mercoledì 15 agosto 2018

Mafie & Lavoro. Esclusivo: la nuova Gomorra è a Foggia

La Società: è il nome della quarta mafia, dimenticata. Che controlla tutto in modo feroce. Nella terra  del premier Conte e dei braccianti morti  di caporalato.

Esclusivo: la nuova Gomorra è a FoggiaNell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini e gli acini grappoli, ormai pronti alla vendemmia. Le parole di John Steinbeck, scritte nell’immortale romanzo del 1939 sui braccianti immigrati in California, riaffiorano anche quest’anno dalla sterminata piana agricola di Foggia. È agosto e come ogni estate è tempo di pellegrinaggi. Arriva il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte che qui, nella provincia foggiana dell’Altra Gomorra, la quarta mafia, è nato e cresciuto. Lo segue il suo vice Matteo Salvini, ministro dell’Interno. Parole indignate, foto di circostanza in prefettura. Due incidenti stradali hanno ucciso in poche ore sedici operai della terra: quattro sulla provinciale tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri, dodici sulla statale 16 vicino a Lesina. La geografia del caporalato è sempre la stessa. E anche i riti istituzionali. Poi tutti a casa.
Vedremo tra dodici mesi chi tornerà. E cosa farà nel frattempo il governo del cambiamento, che solo poche settimane fa ha insultato gli schiavi delle campagne italiane, definendo la loro sofferenza una pacchia.


La società da queste parti non è soltanto una comunità di persone sottomesse a un modello di vita spietato. La “Società foggiana” è anche il nome che la quarta mafia si è data e che quel modello impone e domina. L’Altra Gomorra è un’organizzazione ermetica, economica e militare, molto poco raccontata. «In taluni contesti il radicamento socio-culturale del sistema mafioso è così forte da produrre una generalizzata e assoluta omertà che, talvolta, trasmoda nella connivenza se non addirittura nel consenso», scrive il Consiglio superiore della magistratura nella sua analisi sulla situazione a Foggia deliberata il 18 ottobre 2017: «A riprova di questo, deve evidenziarsi che dal 2007 non si hanno collaboratori di giustizia interni ai circuiti associativi. Dall’inizio degli anni Ottanta a oggi, su circa trecento delitti di sangue ascrivibili al contesto mafioso foggiano, l’80 per cento sono ancora irrisolti». L’ultima strage è di un anno fa: il 9 agosto nei campi di San Marco in Lamis i colpi calibro 7,62 di un Kalashnikov e calibro 12 di un fucile da caccia uccidono il boss del Gargano Mario Luciano Romito, 50 anni, suo cognato che gli faceva da autista, Matteo De Palma, 44 anni, e due agricoltori, Luigi e Aurelio Luciani, 47 e 43 anni. I fratelli Luciani non c’entravano nulla con gli affari di Romito: li hanno assassinati solo perché, incolpevoli testimoni, passavano di lì.

Ecco, se si vuole davvero salvare la provincia che produce gran parte degli alimenti per le nostre tavole e liberare la sua gente dall’oppressione dell’Altra Gomorra bisogna continuare da lì: da quel venti per cento di casi invece risolti, di sentenze importanti passate in giudicato, di relazioni e patti tra batterie di killer e famiglie pazientemente scoperti grazie alla collaborazione tra la Procura del capoluogo e il pool della Procura distrettuale antimafia di Bari. Collaborazione che ha trasformato in processi il faticoso lavoro di carabinieri, polizia e guardia di finanza. Altrimenti vince l’omertà. E quella nasconde tutto, non solo i crimini di mafia.

Lungo la statale 16 da Cerignola a San Severo maturano i grappoli sempre più vicini alla vendemmia. Schiene nere di polvere e sudore si piegano da ore sulle distese basse di pomodori. A ridosso dei campi, la fila di Tir attende che i cassoni siano pieni, i camionisti dormono al fresco climatizzato delle loro cabine e i furgoni dei caporali cuociono al sole. Dai rottami dell’incidente di Lesina esce la globalizzazione della manodopera: targa bulgara, autista marocchino, vittime ventenni dell’Africa subsahariana, raccolto italiano, otto posti a sedere, quattordici passeggeri a bordo, due sopravvissuti. Salvini può anche urlare «prima gli italiani»: ma nei paesi svuotati dal crollo demografico, dall’emigrazione e dalla legittima ambizione di non sporcarsi più le mani, chi lavorerebbe nei campi?


