Tornano con prepotenza le immagini della tortura anche nel contesto della quotidianità.
Tornano nelle affermazioni di chi, in
nome di un realismo politico e investigativo, non esclude il ricorso a
pratiche di interrogatorio muscolare nella lotta al terrorismo
internazionale, ora che questo tocca pesantemente le nostre strade, le
nostre abitudini, i nostri mezzi di trasporto e non più soltanto luoghi e
persone geograficamente distanti.
Tornano a Strasburgo, nei casi che
giungono finalmente a una definizione davanti alla Corte dei diritti
umani e che ci riportano a cosa avvenne a Genova, in termini peculiari
per estensione, brutalità e scelta politica, a cosa avvenne ad Asti
nelle celle di isolamento, a cosa avvenne nelle strade milanesi quando
una persona fu rapita e portata, con l’acquiescenza, la complicità o
quantomeno l’indifferenza dei nostri servizi, a essere interrogata nei
luoghi di assenza del diritto e di brutale presenza della coercizione,
in Egitto.
Ma, soprattutto tornano con
quell’immagine non vista ma così drammaticamente intuibile di Giulio
Regeni, consegnataci dalle parole di sua madre. Parole semplici, chiare
che fanno percepire come l’immagine di una normalità positiva, ridente,
di giovane aperto sia alla ricerca scientifica che all’impegno sociale e
soprattutto aperto alla vita, sia stata tramutata nella maschera
irriconoscibile prodotta dalla violenza di stato su un corpo inerme.
La tortura ha sempre una doppia
«funzione»: informativa e politica. Ha una funzione informativa nel
carpire le notizie utili all’ipotesi di chi interroga e l’adesione al
proprio impianto d’indagine; nell’ottenere nomi, connessioni, elementi
per altre inchieste: è la tortura che Beccaria respinse come tentativo
di costruzione di una verità dei muscoli, basata sulla resistenza al
supplizio. Ha una funzione politica nell’inviare attraverso la sua
attuazione, la sua esibizione e l’impunità di chi la attua un messaggio
intimidatorio volto ad affermare un potere assoluto e a reprimere sul
nascere ogni tentativo di opposizione.
Le indagini che, dopo le prime
grottesche e offensive ricostruzioni di comodo, le autorità egiziane
dovranno concretizzare e che le autorità italiane dovranno pretendere,
ci diranno chi e come ha attuato lo scempio di quella vita; quali
compiacenze ci siano state, quali rapporti con il potere. Tuttavia ci
sono almeno due aspetti che già da ora vanno sottolineati, anche senza
attendere l’esito di una vero e completo accertamento.
Il primo riguarda il contesto di un
apparato che ha assunto il potere attraverso un colpo di stato e che,
come tale, è un interlocutore poco raccomandabile. Dovrebbe esserlo per i
governi che con esso sembrano placidamente intrattenersi in virtù del
suo ruolo di gendarme in una zona complessa. Ma anche per gli
imprenditori che sembrano vederne la connotazione di garanzia di una
stabilità, sia pure oscura e irrispettosa dei diritti umani, però utile
ai propri investimenti. E infine per gli intellettuali e i giornalisti
che, in ampie interviste, diffondono l’immagine di Abd al-Fattah al-Sisi
quale «padre di famiglia» che farà di tutto per consegnare la verità
sul massacro del giovane Giulio Regeni. Eppure tutti questi tre
interlocutori, ai diversi livelli di responsabilità, non sembrano
cogliere la gravità dell’implicita legittimazione che rischiano di dare
all’attuale regime egiziano, alle sue azioni, all’ambiguità del ministro
degli interni e alle fantasiose ricostruzioni dei suoi apparati.
Occorre mettere un punto fermo a tutto ciò. I genitori lo hanno fatto martedì con la loro conferenza stampa.
Ora spetta a tutti noi e al nostro
governo. Perché come più volte si è doverosamente affermato in
dichiarazioni di principio, il divieto della tortura non è
«bilanciabile» con alcun altro principio, valore o criterio. Non è
bilanciabile con la necessità della lotta al terrorismo; non è
bilanciabile con la volontà di evitare pericoli imminenti – e questo lo
abbiamo affermato tante volte in anni recenti per contrastare il
tentennamento di alcuni interlocutori nel quadro internazionale dei
primi anni di questo secolo.
Tantomeno è bilanciabile con l’interesse
economico o con l’interesse politico-militare dell’avere una guardia in
un territorio che in anni recenti ha mostrato potenzialità e
instabilità. Perché bilanciare vuol dire essere complici. Anche per
dimostrare, quindi, la fermezza nel rifiutare qualunque sensazione di
arrendevolezza in tal senso, credo sia bene che il nostro ambasciatore
venga richiamato per consultazione qui in Italia.
* L’autore, già presidente del
Comitato contro la tortura del Consiglio d’Europa (Cpt), oggi è il
Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della
libertà
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