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Anche quest’estate in televisione è arrivato l’immancabile ciclo dei
film di “Rocky”. Pur essendo ogni produzione sostanzialmente uguale
all’altra, Sylvester Stallone riesce sempre a catturare l’attenzione di
chi ha un briciolo d’ambizione. Come fa? Non certo per i muscoli o la
capacità di stare davanti ad una telecamera, se è vero che ieri come
oggi ci sono attori ben più atletici e bravi a recitare. Nessuno però
ha saputo incarnare il sogno americano meglio di lui. Balboa è un uomo
di umili origini e “solo” che contro ogni previsione riesce ad
affermarsi in un mondo difficile e competitivo come quello americano. Un
sogno alla portata di tutti: basta impegnarsi. Questo messaggio è
affascinante; tutto l’Occidente ne è stato contagiato e sognare è
gratis. A soli 40 anni dall’uscita del primo “Rocky”, gli americani si
svegliano però dai sogni hollywoodiani e cominciano a fare due conti.
Per capire se una società sta progredendo o meno occorre infatti
paragonarla con altre simili per sistema produttivo, servizi, cultura,
religione, nonchè col proprio passato. E’ ovvio che non possiamo mettere
a confronto il tenore di vita dell’americano medio con quello di un
pakistano, anche se c’è sempre qualche imbecille ideologizzato che lo
fa. Fatta questa doverosa premessa, vediamo.
Negli Usa la disoccupazione si aggira oggi al 4% rispetto a una media europea doppia (9%). Quindi gli Usa hanno visto migliorare questo dato rispetto a qualche anno fa, durante il periodo della crisi dei mutui subprime, ma i salari minimi negli Stati Uniti sono scesi di un terzo in termini reali rispetto agli anni Settanta mentre in un paese come la Francia
sono saliti di quattro volte. Inoltre, chi rimane senza lavoro in
America non gode di ammortizzatori sociali, in buona sostanza, mentre
negli altri paesi occidentali gli amministratori e l’opinione pubblica
sono stati più bravi a tenere sotto controllo le disuguaglianze
resistendo all’idea di convertire l’economia
di mercato in una società di mercato. In poche parole, settori chiave
come l’educazione, la sanità e la sicurezza sono stati sottratti alla
deregulation più becera. La minaccia esiste e si fa sempre più grande,
sia chiaro, ma rispetto agli Stati Uniti sono ancora rose e fiori. Come
ripeto sempre fino alla nausea, la povertà e la ricchezza sono concetti,
e non situazioni oggettive. Lo so che a molti questo ragionamento
sembra ostico e controintuitivo, ma se nel mondo tutti morissero di fame
mediamente attorno ai 30 anni, nessuno di costoro direbbe che è
“povero”. Povertà e ricchezza, insomma, sono due facce della stessa
medaglia: non può esserci la ricchezza se non c’è la povertà, e
viceversa.
La situazione più intelligente, sic stantibus rebus, è quella di
appianare il più possibile le disuguaglianze, perchè sono queste che
rendono orrenda la povertà. Oggi davanti ai supermercati possiamo
trovare un barbone che dichiara di fare 3 pasti al giorno ed è in
sovrappeso, ma nessuno sano di mente si azzarderebbe a sostenere che
egli non sia povero. Completamente rovesciata era la situazione
nell’immediato dopoguerra italiano, ad esempio, quando essere in
sovrappeso e mangiare tre volte al giorno era un lusso riservato a pochi
fortunati. Ma vediamoli questi americani – impiegati al 96% – che razza
di esistenza conducono. I dati Ocse sulla disuguaglianza ci dicono che
il paese dove è in condizioni più radicali è l’America (Usa)
e quelli dove è minore sono il Giappone e poi l’Italia. Ciò puo anche
destare sorpresa, ma è nei numeri e accade per il semplice fatto che
Giappone e Italia hanno molto debito pubblico, ma poco debito privato. A rendere povere le persone è il debito privato e non il debito pubblico. A meno che, come sta accadendo in Italia, non si decida a tavolino che anche il debito pubblico
diventi un problema cedendone la gestione a speculatori, banchieri
privati ed economisti rimasti fermi alle ricette ottocentesche.
Nello studio dell’Ocse, si vede chiaramente come la concentrazione
della ricchezza non sia in mano alla classe media, che ne detiene appena
il 30%. Il grosso degli americani è povero, nel senso che ha un lavoro
magari, ma non ha beni nella propria disponibilità, al netto dei debiti
contratti. Un altro studio del 2015 della Google Consumer Survey ha
infine rivelato che 6 americani su 10 hanno meno di mille dollari sul
conto corrente e che 1 su 5 il conto proprio non ce l’ha. A possedere un
immobile (quasi sempre preso a debito con mutuo) sono solo il 63,5%
degli statunitensi, contro il 74% per cento degli italiani. Insomma, se
per le multinazionali americane la pacchia continua ed anzi aumenta, per
l’americano medio le scelte economiche degli ultimi decenni, da Ronald
Reagan in poi, sono state un autentico disastro che rivela, attraverso i
dati sul debito privato, la reale possibilità per Rocky di comprare
villa con piscina ad Adriana. In questo modello, pur caratterizzato oggi
da alta occupazione, non è possibile affrontare con serenità nessun
tipo di spesa imprevista né, in particolare, pensare di accumulare
fortuna attraverso risparmi e investimenti.
(Massimo Bordin, “Il 60% degli americani non possiede nulla”, dal blog “Micidial” del 25 luglio 2018).
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sabato 4 agosto 2018
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