L’andata e il ritorno sono i momenti più pericolosi della giornata. Nell’inchiesta sotto copertura con cui L’Espresso aveva raccontato dal di dentro la schiavitù dei nuovi braccianti, eravamo più volte saliti su uno di quei mezzi. È il resoconto di quanto accade a migliaia di lavoratori ogni giorno, prima dell’alba e dopo il tramonto. Si parte in nove su una Volkswagen Golf: «Tre davanti. Cinque sul sedile dietro. E un ragazzo raggomitolato come un peluche sul pianale posteriore. Solo per questo trasporto il caporale al volante si prenderà quaranta euro dalle nostre paghe. La Golf stracarica corre e sbanda sulla strada stretta dove due auto si affiancano a malapena. Il contachilometri segna cento all’ora. Una follia». Stornara, provincia di Foggia, agosto 2006.

Come per ogni traffico illegale, il trasporto dei braccianti è il tratto scoperto da cui qualunque buon investigatore non farebbe fatica a risalire alla rete che li sfrutta. Ma d’estate i ministeri riducono al minimo il loro personale. E nelle altre stagioni foggiane i campi non hanno bisogno di molta manodopera. Aboubakar Soumahoro, il sindacalista di base ivoriano che con la sua voce riempie il vuoto confederale, invita a Foggia il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, perché si renda conto di persona. Il ministro risponde promettendo un concorso straordinario per assumere nuovi ispettori. Servirebbero, eccome. Purché, per la loro incolumità, non siano della zona.

In mezzo a tanti funzionari integerrimi e ai risultati ottenuti, l’analisi del Consiglio superiore della magistratura denuncia una situazione spaventosa: «Si legge nella relazione trasmessa dal Procuratore di Bari che, in alcune indagini, è stato accertato che l’organizzazione criminale, effettuando una preventiva selezione tra le giovani donne ridotte in schiavitù, individua quelle da destinare alla prostituzione, con il ruolo precipuo di adescare i “pubblici ufficiali” cui rendere prestazioni sessuali non retribuite economicamente, ma con la prestazione di favori, in particolare l’omissione di controlli nei campi in cui si attua lo sfruttamento lavorativo dei braccianti».
Il 3 maggio di quest’anno, in un’altra indagine, la Guardia di finanza di Foggia arresta tre ispettori dell’Ufficio territoriale del lavoro, tra cui un dirigente: sono accusati di aver addolcito i loro verbali e di aver violato l’obbligo di comunicare all’autorità giudiziaria le notizie di reato accertate nei confronti di imprenditori del settore agricolo, edilizio e alimentare. Tra gli indagati, secondo gli atti della Procura di Foggia, anche un sottufficiale dei carabinieri, a capo del locale nucleo investigativo del ministero del Lavoro. Nella terra della buona tavola affacciata sul mare ci si rovina per poco: le mazzette sarebbero state incassate sotto forma di mozzarelle, caciocavallo, vino e la raccomandazione di un figlio perché superasse il concorso in Marina militare. Nella primavera 2017 sempre la Guardia di finanza di Foggia indaga per falso, abuso d’ufficio e rivelazione di segreti un funzionario del Servizio prevenzione sicurezza ambienti di lavoro della Asl e altri dodici pubblici ufficiali. In questo contesto non stupisce l’omertà che protegge l’Altra Gomorra.

Non siamo però all’anno zero. La storia della “Società foggiana” è ormai scritta in varie sentenze di condanna che hanno premiato la collaborazione nello scambio di informazioni tra la Procura locale e la Direzione distrettuale antimafia di Bari. E le sue geografie familiari, da Foggia alle spiagge del Gargano, fanno oggi parte dell’”Enciclopedia delle mafie”, l’opera in sei volumi sulle associazioni criminali italiane curata dal maresciallo dei carabinieri Fabio Iadeluca e pubblicata da Curcio Editore. Una storia tenuta a battesimo quarant’anni fa dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. E, dopo ondate di omicidi e regolamenti di conti interni, accolta nella costellazione dei clan di Gomorra raccontati da Roberto Saviano. Proprio vicino a Rodi Garganico le teste di legno di Sandokan, il boss Francesco Schiavone, 64 anni, avevano investito nella costruzione di residenze per turisti. E proprio agli alleati foggiani i camorristi casalesi avevano affidato la loro stamperia di banconote: un affare di milioni di euro in tagli da venti, prodotti su carta filigranata rubata alle Cartiere di Fabriano, che ancora oggi obbligano commercianti e benzinai a passare l’incasso ai raggi ultravioletti. Una joint-venture mafiosa per produrre quantitativi industriali di denaro falso, scoperta nel 2012 dai magistrati antimafia di Bari con l’operazione Filigrana. «Il salto di qualità la mafia foggiana lo ha compiuto potenziando significativamente la vocazione affaristico-imprenditoriale e la capacità di infiltrazione», spiega il magistrato della Direzione distrettuale barese, Giuseppe Gatti, autore con Giovanni Bianco del libro “Alle mafie diciamo NOi”. E il nuovo fronte è proprio quello delle agromafie.

