MAROCCO Coro di condanne dopo la punizione esemplare inflitta agli attivisti di Gdeim Izik «Una provocazione» Per il Fronte Polisario l'Onu deve vigilare sulle violazioni dei diritti RABAT. «Confessioni estorte con la tortura, carenza di testimoni e totale assenza di prove».
È unanime il resoconto
degli osservatori internazionali che hanno preso parte al processo ai 24
attivisti sahrawi arrestati dopo la protesta di Gdeim Izik, nel
novembre del 2010. Una punizione esemplare, quella pronunciata domenica
scorsa dai giudici del Tribunale militare di Rabat: nove condanne
all'ergastolo, tredici a pene che vanno dai venti ai trent'anni, solo
due scarcerazioni. I capi d'imputazione? Aver costituito un gruppo
armato, aver usato violenza contro i rappresentanti delle forze di
sicurezza, aver ucciso 11 agenti e profanato il cadavere di uno di essi.
Accuse pesanti, anche se non suffragate da prove tangibili. «Tutte
quelle addotte risultano totalmente inverificabili - spiega il giurista
basco Juan Soroeta, presidente della Asociacion internacional para la
observacion de los derechos humanos (Aiodh) - inoltre il processo è
stato celebrato in una maratona di nove giorni consecutivi. Gli imputati
dormivano quattro ore per notte. Una tortura già solo questo». Poi ci
sono le altre, le torture fisiche, subite durante gli interrogatori e
confessate da Naama Asfari e dagli altri imputati durante le loro
audizioni: «Siamo stati violentati con bottiglie e pezzi di legno» ha
testimoniato Asfari, che è vice presidente del Corelso, una delle
maggiori ong saharawi in tema di diritti umani. È stato arrestato il 7
novembre 2010, alla vigilia dello smantellamento del campo. Quindi
interrogato e torturato fino a perdere i sensi.
Il processo inizia lo scorso 1° febbraio. Dopo circa due anni e mezzo di detenzione preventiva, gli imputati sfilano di fronte ai giudici del Tribunale militare. Sono 22. A uno di loro, Mohammed Elayoubi, viene concessa la libertà provvisoria per motivi di salute. Un altro, Hassana Aalia, è riuscito a sfuggire alla cattura. Indossano la darrà bianca e celeste, l'abito tipico dei sahrawi. Alzano le due dita al cielo in segno di vittoria e scandiscono urlando gli slogan indipendentisti: Labadil Labadil an taqrir almasir («l'unica soluzione è l'autodeterminazione»). Ma chi sono i 24 condannati? «Si possono dividere in due categorie - spiega Maitre Boukhaled, uno degli avvocati del collegio difensivo - alcuni sono attivisti per i diritti umani. Altri facevano parte del comitato diplomatico, uno dei vari organismi autogestiti che erano sorti nell'accampamento e che si occupava di negoziare con le autorità marocchine fino alla vigilia dello smantellamento del campo». «Quello che più colpisce dal punto di vista giuridico è l'assenza di prove e testimonianze - rimarca l'avvocato italiano Francesca Doria, che ha seguito la quasi totalità delle udienze - il giudice ha sentito solo uno dei testimoni dell'accusa, stralciandone ben otto. E quest'unico testimone non ha riconosciuto nessuno degli accusati».
La carenza di evidenze probatorie ha costituito uno dei perni della strategia difensiva dei 24. Assieme alla richiesta di un cambiamento di competenza dalla Corte militare a un tribunale civile. «Il dossier che ci è stato trasmesso conteneva solo i verbali della polizia e del giudice istruttore - dice ancora Boukhaled - la procedura accusatoria si è fondata esclusivamente sulle confessioni rese dagli imputati in assenza dei loro avvocati e, per di più, in stato di detenzione nei locali della polizia giudiziaria. L'accusa ha continuato ad affermare di avere delle prove convincenti, che dagli atti sarebbe emerso un piano dettagliato per l'uccisione degli agenti. Ma noi non sappiamo ancora oggi quali siano questi atti».
