Persino Hegel, teorizzatore dello stato etico, ha vigorosamente sostenuto che «l'uomo che muore di fame» ha non solo il diritto, «ma il diritto assoluto di violare la proprietà di un altro» per assicurarsi la sopravvivenza.
il manifesto
| Autore:
Piero Bevilacqua
Lo ricorda Domenico Losurdo in Hegel e la
libertà dei moderni. Ecco un principio fondativo della modernità,
quella categoria che designa un'epoca della spiritualità occidentale,
oggi diventato un lemma sdrucito del linguaggio pubblicitario.
Di fronte alla persona che giace nel più estremo bisogno, perfino la
proprietà privata, il più solido architrave della società borghese,
deve cedere il passo. Dopo la conquista dell'habeas corpus, uno dei
diritti fondamentali della prima età moderna, volto a tutelare
l'individuo dall'arbitrio del potere assoluto, ecco un principio
eversore dell'ordine dominante: il diritto della persona umana a non
soccombere a quella totale assenza di diritti generata dal bisogno
estremo.
Oggi, com'è noto, il soccorso a quel bisogno, viene non solo praticato da gran parte degli stati europei, ma fa parte, grazie alla Carta dei diritti, della legislazione dell'Unione. Il reddito minimo, di cittadinanza, o comunque denominato, è una conquista della civiltà giuridica dello stato di diritto. E perciò stupisce non solo la sua assenza dall'ordinamento e dalla pratica statuale in Italia, ma anche la vaghezza, la ritrosia, la timidezza con cui il tema viene trattato dalle forze politiche e sindacali. Forse occorrerebbe collocare questo principio sullo sfondo storico che oggi lo mostra non solo necessario, ma lo proietta nel nuovo ordine possibile delle società avvenire.
È necessario rammentare che nelle odierne società industriali il reddito della grande maggioranza degli individui è dipendente dal loro lavoro salariato. Se questo viene meno, diventa precario, discontinuo, le condizioni della vita materiale precipitano e la dignità della persona, resa fragile ed esposta a forze incontrollabili, subisce uno scacco drammatico. Oggi tanto più grave quanto più elevati sono i bisogni generali e quanto più vanno deperendo le conquiste novecentesche del welfare. Ora, quali sono le possibilità che, nell'attuale modello di accumulazione capitalistica, si crei sempre nuova e stabile occupazione? Al momento appare perfino ridicolo, con una disoccupazione che in Europa investe circa 50 milioni di persone, argomentare sulle possibilità future del sistema capitalistico di assicurare lavoro stabile alla grande maggioranza dalla popolazione. Un lunghissimo inverno attende la vita di decine di milioni di cittadini, che nei prossimi anni non troveranno di che vivere. E già tale drammatico quadro consiglierebbe a governanti avveduti e prudenti di metter mano al più presto a forme di redistribuzione del reddito in forma stabile e sistematica.
Eppure occorre inserire la richiesta del reddito di cittadinanza in una prospettiva più ampia di quanto oggi non sia visibile in un intervento che può apparire solo un soccorso congiunturale. Bisogna ricordarsi da dove ha origine la presente crisi. È necessario cogliere un aspetto fondamentale dello sviluppo capitalistico degli ultimi 30 anni. È qui che occorre scorgere la poderosa inversione strategica di cui è figlio il nostro tempo. Il capitalismo ha subito un evidente deragliamento, che lo ha posto fuori dal suo lungo percorso storico. Ciò che noi chiamavamo «sviluppo» - termine sopravvissuto nell'inerzia linguistica di chi non si è accorto di quanto è accaduto - era una crescita economica che si redistribuiva largamente grazie alla pressione operaia e sindacale, governata dal potere pubblico entro entro i confini nazionali. L'emarginazione del sindacato, la scomparsa del nemico con il crollo del comunismo, lo svuotamento dei partiti di massa, la libertà quasi eslege concessa al danaro, l'apertura di un mercato del lavoro illimitato su scala mondiale hanno dato al capitale poteri forse mai posseduti in tutta la sua storia. Tali rapporti di forza così unilateralmente vantaggiosi li abbiamo visti all'opera negli ultimi decenni, nel paese-guida del capitalismo, gli Usa. Qui abbiamo assistito a un «ritorno indietro» nella condizione delle masse lavoratrici che illumina tutto il senso dell'inversione strategica. La giornata lavorativa si è allungata di quasi due mesi all'anno rispetto ai lavoratori europei - dopo quasi due secoli di progressiva riduzione - i salari sono rimasti congelati, sono nati i «lavoratori poveri», è dilagato l'indebitamento delle famiglie. E oggi, dopo 5 anni di turbolenza endemica, il capitalismo continua la sua strada invertita grazie alla libertà mondiale di cui gode, sia nella speculazione finanziaria che nella disponibilità di forza lavoro. L'imprenditoria capitalistica non aveva mai avuto a disposizione tante braccia libere, un «esercito di riserva» disposto a lavorare a qualsiasi condizione. Diciamolo con chiarezza: il capitale e il ceto politico che oggi lo rappresenta, in Europa e nel mondo, hanno un interesse strategico - e la possibilità politica di praticarlo - a mantenere una disoccupazione e una precarietà del lavoro sotto controllo, ma mediamente diffuse e costanti. Sono decisive per conservare la posizione storica di vantaggio conseguita, che consente loro di controllare una variabile importante, i salari, e continuare il processo di accumulazione nelle acque agitate della competizione mondiale. Che cosa invocano, se non tale vantaggio, le litanie quotidiane di politici ed economisti sulla necessità di riformare il mercato del lavoro? Ma tale immensa asimmetria tra capitale e lavoro, che si avvolge su se stessa e si autoperpetua, sta spingendo all'indietro il processo di civilizzazione industriale del '900.
