Susanna Marietti Coordinatrice associazione Antigone
La sindaca Virginia Raggi
ha parlato di “un modo per rendersi utili alla società e avviare un
percorso di reinserimento”. Non è la prima volta che si sperimenta
qualcosa di simile. Già nel marzo scorso alcuni detenuti avevano cominciato a lavorare al progetto “Lavori di pubblica utilità e recupero del patrimonio ambientale”, dedicandosi alla cura del verde pubblico della Capitale.
Nonostante io creda
fermamente nell’importanza che le persone detenute non trascorrano
l’intero tempo della pena chiuse tra quattro mura ma vengano
progressivamente reintegrate nella società attraverso percorsi che
rendano sensato il periodo dell’espiazione, questo progetto – pensato
sicuramente con le migliori intenzioni – non mi convince. E vi spiego il
perché.
Uno degli insegnamenti basilari che ci arriva dal diritto internazionale
è che la pena non deve consistere in nulla più di se stessa (cioè di
quanto esplicitamente previsto dal codice penale come punizione per il
reato commesso) e di quelle inevitabili conseguenze che essa si porta
dietro. Se la pena è la reclusione, come conseguenza inevitabile non potrò ad esempio guidare liberamente la mia motocicletta,
ma potrò invece leggere, andare a scuola, lavorare. Nessun diritto
fondamentale deve perdersi se non quelli strettamente connessi alla pena
da espiare. Come potremmo altrimenti pensare di recuperare alla società
le persone che da essa si sono allontanate con la commissione del
reato? Il lavoro è un diritto fondamentale. Ma il lavoro, così come
pensato dal primo articolo della nostra Costituzione, è necessariamente retribuito. Altrimenti rischia di essere lavoro forzato.
È vero, i detenuti accettano volontariamente di andare ad aggiustare le
buche. Ma in una posizione di debolezza contrattuale quale quella in
cui si trovano, chiunque lo farebbe. Il tempo della pena dovrebbe essere
responsabilizzante e riprodurre per quanto possibile quella vita
ordinaria alla quale le persone si spera ritorneranno. Il fine della
pena è proprio questo. Ma non credo che un lavoro non retribuito,
paternalisticamente inteso per far espiare al reo le sue colpe (che già
sta pagando con la pena), possa davvero responsabilizzare.
Inoltre: non mi pare dignitoso quel che si è visto e si vedrà nelle strade romane. E la dignità umana
è un limite che mai l’istituzione deve violare. Un gruppo di detenuti,
vestiti in maniera uguale e identificabile, circondati da poliziotti
penitenziari – che potrebbero invece restare nelle carceri a portare
avanti il loro prezioso lavoro – è un quadro che evoca immagini poco
nobili del passato.
Infine, fondamentale: il
mercato del lavoro viene inevitabilmente inquinato da progetti di questo
tipo. Certo, il Comune di Roma risparmia soldi facendo lavorare gratis i
detenuti a riempire le buche. Ma detenuti che lavorano gratis, in
cambio di un qualche giudizio positivo sull’andamento della loro pena,
costituiscono una concorrenza al ribasso per i lavoratori liberi. Il rischio è che, di categoria in categoria, si aprano squarci di dequalificazione e deregolamentazione del lavoro salariato.
Le politiche carcerarie
hanno bisogno di un retroterra culturale complesso per la loro
delineazione. Sono tanti gli elementi che bisogna conoscere e tenere in
considerazione. Le pur buone intenzioni del Comune di Roma e del Dap rischiano di avere non poche controindicazioni.
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