Un video, di circa 15 minuti, era stato proiettato dalle autorità marocchine subito dopo i fatti di Gdeim Izik. Vi si scorgono le immagini di alcuni uomini a volto coperto, nell'atto di accanirsi sui cadaveri di alcuni agenti marocchini. La scena che ha provocato più scalpore ritrae un uomo nell'atto di orinare su uno dei corpi. Eppure le ripetute richieste da parte degli organismi internazionali (tra di essi il Consiglio di sicurezza dell'Onu e Amnesty International) per poter visionare il materiale video, sono state eluse.
La moglie di Naama Asfari, l'attivista francese Claude Mangin, è tra coloro che hanno tentato di bucare il blackout mediatico imposto dal Makhzen (il sistema) marocchino su questa vicenda. «Abbiamo cercato di far essere presenti alle udienze il maggior numero di osservatori internazionali - spiega Claude Mangin - ma neppure la supervisione legale e mediatica è servita». Tutte le udienze del processo hanno visto la partecipazione, in qualità di osservatori, di magistrati, avvocati e giornalisti provenienti da Spagna, Francia, Italia, Lussemburgo, Inghilterra e Svezia, oltre che di rappresentanti di diverse organizzazioni di diritti umani marocchine, tra cui l'Amdh. «Questa pronuncia è degna di uno stato feudale quale il Marocco è - osserva il magistrato italiano Nicola Quatrano, dell'associazione indipendente Osservatorio internazionale (Ossin) -. L'intero processo si è svolto al di fuori dallo stato di diritto. Un tribunale composto da 5 giudici che sono designati dal ministero della Difesa ha emesso una sentenza non appellabile, che era stata richiesta dal ministero della Difesa». «Una provocazione - la definisce anche Omar Mih, rappresentante del Fronte Polisario in Italia - credo che le Nazione Unite debbano ora trovare un meccanismo per il controllo della violazione dei dritti umani nel Sahara Occidentale. È necessario che la missione Minurso abbia anche questa competenza».
*************
Intervista/ HASSANNA AALIA, L'UNICO CONDANNATO SFUGGITO ALLA CATTURA
«Continuerò a lottare per gli amici in carcere e perché il mondo sappia»
Dal suo esilio spagnolo il militante 24enne lancia un appello a combattere le censure di Rabat Gil. Mas.
Il telefono squilla un paio di volte. Dall'altro capo risponde Hassanna Aalia, 24 anni, tra i nove condannati all'ergastolo per i fatti di Gdeim Izik. È l'unico dei 24 accusati ad essere ancora in libertà. L'ordine di cattura lo ha raggiunto il 13 novembre del 2011, mentre era già riparato in Spagna. Da allora vive nel Paese iberico, testimoniando in prima persona la memoria di Gdeim Izik e le persecuzioni cui sono sottoposti gli attivisti sahrawi. All'alba di domenica, quando gli è piovuta addosso la condanna all'ergastolo, si trovava a casa di amici. Esule, suo malgrado.
Se lo aspettava?
È stata una brutta sorpresa. Nessuno poteva immaginare che il Tribunale militare marocchino potesse assestare un colpo così duro alla nostra intifada pacifica. È la condanna più severa nella storia dell'attivismo sahrawi. La verità è che non ci sono prove, né testimoni di questi presunti omicidi. E non ci sono condanne per coloro che, nelle stesse circostanze, hanno ucciso alcuni attivisti sahrawi, tra i quali Najem el-Gahri, un bambino di appena 14 anni.
Una sentenza politica?
Chiaramente. L'intero processo è stato un processo politico. E come tale, richiede ora una risposta politica. L'«accampamento della dignità» a Gdeim Izik è stato l'apice della protesta pacifica dei sahrawi che vivono nei territori occupati. Tutti gli osservatori internazionali che sono stati al suo interno, lo hanno testimoniato. La primavera araba è iniziata lì. Il governo marocchino, imbarazzato dalla risonanza avuta da quell'evento, ha voluto infangarlo con queste condanne.