È dunque su questo perverso interesse che occorre intervenire, rendendo gli individui potenzialmente indipendenti, per la loro possibilità di vita, dal «ricatto» del lavoro. È questo il punto archimedico su cui far leva. Occorre separare sempre più marcatamente il reddito per vivere dalla prestazione lavorativa.
Ciò peraltro non costituisce semplicemente una «concessione» utile alla coesione sociale e al sostegno alla domanda interna. Nelle nostre società viene svolta una massa gigantesca di lavoro non pagato, che accresce incessantemente la valorizzazione del capitale. La fatica quotidiana delle donne che rendono la forza-lavoro dei mariti e dei figli, oltre che la propria, pronta per la prestazione in fabbrica o in ufficio, chi la paga? Chi paga il lavoro in casa, a qualsiasi ora, del giorno e della notte, mentre si sta collegati in rete o al telefono? Per milioni di individui la giornata lavorativa è ormai senza limiti. Mentre il capitalismo si appropria quotidianamente dei saperi, idee, creatività, del general intellect, per dirla con Marx, che la massa degli individui produce incessantemente con la propria operosità molecolare.
Per questo, come dice Rodotà «Il reddito minimo si configura come punto di partenza» mentre «L'approdo è il reddito di base incondizionato per tutti, o reddito universale» (Il diritto ad avere diritti). È una prospettiva non remota, diversa da quella preconizzata da Keynes nel 1930, nel noto saggio - tanto evocato quanto poco letto - sulle Possibilità economiche per i nostri nipoti, che prevedeva l'accorciamento a 15 ore settimanali dell'orario lavorativo. E perciò si affrettava a rassicurare i moralisti di allora: «tre ore al giorno (di lavoro) sono abbastanza per soddisfare il vecchio Adamo che è nella maggior parte di noi». Forse oggi appare più percorribile la strada - preconizzata nel 1999 da Ulrich Beck, di «una società delle attività plurali». Un reddito di cittadinanza, infatti, potrebbe consentire di alternare lavoro salariato con prestazioni familiari, attività di impegno civile con l'impiego in altri servigi di volontariato. Il lavoro che esce finalmente dal regno della servitù quotidiana e si libera dalle prestazioni unilaterali che schiacciano la persona umana. Troppo ricco è diventato il capitalismo perché possa ulteriormente impedire, a chi produce la ricchezza, di essere padrone della propria vita.
www.amigi. org
Oggi, com'è noto, il soccorso a quel bisogno, viene non solo praticato da gran parte degli stati europei, ma fa parte, grazie alla Carta dei diritti, della legislazione dell'Unione. Il reddito minimo, di cittadinanza, o comunque denominato, è una conquista della civiltà giuridica dello stato di diritto. E perciò stupisce non solo la sua assenza dall'ordinamento e dalla pratica statuale in Italia, ma anche la vaghezza, la ritrosia, la timidezza con cui il tema viene trattato dalle forze politiche e sindacali. Forse occorrerebbe collocare questo principio sullo sfondo storico che oggi lo mostra non solo necessario, ma lo proietta nel nuovo ordine possibile delle società avvenire.
È necessario rammentare che nelle odierne società industriali il reddito della grande maggioranza degli individui è dipendente dal loro lavoro salariato. Se questo viene meno, diventa precario, discontinuo, le condizioni della vita materiale precipitano e la dignità della persona, resa fragile ed esposta a forze incontrollabili, subisce uno scacco drammatico. Oggi tanto più grave quanto più elevati sono i bisogni generali e quanto più vanno deperendo le conquiste novecentesche del welfare. Ora, quali sono le possibilità che, nell'attuale modello di accumulazione capitalistica, si crei sempre nuova e stabile occupazione? Al momento appare perfino ridicolo, con una disoccupazione che in Europa investe circa 50 milioni di persone, argomentare sulle possibilità future del sistema capitalistico di assicurare lavoro stabile alla grande maggioranza dalla popolazione. Un lunghissimo inverno attende la vita di decine di milioni di cittadini, che nei prossimi anni non troveranno di che vivere. E già tale drammatico quadro consiglierebbe a governanti avveduti e prudenti di metter mano al più presto a forme di redistribuzione del reddito in forma stabile e sistematica.