Seguendo le tracce di una precedente indagine pugliese del 2012, otto mesi fa la Procura di Ravenna sequestra beni per venti milioni. La rete lavava con il vino gli incassi di estorsioni e usura inviati da Foggia: secondo l’accusa, fatturavano spedizioni fittizie di mosto dalla Puglia. In realtà, al Nord arrivavano i soldi. Al centro della presunta rete di riciclaggio, un imprenditore romagnolo che produce mosto concentrato rettificato, già processato per gli stessi reati. Sei anni fa gli trovarono 23 milioni depositati nelle banche di San Marino: nove sono ancora sotto sequestro, quattordici sono invece rientrati regolarmente in Italia grazie allo scudo fiscale.

Le famiglie Sinesi-Francavilla e Moretti-Pellegrino non si occupano di caporalato. Troppo faticoso fronteggiare gli affamati. Ma nell’estate 2015 la “Società foggiana” prende di mira anche la raccolta del pomodoro. Gli sgherri mandati allo scoperto puntano direttamente ai trasporti: l’immagine di un Tir danneggiato rende molto di più del pestaggio di una squadra di braccianti. «Ha suscitato estremo allarme sociale», è scritto nelle note della Procura antimafia di Bari, «il fatto che l’attività delittuosa sia avvenuta all’interno dell’area di parcheggio di una delle più importanti e moderne strutture di lavorazione del pomodoro in Italia». La squadra mobile di Foggia arresta sei esattori del clan Sinesi-Francavilla, tra cui il presunto capo, Roberto Sinesi. Ai camionisti chiedevano cinquanta euro a camion. La fama dell’Altra Gomorra è così radicata che con trasportatori, commercianti, imprenditori le riscossioni avvengono senza violenze. Basta pronunciare il nome.

«Le denunce sono rare e, nel giudizio, spesso sono seguite da ritrattazioni», ammette il Consiglio superiore della magistratura. «Lei quanto guadagna al mese?», chiede il magistrato alla vittima, durante un processo per estorsione. «Guadagno duemila euro», risponde il commerciante: per paura sostiene che i mille euro consegnati al boss non siano il pizzo, ma un amichevole prestito. Poi cambia versione e dichiara di aver comprato da lui un motorino che non esiste. «Ha persone da mantenere?», domanda il pubblico ministero. «Ho tre figli». «Sua moglie è a carico?». «Certo». «Ha una casa di sua proprietà?». «No, in fitto. Pago 600 euro». «Senta, è solito concedere prestiti a terzi con cui non ha legami?». «No, non ho la finanziaria», risponde il commerciante. E rischia a sua volta un’incriminazione.

Chi in città si sente ancora libero, si aggrappa alla memoria di un eroe: Giovanni Panunzio, imprenditore edile e padre, ucciso a 51 anni il 6 novembre 1992 perché, come Libero Grassi un anno prima a Palermo, non si è arreso ai mafiosi locali e li ha denunciati. Un caso risolto quasi subito. Gli assassini vengono condannati grazie a un testimone coraggioso, un commerciante di cani. Il processo si conclude in Cassazione nel 1999 con il primo riconoscimento sulla natura mafiosa della “Società foggiana”. Ed è proprio da quel coraggio che questa terra spaccata dal sole, attraverso le associazioni antiracket, le manifestazioni di Libera, la solidarietà della Caritas, cerca oggi di rompere il silenzio della paura: quella legge criminale che non fa differenze tra vittime italiane e braccianti stranieri.

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