Cos'è successo all'alba di quell'8 novembre 2010?
Io stavo dormendo. Sono stato svegliato dal rumore degli elicotteri e dal suono delle sirene. Ho assistito allo smantellamento violento delle jaimas da parte dell'esercito marocchino. Ho visto con i miei occhi una jeep della polizia travolgere e uccidere Brahim Guergar. Posso testimoniare di aver assistito ai rastrellamenti e alle violenze compiute nel barrio della Matalla a Al Aaiun. Alcuni sahrawi hanno cercato di difendersi lanciando dei sassi sui militari: come possono aver provocato 11 morti?
Come ha fatto a sfuggire alla cattura?
Subito dopo l'8 novembre, mi sono rifugiato per due mesi in una casa. Sono stato scoperto e arrestato all'inizio del 2011. Mi hanno interrogato e torturato per tre giorni al commissariato di Al Aaiun. Schiaffi, pugni, calci e bastonate. Poi è arrivata la libertà provvisoria. A metà novembre del 2011, quando è arrivato l'ordine di cattura (l'ultimo dei 24), mi trovavo in Spagna per partecipare ad alcune iniziative realizzate da attivisti locali. Da allora non sono più potuto tornare a casa.
Qual è il suo stato d'animo?
Ho nostalgia della mia terra, della mia famiglia. A casa mia, a Al Aaiun, sono rimasti i miei genitori e i miei quattro fratelli. Ho paura delle ritorsioni che potrebbero colpirli. Mai avrei pensato di finire a vivere in un altro Paese. Mai avrei pensato di farlo da latitante. E poi ci sono gli amici che sono finiti in carcere sulla base di accuse infondate. Sento la responsabilità di testimoniare anche per loro. Sto studiando lo spagnolo, proseguirò a lottare e a viaggiare perché l'opinione pubblica sappia quali sono i metodi marocchini.
Oggi molti dei giovani che vivono nei campi rifugiati di Tindouf predicano il ritorno alla lotta armata. Che ne pensa?
I miei coetanei e amici che vivono dall'altra parte del muro si lamentano legittimamente per le pessime condizioni di vita cui sono costretti. Ma vivere senza libertà è la cosa peggiore. In tutta la mia vita io non mi sono mai sentito libero, a parte che nei giorni in cui ero a Gdeim Izik.
Che cosa si può fare ora?
L'unica cosa è cercare di rompere la censura che il Marocco sta abilmente ponendo su questi temi. Voglio lanciare un appello a tutti i mezzi di comunicazione liberi, affinché affrontino questa vicenda. È inaccettabile che nessuno ne parli. Ai politici europei, invece, chiedo che intervengano duramente contro il Marocco. Ripeto, questa materia non è più giudiziaria, ma politica. E chi si reputa dalla parte dei diritti umani deve prendere una posizione.
Il processo inizia lo scorso 1° febbraio. Dopo circa due anni e mezzo di detenzione preventiva, gli imputati sfilano di fronte ai giudici del Tribunale militare. Sono 22. A uno di loro, Mohammed Elayoubi, viene concessa la libertà provvisoria per motivi di salute. Un altro, Hassana Aalia, è riuscito a sfuggire alla cattura. Indossano la darrà bianca e celeste, l'abito tipico dei sahrawi. Alzano le due dita al cielo in segno di vittoria e scandiscono urlando gli slogan indipendentisti: Labadil Labadil an taqrir almasir («l'unica soluzione è l'autodeterminazione»). Ma chi sono i 24 condannati? «Si possono dividere in due categorie - spiega Maitre Boukhaled, uno degli avvocati del collegio difensivo - alcuni sono attivisti per i diritti umani. Altri facevano parte del comitato diplomatico, uno dei vari organismi autogestiti che erano sorti nell'accampamento e che si occupava di negoziare con le autorità marocchine fino alla vigilia dello smantellamento del campo». «Quello che più colpisce dal punto di vista giuridico è l'assenza di prove e testimonianze - rimarca l'avvocato italiano Francesca Doria, che ha seguito la quasi totalità delle udienze - il giudice ha sentito solo uno dei testimoni dell'accusa, stralciandone ben otto. E quest'unico testimone non ha riconosciuto nessuno degli accusati».
