Nonostante il nostro mercato del lavoro vada di male in peggio, in questa campagna elettorale non sono emerse proposte serie di riforma. Invece bisognerà intervenire, sapendo che i problemi sono tutti sul lato della domanda: mancano i posti di lavoro, non certo i potenziali lavoratori.
È davvero fastidioso il voltagabbana dilagante in quello schieramento composito che aveva votato la riforma del mercato del lavoro del governo Monti. Capirei un ravvedimento dopo essersi resi conto di effetti indesiderati della nuova normativa. Errare, dopotutto, humanum est. Ma il problema è che chi oggi volta le spalle alla riforma che ha appena approvato, lo fa prima di avere riscontri obiettivi sui suoi effetti. Bisogna dare atto al ministro Fornero di avere creato le basi per una valutazione approfondita rendendo finalmente disponibili dati che i suoi predecessori si erano tenuti per loro, per citarli e magari manipolarli a loro piacimento. Ma ci vorranno ancora dei mesi prima di avere dati sufficienti per valutare in modo adeguato l’impatto della legge 92. Chi scrive non è mai stato un sostenitore della riforma, ma è contrario ai processi sommari anche perché ci impediscono di imparare davvero dagli errori.
Deprime ancor di più notare come i voltagabbana abbiano solo nostalgia del passato, come se il nostro mercato del lavoro prima della legge Fornero funzionasse a meraviglia. Il Pdl e la Lega Nord, nei loro programmi, propongono di “tornare alla legge Biagi”. Il Movimento 5 Stelle propone addirittura la “abolizione della legge Biagi”, dimentico del fatto che, per l’appunto, ormai c’è la legge Fornero. Rivoluzione Civile chiede il ripristino dell’articolo 18. I programma del Pd e di Sel contengono solo principi generici o promesse di piani mirabolanti, tipo un “grande piano per aumentare l’occupazione femminile” o un “programma straordinario per gli asili nido”. Questi mega piani sul cui finanziamento non viene accuratamente fornito alcun dettaglio servono solo per fingere di occuparsi di quello che molti italiani percepiscono come il problema numero uno.
L’unico partito che non si limita a guardare indietro è Scelta Civica: nella postilla sul lavoro all’agenda Monti, si propone la sperimentazione di contratti più flessibili sulla base di una norma (un articolo 8 oscurato dal confronto sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori) introdotta dall’allora ministro Sacconi. L’articolo 8 del decreto legge 138 approvato nel 2011 permette alle parti sociali di derogare alle disposizioni di legge, negando qualsiasi ruolo a delle leggi dello Stato nel fissare standard minimi in termini di salario, protezione dell’impiego e orari di lavoro. La “scelta civica” è dunque quella di affidare il compito di riformare il mercato del lavoro a sindacati e Confindustria. Del resto come potrebbe chi ha imposto il voto di fiducia sulla riforma Fornero presentarsi come il riformatore della riforma?
Nonostante il nostro mercato del lavoro vada di male in peggio, chi compete in queste elezioni ci propone perciò di tornare indietro oppure di non fare proprio nulla. Non è una prospettiva particolarmente allettante. E, quale che sia il giudizio finale che si potrà dare della riforma Fornero, ci sono alcune emergenze legate all’emorragia di posti di lavoro che qualsiasi governo dovrà inevitabilmente affrontare subito. Non si può perciò restare fermi nel riformare il mercato del lavoro. Le due principali emergenze riguardano il percorso di ingresso nel mercato del lavoro e gli ammortizzatori sociali.
Un percorso di ingresso. L’unica cosa che sappiamo sin qui degli effetti della riforma Fornero è che sta contribuendo a ridimensionare alcune figure contrattuali che, prima della sua entrata in vigore, continuavano a crescere nonostante la crisi. Tra queste, il lavoro a chiamata e le associazioni in partecipazione. C’è stata una netta inversione del trend in questi contratti dal luglio 2012. Dato che la recessione era già in atto, il cambiamento di rotta può essere realisticamente attribuito alla riforma. Si tratta, in non pochi casi, di abusi compiuti da datori di lavoro che vogliono non solo risparmiare sul costo del lavoro, ma anche trasferire sul dipendente i rischi di impresa, per giunta pagandolo pochissimo. Quindi poco male, si dirà, se questi contratti sono stati ridimensionati dalla legge. Ma il problema è che a questa distruzione di posti precari non ha corrisposto la creazione di posti a maggiore stabilità.
Il caso dei contratti a progetto è eloquente a questo riguardo oltre ad essere quantitativamente più importante. Secondo le stime di Veneto Lavoro, solo il 15 per cento degli 11 mila contratti di collaborazione distrutti nel terzo trimestre del 2012 in quella regione è stato trasformato dalla stessa impresa nei mesi successivi in nuovi rapporti di lavoro. Occorre perciò creare un percorso di stabilizzazione che offra al datore di lavoro un’alternativa ai contratti di lavoro precari in essere. La riforma Fornero punta sul contratto di apprendistato, prevedendo anche forti incentivi fiscali. Ma il contratto di apprendistato, oltre ad avere forzatamente una platea limitata, richiede una normativa regionale specifica, dunque tempi lunghi, mentre siamo in piena emergenza. Non c’è tempo neanche di affidarsi a sperimentazioni locali di contratti di inserimento. Bene che il governo intervenga delineando un percorso di entrata nel mercato del lavoro alternativo ai contratti precari che si vuole scoraggiare, possibilmente proponendosi di dare orizzonti lunghi, di stabilizzare gradualmente il lavoratore.
Ammortizzatori sociali. Mancano i fondi per la cassa integrazione, il cui utilizzo è tornato ai livelli record del 2009. Si tratta di esuberi strutturali, per lo più anticamera di disoccupazione, come testimoniato soprattutto dall’esplosione di ore di cassa integrazione straordinaria. Qui occorre una scelta chiara nell’utilizzo delle poche risorse disponibili per le politiche del lavoro. Noi continuiamo a spendere mezzo punto di pil in politiche cosiddette attive del lavoro, soprattutto corsi di formazione di dubbia efficacia, che assorbono quasi 7 miliardi all’anno. In recessioni ripetute e pesanti come quelle in corso, i problemi sono tutti sul lato della domanda di lavoro, mancano i posti di lavoro, non certo i potenziali lavoratori. L’offerta di lavoro è addirittura cresciuta nell’ultimo anno in cui il numero di disoccupati è aumentato molto di più del numero di posti distrutti. In questo contesto bisogna chiedersi se non ha senso sopprimere molti di questi corsi di formazione e utilizzare le risorse così risparmiate per offrire un reddito ai disoccupati anziché a chi gestisce, sindacato in prima persona, la formazione dei disoccupati.
(21 febbraio 2013)
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