venerdì 1 aprile 2016

Le radici della zona grigia.

RENZINel marzo del 2015, si dimette Lupi, ministro delle Infrastrutture e trasporti. Oggi si dimette Guidi, ministro delle Attività produttive. Sulle scelte di entrambi l'ombra del conflitto di interesse - per Lupi uno scambio di favori fra il suo ruolo e un trattamento di favore per suo figlio; per la Guidi di uno scambio fra la sua influenza, e affari del suo compagno. Per entrambi le accuse vanno ancora provate, e ad entrambi va riconosciuto la sensibilità nei confronti delle loro funzioni istituzionali.

Editorial Director, L'Huffington Post

Ma nemmeno queste pronte dimissioni possono stendere un velo sul fatto che il sospetto di conflitto di interessi torna continuamente sulla scena politica, e sembra confermarsi, dopo il caso Guidi, il più grande difetto del governo Renzi, il suo tallone di Achille. È la nuvola che grava da tempo sulla testa del più influente ministro, Maria Elena Boschi, e su più d'uno degli uomini che lavorano insieme al premier, dal sottosegretario Lotti, a Marco Carrai, fra i più importanti.
Il governo si è sempre difeso con vigore da questi sospetti, invocando, giustamente, la mancanza di prove. Va qui intanto precisato che il conflitto di interessi è una condizione oggettiva di frizione fra la propria influenza e la propria imparzialità di ruolo. Se ne può dunque abusare o meno (e la differenza è un reato) ma la condizione di conflitto resta perché è obiettiva. L'esistenza di questa zona grigia è così ampia nel governo da non poter più essere spiegata come frutto di polemiche dell'opposizione, o, viceversa, di ingenuità ed errori. Va forse capita come una conseguenza della concezione stessa del potere di Renzi.
Una concezione precisa che è stata ed è il motore del suo successo e della sua volontà politica: un fortissimo cocktail di voglia di controllo e furore "rivoluzionario". L'attuale premier, come abbiamo imparato nei suoi quasi tre anni a Palazzo Chigi, è arrivato ai vertici della politica nazionale sull'onda di una piattaforma di radicale rinnovamento del paese, di una polemica drastica e sprezzante nei confronti di tutto quello che c'era prima di lui, in un cerchio concentrico di accuse di incapcità che ha prima eliminato I vecchi dirigenti del suo partito, per poi allargarsi alle istituzioni di intermediazione sociale come il sindacato e la Confindustria, e su su, fino agli alti burocrati, alle strutture tecniche dei ministeri, e ancora più su fino alla diplomazia, la magistratura, la Banca d'Italia e persino l'intelligence.

Una piattaforma di tale critica era fondata, coglieva bisogni reali del paese di cambiamento e vitalità ed ha infatti decretato il suo successo. Ma nella sua applicazione, si sta trasformando nella decapitazione di ogni gruppo dirigente, di ogni settore rilevante del paese, da sostituire con uomini di diretta fiducia del premier.
Matteo Renzi in questi anni, nonostante tutti gli sforzi di allargare gli orizzonti del suo premierato, ha dedicato uno spropositato tempo alla costruzione e consolidamento del suo controllo del paese - a parte le riforme istituzionali e il kamasutra parlamentare, le nomine hanno assorbito molto del suo lavoro di trasformazione. Attenzione giustissima - un premier deve consolidare il suo potere - ma le nomine sono state fatte tutte con l'occhio fisso sulla lealtà diretta al premier stesso, cosa che è un po' più "ristretta" del consolidamento di un governo. E con un metodo che Robespierre avrebbe amato: l'azzeramento o l'aggiramento di molte regole istituzionali attraverso cui di solito queste nomine vengono filtrate. Si potrebbero fare molti esempi - I più chiari sono probabilmente la proposta di Carrai all'intelligence, o la nomina di ambasciatori fuori dai circuiti diplomatici. Ma l'esempio più rilevante della voglia di cambiare e controllare è la ri-creazione a Palazzo Chigi di tutte le strutture ministeriali, la formazione di una cabina di regia che assorbe molte delle funzioni dei ministeri, la cui autonomia non è un ghiribizzo ma una parte della dinamica dell'equilibrio dei poteri dello stato. Una sorta di Kitchen Cabinet all'Americana, applicazione di una presidenzialismo pieno, ma appunto senza il sistema di compensazione di tale presidenzialismo puro.
Fa bene, fa male al paese questo cambiamento nella gestione del potere? È troppo personalistico, è al limite del rispetto istituzionale, valica il limite dei poteri esistenti? O non è invece il necessario strappo per ridare al paese operatività e vitalità? La discussione è aperta.
Ma comunque lo si vuole valutare, appare abbastanza chiaro che è proprio questo nuovo sistema ad alimentare il sospetto di conflitto di interesse. Nel dare alla gestione del governo una tale impronta personale, nel distruggere o aggirare la catena istituzionale a favore di un protagonismo del premier e delle sue scelte, nel dare la priorità a uomini e donne fidati invece che scelti nel percorso delle competenze, infine nel manovrare il potere come una partita a scacchi ai fini di consolidare il poter del premier prima di quello dello Stato, Matteo finisce per costruire un intreccio troppo ristretto di interessi, persone e influenza. Finisce con il costruire una catena di comando troppo corta, un passaggio di verifiche troppo labile. Un universo troppo ristretto che alla fine produce il suo opposto: invece di favorire il premier lo rende perennemente esposto. Nel senso che non solo il potere ma anche tutti gli interessi convergono su questo uomo solo al comando.
È vero, le istituzioni italiane sono vecchie , letargiche e spesso impotenti. Ma la loro funzione di filtro, equilibrio, e diffusione della decisionalità non può essere archiviata insieme al cambiamento: è una garanzia che, come forse Renzi imparerà, serve a protezione anche di chi governa, non solo dei cittadini.

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