Eppure occorre inserire la richiesta del reddito di cittadinanza in una prospettiva più ampia di quanto oggi non sia visibile in un intervento che può apparire solo un soccorso congiunturale. Bisogna ricordarsi da dove ha origine la presente crisi. È necessario cogliere un aspetto fondamentale dello sviluppo capitalistico degli ultimi 30 anni. È qui che occorre scorgere la poderosa inversione strategica di cui è figlio il nostro tempo. Il capitalismo ha subito un evidente deragliamento, che lo ha posto fuori dal suo lungo percorso storico. Ciò che noi chiamavamo «sviluppo» - termine sopravvissuto nell'inerzia linguistica di chi non si è accorto di quanto è accaduto - era una crescita economica che si redistribuiva largamente grazie alla pressione operaia e sindacale, governata dal potere pubblico entro entro i confini nazionali. L'emarginazione del sindacato, la scomparsa del nemico con il crollo del comunismo, lo svuotamento dei partiti di massa, la libertà quasi eslege concessa al danaro, l'apertura di un mercato del lavoro illimitato su scala mondiale hanno dato al capitale poteri forse mai posseduti in tutta la sua storia. Tali rapporti di forza così unilateralmente vantaggiosi li abbiamo visti all'opera negli ultimi decenni, nel paese-guida del capitalismo, gli Usa. Qui abbiamo assistito a un «ritorno indietro» nella condizione delle masse lavoratrici che illumina tutto il senso dell'inversione strategica. La giornata lavorativa si è allungata di quasi due mesi all'anno rispetto ai lavoratori europei - dopo quasi due secoli di progressiva riduzione - i salari sono rimasti congelati, sono nati i «lavoratori poveri», è dilagato l'indebitamento delle famiglie. E oggi, dopo 5 anni di turbolenza endemica, il capitalismo continua la sua strada invertita grazie alla libertà mondiale di cui gode, sia nella speculazione finanziaria che nella disponibilità di forza lavoro. L'imprenditoria capitalistica non aveva mai avuto a disposizione tante braccia libere, un «esercito di riserva» disposto a lavorare a qualsiasi condizione. Diciamolo con chiarezza: il capitale e il ceto politico che oggi lo rappresenta, in Europa e nel mondo, hanno un interesse strategico - e la possibilità politica di praticarlo - a mantenere una disoccupazione e una precarietà del lavoro sotto controllo, ma mediamente diffuse e costanti. Sono decisive per conservare la posizione storica di vantaggio conseguita, che consente loro di controllare una variabile importante, i salari, e continuare il processo di accumulazione nelle acque agitate della competizione mondiale. Che cosa invocano, se non tale vantaggio, le litanie quotidiane di politici ed economisti sulla necessità di riformare il mercato del lavoro? Ma tale immensa asimmetria tra capitale e lavoro, che si avvolge su se stessa e si autoperpetua, sta spingendo all'indietro il processo di civilizzazione industriale del '900.
È dunque su questo perverso interesse che occorre intervenire, rendendo gli individui potenzialmente indipendenti, per la loro possibilità di vita, dal «ricatto» del lavoro. È questo il punto archimedico su cui far leva. Occorre separare sempre più marcatamente il reddito per vivere dalla prestazione lavorativa.
Ciò peraltro non costituisce semplicemente una «concessione» utile alla coesione sociale e al sostegno alla domanda interna. Nelle nostre società viene svolta una massa gigantesca di lavoro non pagato, che accresce incessantemente la valorizzazione del capitale. La fatica quotidiana delle donne che rendono la forza-lavoro dei mariti e dei figli, oltre che la propria, pronta per la prestazione in fabbrica o in ufficio, chi la paga? Chi paga il lavoro in casa, a qualsiasi ora, del giorno e della notte, mentre si sta collegati in rete o al telefono? Per milioni di individui la giornata lavorativa è ormai senza limiti. Mentre il capitalismo si appropria quotidianamente dei saperi, idee, creatività, del general intellect, per dirla con Marx, che la massa degli individui produce incessantemente con la propria operosità molecolare.
Per questo, come dice Rodotà «Il reddito minimo si configura come punto di partenza» mentre «L'approdo è il reddito di base incondizionato per tutti, o reddito universale» (Il diritto ad avere diritti). È una prospettiva non remota, diversa da quella preconizzata da Keynes nel 1930, nel noto saggio - tanto evocato quanto poco letto - sulle Possibilità economiche per i nostri nipoti, che prevedeva l'accorciamento a 15 ore settimanali dell'orario lavorativo. E perciò si affrettava a rassicurare i moralisti di allora: «tre ore al giorno (di lavoro) sono abbastanza per soddisfare il vecchio Adamo che è nella maggior parte di noi». Forse oggi appare più percorribile la strada - preconizzata nel 1999 da Ulrich Beck, di «una società delle attività plurali». Un reddito di cittadinanza, infatti, potrebbe consentire di alternare lavoro salariato con prestazioni familiari, attività di impegno civile con l'impiego in altri servigi di volontariato. Il lavoro che esce finalmente dal regno della servitù quotidiana e si libera dalle prestazioni unilaterali che schiacciano la persona umana. Troppo ricco è diventato il capitalismo perché possa ulteriormente impedire, a chi produce la ricchezza, di essere padrone della propria vita.
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