Pierfranco Pellizzetti Saggista
D’altro canto sarebbe chiedere troppo a un Paese che non ha conosciuto le rivoluzioni della modernità, che trovavano la propria massa di manovra nei ceti indipendenti; che ha frequentato solo controrivoluzioni opera di caste e cleri, a misura della propria condizione servile.
In questa corsa al personaggio-rifugio (una sorta di pater familias in sedicesimo) tornano in auge i miti dei capitani d’industria – a suo tempo aggettivati da Massimo D’Alema “coraggiosi” – che in questi tempi erano andati appannandosi. Messi in ombra dalle ricette salvifiche “un tanto al chilo” dei giovani demagoghi post-berlusconiani (Renzi, poi Salvini e Di Maio).
La recente dipartita del boss di FCA Sergio Marchionne e relativa commozione mediatica ha riportato alla ribalta il prodotto; e da qualche parte si è ripreso a rimpiangere la mancanza di grandi imprenditori e manager per trarre l’Italia fuori dalle secche della crisi. Nel mood ha ripreso forza l’icona del capitalismo italiano, incarnata dall’avvocato Giovanni Agnelli. Social compresi.
Nell’ennesima fiera del tirare a casaccio, forse varrebbe la pena di ripensare criticamente la biografia imprenditoriale (e non solo) di questi italici campioni d’azienda. Mettendo a specchio l’azzimato e sempre annoiato (dicesi “britannico spleen”: molto chic) viveur, che annichiliva torme di parvenus (sindacalisti compresi) con l’esibizione di un lusso sfrontato, e lo sbulinato mega-dirigente italo-canadese.
Che cosa accomuna l’Agnelli, assenteista padre di famiglia (cui preferiva la frequentazione di combriccole di sfaticati dolcevitari suoi pari), fallimentare leader della categoria (dopo l’ennesimo cedimento al potere della politica romana Eugenio Scalfari, in una temporanea fase anti-establishment, lo definì “avvocato panna montata e meringhe”), imprenditore intermittente (sempre in bilico tra industrialismo e finanza, tra Ghidella e Romiti; per poi schierarsi con quest’ultimo) e il succitato Marchionne? La condivisione di un principio riassumibile in uno spot semplice, semplice: tutto alla proprietà. Alla faccia delle mene buoniste anni Ottanta sull’etica degli affari. Come è logico: il capitale privato è per sua natura impaziente e pretende ritorni sul breve/brevissimo periodo. Per questo è più fighter che builder, dunque speculativo. Difatti l’investimento su tempi lunghi è da sempre pubblico. Mentre per tutta la sua vita Agnelli ha presidiato il capitale di famiglia (e relative rendite milionarie); Marchionne ha portato in salvo il malloppo padronale, lontano dall’Italia a cui la fabbrica aveva succhiato miliardoni per oltre un secolo.
Sicché, qualora volessimo affrontare il tema declino industriale in maniera meno puerile, il desaparecido da rimettere al centro non è il solito salvatore della Patria, bensì qualcosa di assai più serio e costruttivo; quanto impegnativo e faticoso: si chiama politica industriale. Ciò che fanno le grandi nazioni quando individuano le specializzazioni competitive coerenti con la propria realtà industriale e le vocazioni di territorio. Per cui la Germania sceglie di virare le proprie produzioni meccaniche nelle fasce alte di prodotto, la Francia punta sul settore dei trasporti pubblici. Perfino la piccola Finlandia si era specializzata nella telefonia mobile. Come grandi opzioni politiche nazionali. Noi non abbiamo ancora deciso se vogliamo restare un Paese industriale o affrontare il viaggio carico di incognite nel post-industriale.
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