pechino. Anche l’Europa venne avvolta dalla spesa militar industrial americana ed in maniera onnicomprensiva, tramite il ruolo economico della NATO. Charles Kindleberger, il numero due del Piano Marshall dopo Robert Triffin, scrisse nel suo libro del 1970 Power and Money: “Il Piano Marshall non finì mai, si trasformò nel Piano NATO”.
Questo è stato il keynesismo militare. Non è riproducibile. Le guerre a senso unico, come quelle condotte contro l’Iraq non possono rilanciarlo. Per avere una spesa militare macroeconomicamente efficace è necessario che vi siano delle guerre vere. Durante la guerra nel Vietnam le forze militari USA, assieme a quelle del Vietnam del Sud, persero oltre dodicimila velivoli tutti made in USA da cima a fondo, una media di oltre mille all’anno; centinaia di migliaia di automezzi; migliaia di armamenti pesanti e milioni di unità di armi leggere. Inoltre hanno utilizzato e consumato quantità infinite di materiali medici e di infermeria; tonnellate di defolianti e di napalm con gran beneficio delle industrie sanitarie e chimiche. La produzione ed il rimpiazzo di tutta questa robaccia ha fatto marciare per oltre un decennio interi comparti dell’industria USA con i salari che aumentavano più della produttività. Un periodo eccezionale nella storia economica statunitense. Il keynesismo militare però è finito. Non sono nemmeno convinto che possa risorgere su scala mondiale. In teoria ciò sarebbe possibile con la creazione, come sta accadendo, di una lunga serie di basi USA lungo i confini della Russia e della Cina. Tuttavia, se si dovesse sviluppare una corsa agli armamenti tra USA-Cina-Russia, dal lato statunitense sorgerebbero notevoli problemi. Il maggiore consisterebbe nel fatto che le società degli armamenti USA hanno massicciamente subappaltato le loro produzioni in Cina stessa.
Un capitalismo keynesiano senza la variante militare è impossibile se non come operazione contingente da venir cancellata finita l’emergenza. Le ragioni sono quelle avanzate da Kalecki nel 1943 nonché quelle sviluppate da Baran e Sweezy nel Capitale monopolistico. Senza lo sbocco militare gli effetti produttivi della spesa keynesiana dovrebbero venir assorbiti da maggiori consumi sociali e/o maggiori salari e stipendi. Globalmente, senza la spesa militare o verso Marte, dal punto di vista capitalistico non si innesca alcun interesse nei confronti del keynesismo. E fu proprio questo elemento, la formazione di uno sbocco esogeno al circuito della produzione sociale, a convincere tra il 1946 e il 1951 la classe politica e la dirigenza economica USA ad accettare la crescita della spesa pubblica. Eisenhower in maniera molto furba usò il capitolo delle spese militari per far approvare dal Congresso progetti che probabilmente sarebbero stati respinti. Classico fu il caso dello Highway Act del 1954 con cui venne finanziata la costruzione della rete autostradale USA copiata dalle autobahn tedesche. A mio avviso il keynesismo come forma di regolamentazione compatibile con gli interessi macroeconomici del capitale (più spesa pubblica = più occupazione = più domanda = più profitti) non è proponibile dato che una della parti, quella cruciale rappresentata dal capitale, non ne è interessata, né è interessata ad arrivare a dei compromessi in proposito. Gli strumenti di tipo keynesiano possono essere utilizzati invece per politiche di transizione di ordine socialista. Ma questo è un altro paio di maniche. Anche i keynesiani più di sinistra non ammetteranno mai la necessità di una strategia socialista pianificata. Essi sono interamente dentro i confini dell’esistenza borghese.
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