La carenza di evidenze probatorie ha costituito uno dei perni della strategia difensiva dei 24. Assieme alla richiesta di un cambiamento di competenza dalla Corte militare a un tribunale civile. «Il dossier che ci è stato trasmesso conteneva solo i verbali della polizia e del giudice istruttore - dice ancora Boukhaled - la procedura accusatoria si è fondata esclusivamente sulle confessioni rese dagli imputati in assenza dei loro avvocati e, per di più, in stato di detenzione nei locali della polizia giudiziaria. L'accusa ha continuato ad affermare di avere delle prove convincenti, che dagli atti sarebbe emerso un piano dettagliato per l'uccisione degli agenti. Ma noi non sappiamo ancora oggi quali siano questi atti».
Un video, di circa 15 minuti, era stato proiettato dalle autorità marocchine subito dopo i fatti di Gdeim Izik. Vi si scorgono le immagini di alcuni uomini a volto coperto, nell'atto di accanirsi sui cadaveri di alcuni agenti marocchini. La scena che ha provocato più scalpore ritrae un uomo nell'atto di orinare su uno dei corpi. Eppure le ripetute richieste da parte degli organismi internazionali (tra di essi il Consiglio di sicurezza dell'Onu e Amnesty International) per poter visionare il materiale video, sono state eluse.
La moglie di Naama Asfari, l'attivista francese Claude Mangin, è tra coloro che hanno tentato di bucare il blackout mediatico imposto dal Makhzen (il sistema) marocchino su questa vicenda. «Abbiamo cercato di far essere presenti alle udienze il maggior numero di osservatori internazionali - spiega Claude Mangin - ma neppure la supervisione legale e mediatica è servita». Tutte le udienze del processo hanno visto la partecipazione, in qualità di osservatori, di magistrati, avvocati e giornalisti provenienti da Spagna, Francia, Italia, Lussemburgo, Inghilterra e Svezia, oltre che di rappresentanti di diverse organizzazioni di diritti umani marocchine, tra cui l'Amdh. «Questa pronuncia è degna di uno stato feudale quale il Marocco è - osserva il magistrato italiano Nicola Quatrano, dell'associazione indipendente Osservatorio internazionale (Ossin) -. L'intero processo si è svolto al di fuori dallo stato di diritto. Un tribunale composto da 5 giudici che sono designati dal ministero della Difesa ha emesso una sentenza non appellabile, che era stata richiesta dal ministero della Difesa». «Una provocazione - la definisce anche Omar Mih, rappresentante del Fronte Polisario in Italia - credo che le Nazione Unite debbano ora trovare un meccanismo per il controllo della violazione dei dritti umani nel Sahara Occidentale. È necessario che la missione Minurso abbia anche questa competenza».
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Intervista/ HASSANNA AALIA, L'UNICO CONDANNATO SFUGGITO ALLA CATTURA
«Continuerò a lottare per gli amici in carcere e perché il mondo sappia»
Dal suo esilio spagnolo il militante 24enne lancia un appello a combattere le censure di Rabat Gil. Mas.
Il telefono squilla un paio di volte. Dall'altro capo risponde Hassanna Aalia, 24 anni, tra i nove condannati all'ergastolo per i fatti di Gdeim Izik. È l'unico dei 24 accusati ad essere ancora in libertà. L'ordine di cattura lo ha raggiunto il 13 novembre del 2011, mentre era già riparato in Spagna. Da allora vive nel Paese iberico, testimoniando in prima persona la memoria di Gdeim Izik e le persecuzioni cui sono sottoposti gli attivisti sahrawi. All'alba di domenica, quando gli è piovuta addosso la condanna all'ergastolo, si trovava a casa di amici. Esule, suo malgrado.
