Dal 2008 a oggi in Europa si sono mangiati più di 2.000 miliardi di soldi pubblici. Eppure restano insofferenti alle regole. Perché sanno di avere il coltello dalla parte del manico, grazie all'enorme quantità di soldi che muovono.
l'espresso.it di Paola Pilati
"Il sistema bancario deve diventare sostenibile e non fare
affidamento sull'intervento straordinario del contribuente». Parole
di Obama dopo aver sborsato miliardi di dollari per il "bail out"
delle banche Usa? O del governatore britannico dopo aver sventato
il collasso di Royal Bank of Scotland? O di tutti quei governi -
belga, irlandese, spagnolo - che hanno messo toppe costose sulla
sventatezza delle proprie banche salvandole dal crack, tutto a
valere sulle casse pubbliche? Nient'affatto: è il mantra che viene
ripetuto nelle 150 pagine del Rapporto dei superesperti per la
riforma del sistema bancario europeo, guidati dal governatore della
Banca centrale finlandese Erkki Liikanen. Data: ottobre scorso.
Solo pochi mesi fa, insomma, il tasso di fiducia che ai massimi
livelli di competenza si nutriva sulla stabilità, trasparenza,
affidabilità del sistema continentale del credito era assai basso,
tanto da proporre la separazione tra attività bancaria tradizionale
e quella di pura finanza. E alla reputazione delle banche non ha
fatto certo bene la scoperta che in Gran Bretagna banche di prima
grandezza manipolavano il Libor, il tasso che detta le condizioni
del costo dei mutui per le famiglie in tutta Europa.
Come dare torto, allora, a quanti oggi di fronte al caso Montepaschi si chiedono: sicuri che ci fermiamo lì? Che le magagne senesi, dalle anomalie della governance del Monte, ai premi a manager che bruciavano la cassa, allo strapotere della Fondazione e della politica, ai derivati per fare il maquillage del bilancio, siano davvero solo magagne circoscritte al caso Siena? «Facciamo fallire le banche come tutti gli altri», ha detto giorni fa da Davos il premier islandese Grimsson, dando voce alla rabbia per quel massiccio piano di sostegno finanziario che i Parlamenti europei hanno messo in campo dal 2008 a ottobre 2011, ben 4.500 miliardi di euro, pari al 37 per cento del Pil continentale.
Le banche, bontà loro, ne hanno consumati solo 1.600, a cui si sono aggiunti i 500 di liquidità a basso costo messa a disposizione dalla Bce guidata da Mario Draghi. Ma anche quando le banche non hanno ricevuto sussidi diretti, godono di un sussidio indiretto di fatto, che è quello insito nello slogan "too big to fail", troppo grande per fallire, vale a dire che la rete di sicurezza dello Stato non si vede, ma c'è.
D'altra parte come possono i governi dire no a una lobby bancaria che controlla, in Europa, attivi pari a tre volte e mezzo il Pil dell'area (negli Usa arrivano all'80 per cento)? Gli attivi di Mps, per esempio, rappresentano il 15 per cento del prodotto interno lordo del nostro paese. Impossibile mandarla in malora, e dunque ben vengano i Monti bond (dopo quelli di Tremonti), 3,9 miliardi di prestito, anche se già si sa che saranno assai difficili da ripagare e che rischiano di essere convertiti in azioni, portando lo Stato a possedere l'82 per cento del Monte (calcolo ai valori di oggi).
Almeno fossero riconoscenti, almeno abbassassero le penne, ammettendo di averla fatta grossa. No. Di fronte ai moniti delle authority, si comportano come di fronte a una museruola: protestano, e lavorano per neutralizzarla. Come è appena successo per la proposta Liikanen sulla separazione tra banca commerciale e finanza, bloccata dal Commissario europeo Michel Barnier. E quando l'Eba, l'authority bancaria europea guidata da Andrea Enria, aveva preteso la ricapitalizzazione dei cinque maggiori istituti italiani, Mps incluso (il 62 per cento del sistema), tenendo conto della loro esposizione ai titoli di Stato e al rischio spread, ma anche ai derivati, è successo il finimondo con minacce di azioni legali da parte dell'Abi. Eppure oggi i fatti dimostrano che nei bilanci il peso di entrambi i fattori richiedeva di correre ai ripari. «L'Abi è stata particolarmente attiva a criticarci», ricorda Enria, «ma abbiamo tenuto duro, e oggi nessuno può vedere le banche italiane come elemento di fragilità». Mettere più capitale però non è tutto: «L'azione di riparazione del sistema prevede anche una pulizia dei bilanci che ridia fiducia al sistema», sottolinea Enria. Ma questo, di fatto, «procede a macchia di leopardo». Cioè non tutti hannno voglia di realizzarlo.
Pulizia difficile, soprattutto sul fronte dei derivati, quel tipo
di contratti finanziari su cui il Monte ora rischia 700 milioni di
perdite. Cifra che equivale probabilmente al guadagno della banca
d'affari con cui ha stipulato il derivato. «Non demonizziamoli»,
dice Mario Comana, docente di banche e intermediari finanziari
della Luiss, «anche un mutuo con un tetto al tasso da pagare è un
derivato». Rispetto a banche come Barclays, Deutsche bank, Bnp
Paribas, dove il valore dei derivati è anche il duemila per cento
dell'attivo della banca, le banche italiane si tengono ampiamente
sotto il mille per cento, roba da principianti. Tuttavia il
problema derivati non fa dormire sonni tranquilli a nessuno. Perché
a disinnescare il loro potenziale distruttivo nei bilanci e il loro
effetto di moltiplicazione del contagio ci stanno provando da anni
tutti gli organismi di regolazione. Senza risultato. «Il fatto che
siano costruiti su misura per esigenze della controparte», dice
un'analisi della Bce, «fa sì che siano contrattati over the counter
(otc)», cioè negoziati tra le parti, fuori dai mercati
regolamentati. Per loro natura restano insomma nell'oscurità.
