Arafat Jaradat, un giovane di 30 anni originario di un villaggio vicino a Hebron in Cisgiordania, è morto sabato in una prigione israeliana. Lascia una moglie in attesa e due figli di quattro e tre anni.
Jaradat
era stato arrestato nella notte del 18 febbraio e sottoposto a
interrogatorio dai servizi segreti dello Shin Bet nel centro di
detenzione di Al-Jalame, prima di essere trasferito nella prigione di Megiddo in Israele.
La morte di Jaradat ha dato il via ad uno sciopero della fame di massa ed ha contribuito ad innalzare la tensione, già molto alta di questi giorni, e le proteste in corso contro l’occupazione israeliana.
Immediatamente è stata chiesta un’indagine internazionale su questa morte, su cui da subito è aleggiato pesante il sospetto di tortura.
Come segnalato dall’organizzazione per i diritti umani Al Haq, i
risultati dell’autopsia eseguita poche ore fa hanno tragicamente
confermato tale sospetto.
Secondo fonti mediche palestinesi, il corpo di Jaradat mostra ferite e segni su diversi parti delle spalle, del torace, della schiena e del collo, tra cui lesioni muscolari che indicherebbero gravi torture. Diverse costole sono rotte e lesioni sono state riscontrate nel muscolo della mano destra.
Il ministro della difesa israeliano ha dichiarato che il detenuto sarebbe morto d’infarto e
che le ferite e lesioni riscontrate sul corpo potrebbero essere dovute
all’intervento di emergenza prestato in carcere nel tentativo di
rianimarlo. I risultati dell’autopsia non sarebbero comunque sufficienti,
per il portavoce israeliano, per determinare le cause della morte,
ancora da accertare.In serata le autorità Palestinesi hanno sollecitato i
medici, israeliani inclusi, che dovessero dubitare che Jaradat sia
stato torturato a morte, a visitare il suo corpo presso l’ospedale Al-Ahli a Hebron.
La storia di Jaradat ricorda quella di tanti altri detenuti palestinesi.
Secondo i dati pubblicati dal centro Addameer, che si occupa dei
diritti dei detenuti Palestinesi, negli ultimi dieci anni vi sono state
circa 700 denunce di torture nelle prigioni
israeliane. Dal 1967 (anno d’inizio dell’occupazione israeliana dei
territori palestinesi) si contano 72 morti per torture e 53 morti per
negligenze mediche nelle prigioni israeliane, nessuna delle quali è
stata propriamente investigata. La morte di Jaradat è la seconda di
quest’anno dovuta a maltrattamenti subiti in un centro
di detenzione israeliano (Ashraf Abu Dra’ è morto il 21 gennaio poco
dopo il suo rilascio, a causa delle condizioni della sua detenzione).
Il 6 settembre 1999 l’Alta Corte di giustizia israeliana ha formalmente vietato il ricorso a tecniche di tortura durante gli interrogatori,
tuttavia lasciando la porta aperta a metodi di interrogatorio
eufemisticamente denominati come “moderata pressione fisica” in caso
“ necessità di difesa” ed in situazioni di emergenza (il c.d.“ticking
bomb scenario”).
In
pratica tuttavia i detenuti palestinesi sotto sottoposti frequentemente a
diverse forme di tortura durante gli interrogatori tra cui: uso
eccessivo di bende e manette; schiaffi e calci; privazione del sonno e
isolamento; mancanza di cibo e acqua per lunghi periodi; divieto di
accedere ai bagni o di lavarsi o cambiarsi i vestiti per giorni o
settimane; esposizione ad estremo caldo o freddo; costrizione in
posizioni innaturali, esposizione a grida e forti rumori.
L’avvocato
di Jaradat, Kamil Sabbagh, ha dichiarato che il giovane si era
lamentato ripetutamente di forti dolori alla schiena ed in altre parti
del corpo dovuti ai prolungati interrogatori cui era sottoposto ogni
giorno per diverse ore, nel corso dei quali veniva picchiato, costretto a mantenere posizioni innaturali e lasciato appeso. Nonostante ciò non era stato fatto visitare da alcun dottore:
solo dopo la richiesta dell’avvocato all’udienza di giovedì scorso il
giudice, contestualmente all’estensione della detenzione di Jaradat per
ulteriori 12 giorni, aveva disposto che al detenuto venissero prestate
le necessarie cure mediche. Due giorni dopo Jaradat era morto.
Seppur molto diversa per contesto, la storia di Jaradat ricorda anche vicende a noi ben più vicine, quale quella di Stefano Cucchi
morto dopo una settimana di custodia cautelare al Regina Coeli. Sebbene
non abbia confermato con certezza le cause delle ferite sul corpo del
giovane, una recente perizia ha attribuito certamente la morte (per lo
meno) al comportamento colpevole dei medici cui era affidato nel
penitenziario romano.
Stefano Cucchi è stata la 148esima persona deceduta in un carcere italiano quell’anno: nel solo 2009 il numero dei decessi nelle nostre carceri ammontava 177,
il che rappresenta un numero impressionante per un Paese civile e
democratico. Le cause di moltissimi decessi – la maggior parte dei quali
sono giovani – rimangono ancora da accertare.
Ogni
caso di morte in carcere e presunte torture e maltrattamenti implica
pesantissime e ineludibili responsabilità dello Stato e dei suoi
rappresentanti, in uno Stato in guerra come Israele, e a maggior ragione
in uno Stato che in guerra non è e che si fregia di essere civile e
democratico, come l’Italia.
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