Se lo aspettava?
È stata una brutta sorpresa. Nessuno poteva immaginare che il Tribunale militare marocchino potesse assestare un colpo così duro alla nostra intifada pacifica. È la condanna più severa nella storia dell'attivismo sahrawi. La verità è che non ci sono prove, né testimoni di questi presunti omicidi. E non ci sono condanne per coloro che, nelle stesse circostanze, hanno ucciso alcuni attivisti sahrawi, tra i quali Najem el-Gahri, un bambino di appena 14 anni.
Una sentenza politica?
Chiaramente. L'intero processo è stato un processo politico. E come tale, richiede ora una risposta politica. L'«accampamento della dignità» a Gdeim Izik è stato l'apice della protesta pacifica dei sahrawi che vivono nei territori occupati. Tutti gli osservatori internazionali che sono stati al suo interno, lo hanno testimoniato. La primavera araba è iniziata lì. Il governo marocchino, imbarazzato dalla risonanza avuta da quell'evento, ha voluto infangarlo con queste condanne.
Cos'è successo all'alba di quell'8 novembre 2010?
Io stavo dormendo. Sono stato svegliato dal rumore degli elicotteri e dal suono delle sirene. Ho assistito allo smantellamento violento delle jaimas da parte dell'esercito marocchino. Ho visto con i miei occhi una jeep della polizia travolgere e uccidere Brahim Guergar. Posso testimoniare di aver assistito ai rastrellamenti e alle violenze compiute nel barrio della Matalla a Al Aaiun. Alcuni sahrawi hanno cercato di difendersi lanciando dei sassi sui militari: come possono aver provocato 11 morti?
Come ha fatto a sfuggire alla cattura?
Subito dopo l'8 novembre, mi sono rifugiato per due mesi in una casa. Sono stato scoperto e arrestato all'inizio del 2011. Mi hanno interrogato e torturato per tre giorni al commissariato di Al Aaiun. Schiaffi, pugni, calci e bastonate. Poi è arrivata la libertà provvisoria. A metà novembre del 2011, quando è arrivato l'ordine di cattura (l'ultimo dei 24), mi trovavo in Spagna per partecipare ad alcune iniziative realizzate da attivisti locali. Da allora non sono più potuto tornare a casa.
Qual è il suo stato d'animo?
Ho nostalgia della mia terra, della mia famiglia. A casa mia, a Al Aaiun, sono rimasti i miei genitori e i miei quattro fratelli. Ho paura delle ritorsioni che potrebbero colpirli. Mai avrei pensato di finire a vivere in un altro Paese. Mai avrei pensato di farlo da latitante. E poi ci sono gli amici che sono finiti in carcere sulla base di accuse infondate. Sento la responsabilità di testimoniare anche per loro. Sto studiando lo spagnolo, proseguirò a lottare e a viaggiare perché l'opinione pubblica sappia quali sono i metodi marocchini.
Oggi molti dei giovani che vivono nei campi rifugiati di Tindouf predicano il ritorno alla lotta armata. Che ne pensa?
I miei coetanei e amici che vivono dall'altra parte del muro si lamentano legittimamente per le pessime condizioni di vita cui sono costretti. Ma vivere senza libertà è la cosa peggiore. In tutta la mia vita io non mi sono mai sentito libero, a parte che nei giorni in cui ero a Gdeim Izik.
Che cosa si può fare ora?
L'unica cosa è cercare di rompere la censura che il Marocco sta abilmente ponendo su questi temi. Voglio lanciare un appello a tutti i mezzi di comunicazione liberi, affinché affrontino questa vicenda. È inaccettabile che nessuno ne parli. Ai politici europei, invece, chiedo che intervengano duramente contro il Marocco. Ripeto, questa materia non è più giudiziaria, ma politica. E chi si reputa dalla parte dei diritti umani deve prendere una posizione.
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