Come dare torto, allora, a quanti oggi di fronte al caso Montepaschi si chiedono: sicuri che ci fermiamo lì? Che le magagne senesi, dalle anomalie della governance del Monte, ai premi a manager che bruciavano la cassa, allo strapotere della Fondazione e della politica, ai derivati per fare il maquillage del bilancio, siano davvero solo magagne circoscritte al caso Siena? «Facciamo fallire le banche come tutti gli altri», ha detto giorni fa da Davos il premier islandese Grimsson, dando voce alla rabbia per quel massiccio piano di sostegno finanziario che i Parlamenti europei hanno messo in campo dal 2008 a ottobre 2011, ben 4.500 miliardi di euro, pari al 37 per cento del Pil continentale.
Le banche, bontà loro, ne hanno consumati solo 1.600, a cui si sono aggiunti i 500 di liquidità a basso costo messa a disposizione dalla Bce guidata da Mario Draghi. Ma anche quando le banche non hanno ricevuto sussidi diretti, godono di un sussidio indiretto di fatto, che è quello insito nello slogan "too big to fail", troppo grande per fallire, vale a dire che la rete di sicurezza dello Stato non si vede, ma c'è.
D'altra parte come possono i governi dire no a una lobby bancaria che controlla, in Europa, attivi pari a tre volte e mezzo il Pil dell'area (negli Usa arrivano all'80 per cento)? Gli attivi di Mps, per esempio, rappresentano il 15 per cento del prodotto interno lordo del nostro paese. Impossibile mandarla in malora, e dunque ben vengano i Monti bond (dopo quelli di Tremonti), 3,9 miliardi di prestito, anche se già si sa che saranno assai difficili da ripagare e che rischiano di essere convertiti in azioni, portando lo Stato a possedere l'82 per cento del Monte (calcolo ai valori di oggi).
Almeno fossero riconoscenti, almeno abbassassero le penne, ammettendo di averla fatta grossa. No. Di fronte ai moniti delle authority, si comportano come di fronte a una museruola: protestano, e lavorano per neutralizzarla. Come è appena successo per la proposta Liikanen sulla separazione tra banca commerciale e finanza, bloccata dal Commissario europeo Michel Barnier. E quando l'Eba, l'authority bancaria europea guidata da Andrea Enria, aveva preteso la ricapitalizzazione dei cinque maggiori istituti italiani, Mps incluso (il 62 per cento del sistema), tenendo conto della loro esposizione ai titoli di Stato e al rischio spread, ma anche ai derivati, è successo il finimondo con minacce di azioni legali da parte dell'Abi. Eppure oggi i fatti dimostrano che nei bilanci il peso di entrambi i fattori richiedeva di correre ai ripari. «L'Abi è stata particolarmente attiva a criticarci», ricorda Enria, «ma abbiamo tenuto duro, e oggi nessuno può vedere le banche italiane come elemento di fragilità». Mettere più capitale però non è tutto: «L'azione di riparazione del sistema prevede anche una pulizia dei bilanci che ridia fiducia al sistema», sottolinea Enria. Ma questo, di fatto, «procede a macchia di leopardo». Cioè non tutti hannno voglia di realizzarlo.
Un rimedio, dicono all'Eba, è aumentare i requisiti patrimoniali per il rischio di credito che i derivati hanno in sé; altra contromisura, imporre che vengano trattati su una piattaforma centrale comune, per dare loro trasparenza. Di entrambi i rimedi si sta valutando l'impatto per il sistema banche, per dosare le nuove misure senza sbagliare. Di certo, sarà il prossimo campo di battaglia tra la grande lobby dei banchieri e le authority, come una eterna corsa tra guardie e ladri.
Per le banche italiane un peso particolare lo stanno assumendo le sofferenze. A fine novembre le sofferenze lorde erano 122 miliardi, due in più rispetto a ottobre. Le sofferenze nette rispetto agli impieghi hanno raggiunto la percentuale del 3,23, record degli ultimi due anni. «Ma gli accantonamenti per fare fronte alle sofferenze sono scarsi», sostiene Carlo Milani ricercatore del Centro Europa Ricerche: «erano del 50 per cento prima della crisi, ora sono scesi al 40, e questo per non deprimere gli utili; senza contare che anche l'emersione delle sofferenze in portafoglio non è del tutto veritiera. Credo che sia sottostimata di 10-15 miliardi».
Ma c'è una fragilità dell'intero sistema banche che mette in luce Marcello Messori, economista a Tor Vergata: la macchina degli utili s'è rotta. «Il modello che ha permesso alle banche di essere generose con i finanziamenti alle imprese, addossandone i costi alle famiglie, a cui vendevano obbligazioni che rendevano meno dei titoli di Stato, è finito», dice. «Ora le famiglie, dopo i casi di risparmio tradito, sono più avvertite; e prestare alle imprese è diventato rischioso».
Dunque? Dunque le banche prevedono anni magri, con una bassa crescita dei prestiti e una ripresa anemica degli utili. Nel 2014 al monte ricavi del settore mancheranno ancora 10 miliardi dell'epoca precrisi. Dileguàti, e chissà se mai torneranno. Perché il nuovo "new normal" delle aziende bancarie, lo ammettono loro stesse nell'ultimo rapporto di previsione Abi, avrà «un livello di redditività non soddisfacente né per gli azionisti né per garantire un'efficiente e sicura operatività delle banche». Quindi: le banche non falliranno, ma occhio al proprio conto corrente, dove sono gli unici soldi in circolazione.
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